LA CONGIURA DEI CAMERIERI E DEI 37 CUGINI DI ALBERTO SORDI

PRIMA cosa da dimenticare sono i film di Alberto Sordi. Qui non c’è la maschera dell’italiano ma il suo sudario, non la poesia dolce e cattiva della commedia ma la prosa dei cassamortari, i verbali di sepoltura, i sigilli notarili all’eredità, e soprattutto “la congiura dei camerieri” che si sono sostituiti ai padroni. E c’è pure il (buon) testamento impugnato da ben 37 parenti, consanguinei ma per via dei grandi avi, visto che Alberto e i suoi 4 fratelli sono morti senza figli e senza coniugi. Molti dei parenti per adesso tacciono e un po’ si vergognano del ruolo ingrato e forse ingiusto di sciacalli ma altri parlano sguaiatamente: “dandaradaradaradan” si è messo a fare all’improvviso Igor Righetti imitando Sordi, “ah quanto lo amavo, il mio caro prozio Alberto”, e magari perché è “giornalista, conduttore radiofonico, autore – nientemeno – del libro “Italia supposta, una repubblica fondata sulla prostata””. Per la verità Righetti è soltanto un parente di sesto grado e dunque un imbucato tra quelli di quinto che sono lontanissimi ma pur sempre i più vicini. Insomma, il sesto grado non avrebbe diritto a nulla anche se davvero il testamento di Aurelia venisse annullato.

Dietro il grottesco c’è l’eredità contesa come destino dei grandi italiani di cui ci sentiamo tutti un po’ eredi, e perciò tutti un po’ defraudati. Sordi come l’avvocato Agnelli dunque, e come Pino Daniele, Pavarotti, Battisti, Dalla, Carmelo Bene sino a Claudio Villa, al pittore Guttuso e via retrocedendo si arriva a Giuseppe Verdi, la cui fortuna a Parma è ancora giudiziariamente disputata da ben quattro eredi, a 116 anni dalla morte.

Ma che possibilità hanno i parenti degli antenati di Sordi? Se il processo penale contro la congiura dei camerieri dimostrasse non solo la circonvenzione d’incapace ai danni della signorina Aurelia Sordi morta il 13 ottobre del 2014, ma anche la sua incapacità di intendere e di volere questi parenti potrebbero davvero puntare all’annullamento del testamento. Sciacalli? I più preferiscono annullare la propria identità in questa inedita e un po’ spericolata “class action dei cugini” come la chiama con ironia l’avvocato Andrea Azzaro che tiene sul tavolo l’albero genealogico di Pietro Sordi (1879-1941) e di Maria Righetti (1889-1952) il papà e la mamma di Alberto: una piccola croce accanto ai nomi dei discendenti morti e, al contrario, uno sbuffo di colore come speranza per i selezionati in tutta Italia con faticose ricerche anagrafiche che potrebbero essere confermate da singolari prove collettive del Dna. Tacciono dunque questi parenti, che i Sordi tenevano lontani dalla loro casa. È duro essere chiamati avvoltoi sui giornali e nel web, quasi che per contrappasso tentassero di spolpare in morte l’uomo che aveva il terrore di farsi spolpare in vita. E tuttavia non parla solo Igor Righetti. Renato Ferrante, che è un simpatico attore e ha pure lavorato con Sordi, mostra la foto sua accanto a quella di Alberto. C’è molto di quello nello sguardo di questo che cammina come camminava lui, sorride con il suo sorriso, e agita le mani che sembrano il frutto di un calco di gesso, e la pelle, i colori, il portamento, i profili e i primi piani che sono gli alleli, i geni, l’acido desossiribonucleico: c’è l’evidenza che è già scienza.

E finalmente riesco a raggiungere un signore e una signora di quelli che non vogliono “apparire sul giornale”. Concedono solo i nomi di battesimo, lei si chiama Rosa ed è paffuta, lui Antonio ed è un grissino: “Che farebbe ciascuno dei lettori di repubblica se, sapendo di essere un consanguineo di Sordi, capisse leggendo i giornali che forse la Signorina Aurelia era affetta da demenza già in quel 21 aprile del 2011 quando il notaio Becchetti formalizzò il testamento alla presenza di due testimoni?”. Ecco il racconto del notaio: “Portai con me due impiegati del mio studio perché la signora voleva persone del tutto estranee alla cerchia delle sue amicizie e dei suoi domestici. E infatti mandò via dalla stanza tutti e rimase sola con me e con i miei collaboratori in modo da mantenere riservate le sue volontà”. Altro che demente! viene da pensare. Altro che congiura dei camerieri! E però, più di un anno dopo, quando la signorina era ancora in vita, il pubblico ministero trovò un appunto, che riassumeva quel testamento allora segreto, dentro una cartella sequestrata a un’avvocatessa, Francesca Piccolella, pagata 18.430 euro per una consulenza che il Pm giudica “attività professionali di fatto non svolte”. Il testamento, com’è ora noto, nominava erede universale la Fondazione Museo, oggi presieduta dall’ex magistrato artista Italo Ormanni: 30 milioni di euro, più la famosissima villa con tutte le meraviglie che nasconde e protegge, “anche se dal tetto piove dentro casa e non si capisce perché non l’hanno ancora messo a posto” mi dice Carlo Verdone che presiede l’altra Fondazione, quella dedicata ai giovani che ha avuto un lascito di dieci milioni di euro e possiede i diritti di “Storia di un italiano”. C’è poi una terza Fondazione, quella per gli anziani che è gestita dall’Opus Dei. Ebbene, per i domestici nel testamento c’era solo la raccomandazione, molto in linea con la filosofia di casa Sordi, di farli lavorare ancora in villa. Ma chi aveva raccontato all’avvocatessa il testamento? Ovviamente Arturo, il peruviano capo dei domestici, il maggiordomo, il colpevole. “The butler did it” dice Sherlock Holmes.

Ecco, come “Le serve” di Genet, rimaste sole in casa, indossavano gli abiti della Padrona, così i sette camerieri di casa Sordi si sono impadroniti della Signorina Aurelia, che “in decadimento cognitivo demenziale già da aprile maggio 2011″ come sostiene la perizia dei professoroni ordinata dal giudice per le indagini preliminari, passava le giornate rannicchiata nella sua sedia davanti alle grandi finestre che danno su Caracalla, gli occhiali affumicati sulle pupille stanche “perché er sole me fa male, a me”. E ogni tanto si addormentava con una ciocca di capelli a sghimbescio sulla fronte e forse, chissà, nel fondo dei suoi “stati confusionali acuti” sapeva pure di essere raggirata ma al tempo stesso amata dal suo servo e padrone, dal suo maggiordomo, Arturo appunto, che aveva preso l’abitudine di metterle la mano sul cuore per poi batterla sul proprio, un duetto per mimare, inconsapevolmente, la sindrome di Stoccolma, roba per “Il servo” di Joseph Losey, sceneggiatura di Harold Pinter con Dirk Bogard e Sarah Miles, o forse “Io, l’erede” di Eduardo, sicuramente non per una sceneggiatura di Steno per Sordi e nemmeno di Monicelli: “embé, Arturo mi chiama e mi dice “guardi, guardi signora Aurelia, che allora faccio così, così, così?”, allora qua tante volte io lascio i soldi così, e lui dà a tutti quanti, ai ragazzi che stanno lì vicini a lui…”.

Al punto che quando questo truffatore autista, cameriere, badante e tuttofare, il 1 ottobre 2014 venne finalmente allontanato, la signorina sopravvisse altri 12 giorni soltanto. Aurelia è morta a 97 anni, incapace di intendere e di volere secondo la perizia del Gip, ma con due lacrime che le rigavano le guance e forse davvero erano lacrime per Arturo che sì le aveva fatto firmare una procura che le sfilava l’intero patrimonio, ma non poteva più svegliarla “cantandole la canzoncina di Alberto, “Nonnetta nonnetta / ritmo ritmo” come lui stesso ha raccontato in tv a Barbara D’Urso la quale ha commentato “amooore! ” e ha smorfiato la tenerezza con tutte quelle mossettine e quegli strilli da pomeriggio che l’hanno resa la civetta del trash.

Amooore dunque e avidità, pena e truffa, dedizione e voracità. Nel marzo del 2012 Arturo si fece nominare amministratore di sostegno. Nel novembre le fece cambiare notaio e avvocato e, con il nuovo aiuto legale, la Signorina firmò otto donazioni ai domestici di casa per un totale di due milioni e mezzo di euro (400.000 per Arturo). Infine nel gennaio del 2013 Aurelia firmò una procura generale che mise nelle mani di Arturo tutto quello che aveva. L’idea della procura fu del nuovo notaio, Gabriele Sciumbata. E Arturo e la banda dei camerieri rinchiusero Aurelia. Le tolsero il telefono diretto, non permisero ai vecchi amici di incontrarla. “In questa fase della mia vita preferisco non vedere la gente …” scrisse di suo pugno. “Scrivere sotto dettatura – notò il Pm – è una della poche capacità che le erano rimaste secondo la perizia psichiatrica”. Intanto l’avvocatessa Piccolella cominciò ad analizzare tutto il patrimonio che sino a quel momento era stato gestito dal broker Giambattista Faralli per la Banca Generali e dal direttore della Popolare di Sondrio Umberto Catellani con criteri di prudenza molto sordiana. Sono loro che hanno fatto partire l’indagine, soprattutto Catellani, il quale ha fatto redigere dall’ufficio legale della banca un lungo esposto che contiene in nuce tutta l’inchiesta e qua e là ne anticipa persino le conclusioni. “Certamente il maggiordomo non era in grado di gestire nulla” sostiene l’accusa. E infatti Arturo neppure capiva se i diritti d’autore della Siae fossero crediti o debiti. “Che devo fare?” scrisse in un appunto all’avvocatessa Piccolella che avendo un fratello broker lo garantiva e si garantiva. Sia l’avvocatessa sia il notaio rischiano ora la radiazione dai loro rispettivi Ordini. Addirittura il notaio, quando capì di essere indagato, fece nominare avvocato di fiducia della Signorina, un suo amico: “A rappresentare la parte offesa c’era dunque un fiduciario dell’imputato”. Sarebbero il notaio e l’avvocatessa, secondo l’accusa, le anime nere che sorreggono con tecnica e scienza l’impianto criminale di Arturo che il Pm chiama ‘”il famiglio”. Lui invece si definisce “parente di fatto” parafrasando il concetto anche giuridico di coppia di fatto. Arturo, che si assegnò uno stipendio di 5.000 euro al mese, comprò un’auto nuova, e portò Aurelia al lido di Venezia, a Sorrento, a Rimini … Sino ad allora la Signorina si era limitata ad andare in vacanza a Scanno in un albergo decoroso ma modesto. La Guardia di Finanza segnalò “un radicale cambiamento del tenore di vita che divenne improvvisamente di lusso”.

Arturo aveva 18 anni quando, nel 1990, fu assunto da Alberto Sordi che prima gli insegnò a guidare e poi gli assegnò il ruolo di autista. Arturo però “in casa fa qualunque cosa, ha fatto tutto quanto” disse ancora Aurelia al Pubblico ministero Eugenio Albamonte che la interrogò lì, davanti alle finestre che danno su Caracalla, il 22 gennaio del 2013, quando la Signorina aveva 95 anni già compiuti e il magistrato ne aveva 46 anni e più che un interrogatorio fu un dialogo sconnesso e qualche volta imbarazzante. E si capisce che, tra i due, era il giudice a soffrire, si percepisce la voglia di non umiliarla, più che un interrogatorio sembra un capitolo di “Anima persa” di Giovanni Arpino, e anche questo è cinema non sordiano, con Gassman e con la Deneuve. Dunque lui le chiedeva di Alberto e lei rispondeva che “quel convento le suore lo hanno edificato …”. E Aurelia non sapeva chi era quel signore vestito di bianco che le teneva la mano nella foto che da anni stava sul tavolino da the, “embé, è un attore? “, “no signora, è il Papa”. “E tu sei il notaio? “. “No signora, sono il Pm”. E c’era, quel giorno, pure il neurologo di fama che le faceva le domande trabocchetto per misurarle qualche parte dell’encefalo, “senti, ma che siamo a Roma per caso?”. “Certo, Roma”. “Ma Roma sta in Sicilia?”. “No, è Roma”. “E questo dito qua come si chiama? Magari è il pollice?” “Sì, sì, è l’undici”.

Le prove neurologiche, tutte un po’ grottesche, occupano molto spazio in questo processo con dotte spiegazioni sulla differenza “tra la realtà e la testistica” e ad Aurelia controllano “la memoria episodica, la memoria semantica, la memoria procedurale e la memoria a breve termine” e poi le stimolano le prassie, le gnosie, le attività visuocostruttive e lo sfondo mnesico: “Quanto fa cento meno sette?”. E quella: “Novanta”. Certo, si tratta di una scienza importante ma queste analisi sono i soli lunghi momenti del processo che rimandando ad Alberto Sordi. I referti sembrano un canovaccio da avanspettacolo, “la signora non sa dire la sua data di nascita e sembra stupirsene”, “per rispondere chiede l’aiuto della cameriera”, e non riconosce De Sica, Gassman, la Loren, Manfredi e Verdone, si imbroglia con i pollici e con gli euro … Insomma, la psichiatria qui diventa la medicina del dottor Tersilli che fa il saltello, la scienza del dottor Kranz di Paolo Villaggio, quello che gridava: “Chi viene voi adesso?”.

E forse bisognava fare qualche analisi pure a lui, ad Arturo. Perché più Aurelia perdeva la testa più al servo hegeliano pareva un diritto impossessarsi della padrona e truffarla per risarcirsi. Quando Carlo Verdone andò a girare il documentario “Alberto il grande” e intervistò Aurelia capì subito che la sua anima era persa: “Fu una fatica terribile. Alle domande rispondeva “ammappete”, “embé”, e solo con il montaggio tirai fuori una parvenza di logica … Ma poi c’era lui, Arturo, protettivo e avvolgente nume tutelare, efficiente e imperturbabile guardiano, rassicurante anfitrione, artefice principe del funzionamento di quel microcosmo domestico, all’occasione gran diplomatico, eminenza grigia della vita che si svolgeva nella casa, consigliere spirituale… Ecco, è incredibile a dirsi, mai io non capii che quel ruolo poteva diventare ambiguo, sospetto. In quel documentario Arturo aiutò lei e noi, al punto che uscendo da quella villa gli dissi “stalle vicino, mi raccomando, tu sei il vero custode di questa casa, un giorno dovrai pensarci tu”. Non immaginavo quel che stava per succedere. Ora aspetto il processo. Il giudice mi ha chiesto tutto il girato di quel documentario, e lo capisco. Da lì si vede quant’ era debole e fragile Aurelia e quant’era facile approfittarsene …”.

Maria Comin, che curò per molti anni l’ufficio stampa di Sordi, con sincerità e con forza si batte per Arturo, crede davvero nella sua buona fede, nel suo amore per Aurelia, “Alberto da lassù lo guarda e lo protegge” arriva a dire “anche se con lui erano autoritari e qualche volta lo trattavano pure male”. Ce n’è traccia nell’interrogatorio di Aurelia che risponde infastidita: “embé, quello non vive qui”. Arturo è sposato, ha due figli e per l’anagrafe abita in un modesto appartamento nel quartiere San Paolo, ma è di quella villa che si sente parte, e le intercettazioni provano che anche da lontano controllava tutto e tutti, e soprattutto Aurelia. Era lui che sapeva dove stavano i libretti degli assegni, lui che ordinava agli altri, “ai miei ragazzi”, cosa dovevano far firmare alla Signorina ed è chiaro che anche per lui era un’anima persa perché sempre ripeteva che “quella non sa, quella non capisce …”. Scrive Arpino: “Un giorno cominciò a temere che la faccia, la sua faccia, sì, gli scivolasse via, gli scendesse lungo il petto, fino ai piedi per poi perdersi sul pavimento “. La demenza “non è altro che la paura di perdere la propria identità, la paura di perdere se stessi”. Nella vecchiaia può succedere di rinunziare a tutto pur di ritrovare, , quella di Arturo appunto, il fedele traditore, l’amatissimo carnefice. E’ questo il segreto di Arturo: l’innocenza del colpevole.

2 thoughts on “LA CONGIURA DEI CAMERIERI E DEI 37 CUGINI DI ALBERTO SORDI

  1. renzo cevro

    la frase“The butler did it” non è di Sherlock Holmes; vedi articolo sul the guardian “Why do we think the butler did it?”

  2. Guido De Marco

    Lettera aperta ai genitori

    Il Disegno di legge del governo sulla scuola vi riguarda da vicino, se sarà approvato definitivamente stravolgerà in peggio la scuola italiana per le future generazioni. Ovviamente, contiene (pochi) aspetti positivi, ma questi non possono essere utilizzati per spostare l’attenzione dal vero e proprio disastro che si sta prefigurando.
    Viene stravolta l’attività collegiale, cooperativa, inclusiva, dei docenti che fondano la loro attività sulla collaborazione tra colleghi. Questo governo, come altri in precedenza, invece di riconoscere il lavoro sommerso già svolto (la retribuzione dei docenti italiani è di gran lunga tra le più basse in Europa a parità di lavoro), propone di distribuire una mancia premio ad una ristretta cerchia di “meritevoli”. Una questione seria come la valutazione dei processi formativi è utilizzata strumentalmente per giustificare la distribuzione delle poche risorse destinate alla scuola. Unico Paese in tutta Europa, in Italia avremmo docenti che svolgerebbero la stessa funzione con una retribuzione diversa; come se nel sistema sanitario nazionale si decidesse di differenziare le retribuzioni dei medici, o degli infermieri, a parità di lavoro, oppure si attribuissero gli stipendi ai parlamentari in funzione di un giudizio sulla qualità dell’attività svolta.
    Si accoglie così una logica mercantilistica che potrebbe sembrare ragionevole per chi ha come unico orizzonte sociale il mercato e si sente “giudicato” e remunerato quotidianamente in base al “giudizio” dei propri clienti. Vogliamo estendere questo approccio anche all’interno della scuola e a tutto il sistema dello stato sociale? Vogliamo che questo principio sia esteso, per esempio, anche alla sanità? La logica mercantilistica davvero premia sempre i “migliori”? Davvero produce soltanto risultati positivi? Oppure da un certo punto in poi favorisce soltanto i più forti? Se si prende sul serio il presupposto che la competizione migliori i risultati, occorre comprendere appieno questa operazione, si deve cioè tener conto dei vincoli e delle conseguenze che tale logica comporta.
    È sufficiente rivolgere il pensiero al futuro per capire che nella scuola si favorirà progressivamente un ambiente conflittuale, molti docenti finiranno per subire la logica premiale curando innanzitutto il proprio interesse immediato, invece di condividere le proprie competenze. Quali studenti usufruiranno dei docenti “migliori”? I Dirigenti con maggiori fondi a disposizione finiranno per attrarre i presunti docenti “migliori” nella propria scuola. Fino a prova contraria, noi riteniamo invece che la scuola dovrebbe anche contribuire a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione). Vogliamo modificare davvero quella che una volta si chiamava la Costituzione materiale del Paese?
    Soprattutto, che senso ha valutare i docenti singolarmente quando il lavoro che svolgono è collegiale? Lo stesso docente ottiene risultati diversi nella stessa classe, per non dire in classi diverse con Consigli di classe diversi. Il riferimento alla valutazione per distribuire i premi è un non senso, che si spiega soltanto con il tentativo fin troppo scoperto del governo di giustificare la pochezza dei fondi a disposizione che sarebbero così assegnati ad un gruppo ristretto di docenti; un modo per non riconoscere la propria incapacità di avviare una seria politica di investimenti nella scuola che invece dovrebbe partire proprio dalla rivalutazione delle retribuzioni attuali.
    La valutazione è una questione seria e dovrebbe avere una finalità ben diversa rispetto a quella proposta dal governo. In realtà, si tratta di controllare i processi educativi, l’attività collegiale dei docenti, per individuare le migliori metodologie, le migliori pratiche, gli standard minimi, i percorsi più favorevoli alla crescita culturale degli studenti. In quest’ottica, non è il modello competitivo che può garantire la collaborazione e la condivisione delle prestazioni migliori; soltanto un approccio cooperativo, peraltro informalmente operante e largamente diffuso in Italia, può far leva sul valore dell’esempio e del sostegno dei “migliori” a vantaggio di chi è meno efficace nel proprio lavoro. Questo approccio va riconosciuto e potenziato.
    A dire il vero, il riferimento ai “migliori” docenti è fuorviante, perché in realtà, se si vuole migliorare la qualità dei processi formativi, è necessario distinguere tra le varie competenze dei docenti. Alcuni avranno un approccio particolarmente comunicativo e coinvolgente con gli studenti. Altri presteranno maggiore attenzione al lavoro preparatorio (materiali didattici integrativi dei libri di testo, presentazioni delle tematiche affrontate, attività di ricerca e documentazione), oppure all’attività di valutazione dell’apprendimento degli studenti (ad esempio, delle loro capacità comunicative scritte ed orali, o delle loro competenze nell’affrontare e risolvere problemi), all’uso delle nuove tecnologie, ecc. Altri ancora potrebbero avere particolari capacità relazionali che favoriscono l’integrazione, la comunicazione, e la coesione della comunità che gestisce i processi formativi. Così come particolari doti organizzative e di coordinamento potrebbero caratterizzare docenti meno dotati nelle altre aree di intervento tipiche della funzione docente. Più che individuare i migliori docenti andrebbero allora individuate le pratiche di eccellenza, da usare come riferimento per la condivisione ed il progressivo miglioramento della media delle prestazioni. Non è vero che nella scuola c’è una resistenza generalizzata all’introduzione di un sistema di valutazione, esistono innumerevoli proposte alternative a quelle avanzate dal governo. Si tratta soltanto di cambiare le finalità che si vogliono perseguire.
    Nel DDL non viene calpestata soltanto la Costituzione materiale. Ci chiediamo, quali saranno le valutazioni del Presidente della Repubblica in merito agli investimenti previsti a favore delle scuola private. Il dettato costituzionale sulla scuola privata, tuttora vigente, è aggirato con un banale contorcimento linguistico. La scuola privata oggi farebbe parte di un sistema “pubblico”, così da ritrovarsi addirittura in condizione di garantire una “riduzione” dei costi, perchè lo Stato non sarebbe in grado di garantire un’offerta a tutti, almeno al livello delle scuole dell’obbligo. “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” (art. 33) è una frase che non ammette fraintendimenti, eppure i governi che si sono susseguiti continuano a farsi beffe di quanto scritto sulla Carta. Cosa dovremmo insegnare ai nostri studenti, ai vostri figli? Oramai le parole sono state svuotate di senso, qualsiasi cambiamento è considerato una riforma “progressista”, cambiare è sempre e comunque usato come sinonimo di migliorare, pubblico e privato si confondono, persino la competizione è intesa come sinonimo di efficienza ed efficacia, addirittura come strumento positivo per il perseguimento del bene comune. Questi sono gli effetti di una vera e propria deriva culturale che dura da decenni.
    Il presunto dibattito a cui il governo si dichiara a parole d’essere disponibile, si risolve in una presa in giro buona soltanto per vendere la propria immagine, perché l’approvazione dei vari articoli del DDL prosegue come se niente fosse ad un ritmo serrato, nonostante uno sciopero che ha avuto una percentuale d’adesione altissima, nonostante la richiesta di tutti, proprio tutti, i sindacati e delle forze politiche d’opposizione, di riconsiderare almeno i contenuti più sconcertanti del DDL. Questa scelta si rivela ancora più grave quando si considera che i contenuti più importanti della vera e propria controriforma in atto sono delegati completamente al governo, che potrà modificare senza alcuna discussione parlamentare il Testo Unico sulla scuola, intervendo così sugli orari di lavoro, sugli stipendi, sui periodi d’interruzione del servizio. La falsa disponibilità del governo è poi dimostrata dal vero e proprio ricatto che vincola l’approvazione della riforma alla stabilizzazione in ruolo di oltre centomila precari, richiesta dall’Unione europea. Non c’è chi non vede come le due cose siano su piani completamente diversi, l’unico motivo per tenerle assieme è di usare le legittime attese dei lavoratori precari per forzare l’approvazione della controriforma.
    La protesta del mondo della scuola non è fondata su pregiudizi. All’inizio dell’anno scolastico, c’è stato un atteggiamento costruttivo, nonostante il pessimo testo iniziale del governo sulla “buona scuola”, sono stati fatti rilievi puntuali, sono stati elaborati documenti critici, c’è stata una significativa adesione alla rilevazione online sul sito del governo. Oggi ci troviamo davanti un testo peggiore. Chiediamo di essere ascoltati, di stralciare l’assunzione dei precari dalla riforma vera e propria. Chiediamo più risorse economiche ed un sistema di valutazione finalizzato a valorizzare il contributo di ognuno di noi in un’ottica cooperativa che riconosca davvero la collegialità della funzione docente. La scuola è, assieme alla sanità ed al sistema pensionistico, uno dei cardini dello stato sociale moderno e sappiamo bene che non è una guerra tra poveri che potrà risollevare le sorti del nostro Paese. Non chiediamo di sottrarre risorse da altri comparti per destinarli alla scuola. I soldi ci sono, sono le politiche che mancano. Purtroppo anche questo governo rimane subalterno alla logica che destina migliaia di miliardi di euro alle banche a tassi irrisori e contemporaneamente chiede tagli della spesa pubblica, invece di capire che la mancata crescita, la disoccupazione, sono proprio il risultato di questa adesione indiscriminata alle logiche del mercato. Se continueremo lungo questa deriva il nostro futuro sarà segnato sempre più dalla distruzione progressiva dello stato sociale. Il governo persegue la riduzione del debito pubblico dimenticando che sono state proprio le logiche del mercato a produrre la peggiore crisi finanziaria dal secondo dopoguerra. È dagli anni ottanta che sempre maggiori tagli alla spesa pubblica non producono alcun risultato positivo.
    Sappiamo bene che il governo guarderà al risultato elettorale per valutare l’esito della protesta, ma sappiamo anche che la scelta di puntare soltanto al risultato a prescindere dai valori culturali forse porterà il PD a recuperare i voti persi sottraendoli ad altre aree politiche, continuando così lungo la strada che ha portato ad una progressiva perdita di credibilità dei partiti. Forse ormai è troppo tardi per rimediare in tempo, certo è che si dovrà ripartire dalla scuola.

    Guido De Marco
    Docente di Economia Aziendale
    Istituto di Istruzione Superiore Lucio Lombardo Radice di Roma

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