Vittorio Gassman per gli antropologi ———————–LE MANI———————–

Che fare delle mani? In realtà parlano anche se non le muovi. Cosa farne dopo che ti hanno presentato a qualcuno e dunque gli hai dato la mano e invece quello te ne ha date due? Enrico Letta, per esempio, quando al Quirinale giurò come capo del governo, strinse la destra di Napolitano con la sua e poi ci mise sopra anche la sinistra in modo che il gran vegliardo non la potesse ritirare ma, al contrario, lo attraesse a sé. Dicevano, le tre mani vibranti e serrate, tutto quello che poi sarebbe accaduto e cioè che il governo allora neonato, non sulle larghe intese si sarebbe fondato, ma su una speciale, strettissima intesa. Attraverso quel tocco di mani, il presidente della Repubblica e quello del Consiglio, si stavano parlando, si stavano dichiarando solidali e complici.
Ma dove teneva, Napolitano, l’altra mano, quella che Letta non gli aveva rapito? La lasciava penzolare: mano morta si dice, ridotta a cencio, vale a dire muta. Non avrebbe potuto metterla in tasca, certamente, dove la mano va a finire non quando non ha nulla da dire, ma quando ha troppo da dire e tu sei costretto a imprigionarla perché non vuoi far sapere, vuoi marcare le distanze, sei reticente e dunque nascondi qualche cosa. Dino Grandi, quello dell’ordine del giorno contro Mussolini, alla famosa riunione del 25 luglio partecipò con le mani in tasca. Stringeva, si seppe dopo, due bombe ( “a mano” ovviamente).
D’altra parte è sempre con il linguaggio delle mani che si ritrovano gli smarriti, proprio come la nutrice cieca, quella che solo a sentire il nome Ulisse “con le man coperse il volto, e versò calde lagrime, e dolenti”. Ebbene l’amorosa vecchia lo riconobbe solo quando sentì sotto le dita della sua mano (rieccola) il segno di una ferita di caccia: “Tal cicatrice l’amorosa vecchia conobbe, brancicandola”. E come reagisce Ulisse? Le pone una mano sulla bocca per impedirle di svelare la sua identità. Anche Omero dunque fa parlare i suoi eroi con le mani, o meglio fa poesia del linguaggio delle mani.
Non ci riesce invece il New York Times che ha mandato in rete il 30 giugno scorso un video, e su carta un’ inchiesta, entrambe affettuosamente pittoresche, sulle mani parlanti degli italiani, simpatici barbari gesticolanti.

E dovevano pensarla così anche gli antropologi che fotografarono i giochi di mano di Vittorio Gassman, alla ricerca dello spirito dei popoli. Proprio come Lombroso isolava la sostanza del criminale italiano nei cervelli in formaldeide, quei suoi discendenti cercavano nelle mani degli italiani la stessa lingua sfrenata di eccitazione e di impazienza, di giocosità e di avidità che Gassman avrebbe magnificamente articolato, qualche anno dopo, nel film ‘Il sorpasso’. Questo io già vedo nella prova d’attore fotografata qui accanto: l’entusiasmo e l’enfasi, la fragilità e la presunzione dell’Italia miracolata dal boom economico.
E se non fosse vero? Siamo sicuri che parlare con le mani è maleducazione? Si sa che nelle corti medievali vennero introdotte le posate per evitare che tutti affondassero le mani nel cibo. Ma la parola non è una coscia di pollo. Forse ci rimproverano, gli avari calvinisti, di mettere di più di quel che serve e dunque ritrovano nella lingua delle nostre mani il barocco delle nostre chiese, la nostra cupola contro la loro guglia. La nostra civiltà è plastica, quella delle statue greche, dell’argilla da modellare, del pensiero costruito con le mani. In Italia la parola è un manufatto.

6 thoughts on “Vittorio Gassman per gli antropologi ———————–LE MANI———————–

  1. volty

    Alcuni anni fa vidi, di primo mattino privo di turisti-zombies, girare (a Ve) un pezzo dei suoi documentari il re dello italico gesticolare. Era calmo, riflessivo, mezzo sorridente, pacato, civile – normale insomma. Dopodiché, appena la lucetta rossa trasmise il suo ciak-si-gesta, le sue mani partirono come indemoniate, in un’insensata danza di accompagnamento della parole sensata.

    Un altro cliché (della serie fammolo così perché siamo così) è quello di far camminare l’intervistato, mentre gli si fanno le domande e risponde, dove una sosta di passo sta (probabilmente) per una profonda riflessione che ferma le gambe, per cui certe volte si vedono le scene quasi-comiche con intervistati in ritardo di passo perché senza esperienza di cammino — alla fine ti dispiace che l’intervistato non abbia avuto il coraggio di dirgli «Ma do’ cazzo vai? Do’ cazzo cammini là che io sto fermo qua!?>.

  2. volty

    M’è venuta un’idea:
    fare dei corsi in tv, magari sulla scia del «Non è mai troppo tardi», di linguaggio per i sordomuti – non le pare che nessuno avrebbe qualcosa da ridire su questo tipo gesticolazioni articolate, tra l’altro nobili (per i sordi che non comprendono il vocale)? :)

  3. Angelo Libranti

    Qui si cazzeggia alla grande.
    A me sembra che le mani, in Italia, servano a metterle nelle tasche dei contribuenti e non si tratta solo dello Stato, anche ENI, Telecom, Acea, ATO, Comuni, Province e Amministratori di Condominio vanno alla grande.

  4. vuesse gaudio

    Non so se lei ricorda la Legge di Schroeder(“L’indecisione sta alla base della flessibilità”) che, a guardar le mani, ah, le mani di Milla Jovovich, quando impugna, che cosa impugna in “Resident Evil”? armi da fuoco, armi da taglio, mi piace quando ne impugna due, una per mano, le mani, ah, e i guanti, che poi non come la Legge di Gold: “Se la scarpa calza bene, è brutta”; se il guanto calza bene, quell’altra che spara, come si chiama? Scarlett Johansson, pure lei, le pare che abbia alle mani i guanti? Però se calzasse i guanti, i guanti calzerebbero bene, Dio che mani, oltre che la voce, e lo sguardo, Scarlett, sarà per le mani che mi fa impazzire per come mi guarda, e i guanti, dicevo, ah se le calzano bene, si può dire che è brutta, saremmo pazzi a dirle: “Scarlett, Dio come ti calzano bene i guanti, sei brutta”…
    Milla, a mano a mano che la rivedo, ha sempre quel fulgore un po’ albanese, non lo è, lo so, ma io vedo questo punctum-shqip, e allora non è come mi guarda ma è come mi prende: in shqip, “mano” fa “dorë” e “mano di vernice” fa lo stesso: “dorë”; un po’ più in là, c’è “dorezë” che è il “guanto” ma anche il “manico”, la “cornetta”, la “manovella”, lei fa tutto a mano, a due mani, e mentre si muove “dorë”, la “mano”, il visionatore (di Edgar Morin) vede, sente, percepisce la “mano di vernice”, il “guanto”, il “manico”, la “manopola”…

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