La morte di Gilberto, il Benetton meno Benetton: il crollo del ponte e la tragedia dostoevskijana di un destino fuori misura

 

Si sentiva innocente e personalmente lo era.  Ma l’ idea che la sua morte sia la prova di quella sua innocenza  e che Gilberto Benetton sia stato una vittima di tutti noi è una falsità che impedisce di capire la tragedia dostoevskijana di un signor imprenditore smarrito dentro l’azzardo dell’industria italiana, vittima di un destino fuori misura, quello di una piccola impresa gioiello che aveva appunto sfidato e vinto la misura. Di sicuro nessuno può gettare in faccia ai giudici la morte di Gilberto, che stava molto male quando crollò il ponte di Genova, e già in luglio, al funerale del fratello Carlo, si era presentato bianco in viso e smagrito, consumato nel corpo e nella testa, segnato com’era dalla leucemia che ora  lo ha stroncato.

E tuttavia c’è un legame tra questa morte e i morti di Genova, tra la malattia di Gilberto e le indagini sull’ azienda che possedeva ma non governava, un’enormità, elegantissima a Treviso e mostruosa sotto i viadotti, olivettiana nella sua bellissima sede centrale e scalcagnata nei cementi, nei tiranti, nei giunti, nei rapporti con la politica soffocante e protettiva, con lo Stato meno efficiente e più corrotto del mondo occidentale.

E c’è un legame soprattutto  tra il tempo lungo del Diritto e quello breve della vita. Il crollo infatti aveva messo Gilberto Benetton faccia a faccia con se stesso, con  la responsabilità che si era caricata tutta da solo, perché le autostrade erano lui, i ponti erano lui, la manutenzione era lui, il presidente era lui: Gilberto  lo schivo, Gilberto il manager, Gilberto il finanziere, Gilberto il colpevole, Gilberto il morituro che, come i pellerossa quando si accucciano sui binari, sentiva arrivare  la fine che lo avrebbe inchiodato per sempre al ruolo, che gli ripugnava, di mandante morale.

Pesantemente anche  gli sciacalli – orribili quelli del governo –  avevano puntato su di lui, il più giovane ma caratterialmente il più vecchio, il meno estroso dei fratelli più creativi e coraggiosi dell’industria italiana. Sempre in giacca e cravatta e mai in maglione, Gilberto era il meno Benetton dei Benetton, il solo che non indossava gli United Colors. Rintanato in provincia e in azienda, non dava segno di sé, viaggiava poco perché la sua terra e il suo mondo finivano a Treviso. Monogamico, con due figlie femmine di cui una fragilissima, non somigliava ai gaudenti padroni che hanno raccontato,  alla spavalderia della speculazione finanziaria esibita sulle macerie, e soffriva per lo scherno,  per l’odio che sapeva di non meritare.

Tutti a Treviso sapevano che  nel pomeriggio di Genova aveva pianto. Ma non si poteva dire perché lo avrebbero incolpato anche di quello. Al suo posto parlavano gli avvocati che in un macabro affaccendarsi davano alle sue dichiarazioni ufficiali una parvenza irreale,  un lessico tecnico e disumano dove Gilberto in realtà non c’era.  Ormai quel pianto si è perso in una nebbia, nessuno può sapere quanto abbia pianto per sé, quanto per le vittime del crollo, e quanto per il crollo di un’impresa modello, di una straordinaria eccellenza del capitalismo italiano. Purtroppo le sua pene non sono finite in una liberazione.

One thought on “La morte di Gilberto, il Benetton meno Benetton: il crollo del ponte e la tragedia dostoevskijana di un destino fuori misura

  1. Mario

    Non si capisce il motivo per cui dei monopoli naturali debbano essere gestiti da privati, che così possono usufruire ingenti margini di profitto.

    Così come lo stato non deve produrre panettoni allo stesso modo i privati non devono gestire o diventare proprietari del bene pubblico.

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