Catania, il Vulcano che più trema più spaventa e meno uccide

Nella città dei tremori e dunque della paura  non ci sono piani di evacuazione, non si saprebbe dove piantare le tende, in quali campi attrezzati di luce, acqua, gas e fogne collocare le famose ‘Sae’ (soluzioni abitative di emergenza). E va bene che, se si escludono una decina di comuni dell’Emilia Romagna,  in Italia è così dappertutto, ma la mia Catania è appunto la città del Vulcano e dunque la città degli sciami sismici e delle bocche incandescenti che si aprono dove nessuno se l’aspetta. E meno male che di solito producono più spavento che morte. Insomma so per esperienza che solo raramente uccidono queste scosse vulcaniche  che a Catania fanno oscillare i lampadari e ballare i pavimenti ma fanno solo paura, molta più paura del vero terremoto disastro che, ad Amatrice e all’Aquila, nel Belice e a Messina, nella val di Noto e dunque di nuovo anche a Catania, spezza le vite e  rade al suolo le case. La morte e  la distruzione non producono paura ma dolore, disperazione e anche ripartenza, fosse pure quella di Sisifo condannato a ricominciare in eterno.

Dunque alle tre e mezzo di martedì, durante la notte delle scosse, alle famiglie ricoverate nelle auto, in piazza Lanza, una bella signora anziana offriva i rituali pasticcini di mandorla e la santa scacciata di Natale. Ho ancora vivo il ricordo della mia prima notte di terremotato passata  in strada, con mio fratello e mia sorella, in mezzo a un campo di crisantemi che allora si apriva a fianco della via d’Angiò, e in mezzo alla gente che, come fosse in mensa, consumava appunto caffè e pasticcini, e come fosse in chiesa, si avvicinava e si stringeva perché la paura risveglia i bisogni primari: la famiglia, il sapere, la rabbia ma anche la spiritualità. Ricordo la facilità con cui si apriva il dibattito – nientemeno – sulle doppie faglie, con il finto geologo che, inascoltato, aveva previsto tutto; il fatalista che considerava incontrollabile l’anarchia della natura; il neo pessimista che prevedeva la fine del mondo; l’incazzato che dava la colpa al governo. E anche allora, come adesso, imbottita di morbida tuma e di maliziosa acciuga, era la ‘scacciata’ il migliore  antidoto allo spavento dell’Etna fumante e tremante, alle scosse con le quali sotto il vulcano, siamo allenati a convivere. Anche se, ogni volta, la paura fa tabula rasa e dunque gli anziani rievocano sempre gli stessi terremoti che però diventano di intensità sempre maggiore, e gli spiritosi fanno sempre meno ironia sulle case antisimiche, e tutti rovistano archivi e memorie per truffare l’angoscia che acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire, tende come corde: “le corde del macellaio – scriveva Federico De Roberto nel racconto ‘La Paura’ – che trascinano le vittime al macello”.

Insomma ci siamo cresciuti con gli sciami di paura che ci modellano sia nel paesaggio sia nel carattere e forse scolpiscono pure le facce a tinte forti, più Picasso che Caravaggio. Non credo di mancare di rispetto alla memoria del mio amico catanese Pietro Barcellona,  grande intellettuale  ‘vulcanico’, che è l’ aggettivo del genio, la forma più apprezzata del talento e del carattere intraprendente e iperattivo, raccontando che fu la paura del terremoto  e non il prestigio dell’incarico a fargli lasciare Catania e accettare la cattedra di Diritto privato a Firenze. Eppure  anche lui sapeva che solo raramente  le scosse vulcaniche uccidono, come accadde nel 1985 e durante la notte di Natale (qui è vulcanico nel senso di sovraeccitato, il Natale).  E non si capisce perché a Fleri e a Zafferana i vulcanologi, gli speleologi, gli scienziati e tutti, direbbe Sciascia, ‘i professionisti dell’antiEtna’ permettano che si ricostruisca male la stessa Chiesa che, dopo alcuni anni, tornerà a crollare come è appunto accaduto a Santa Venerina.

Certo, con la natura non bisogna scherzare e con le catastrofi non si può mai dire, ma i catanesi hanno appreso sin da piccoli dell’innocenza dell’Etna nel famoso terremoto “orribilissimo ” che  nel 1693 la distrusse tutta – sedicimila catanesi morti – ma partendo non dalla montagna ma dalla lontana val di Noto.  E bene ha fatto il giornalista catanese Turi Cageggi a lanciare una campagna  di derisione del sito web di History Channel che fantasiosamente scrive che nel 1669,  quando la lava  raggiunse Catania e si riversò in mare creando una nuova terraferma,  17 mila ingenuotti  catanesi sarebbero morti arsi vivi perché non vollero scappare. E’ una bufala dal sapore razzista,  perché quell’eruzione non provocò alcuna vittima, e in quasi tremila anni di storia conosciuta dell’Etna, non risultano vittime provocate direttamente da una colata lavica che è lenta e prevedibile. E indirettamente in tutta la storia dell’Etna si contano solo 80 morti.

Dunque ormai da tre giorni, l’Etna è nella sua eruzione di Natale ( che qui è ‘vulcanico’ nel senso che si fa beffe della presunzione dell’ uomo, della scienza e delle previsioni matematiche). Le scosse registrate sono state circa 80, tutte di superficie: scosse e polvere nera, perché Catania è la città delle eruzioni, la città dove si ricomincia sempre daccapo: non si impara mai a raccontare la paura che qui è  un’intimità collettiva d’emergenza, con le  donne appunto che distruibuiscono cibo alle auto abitate e riscaldate con il calore umano. In via Etnea erano parcheggiate in fila indiana come tante villette a schiera. Le case erano invece vuote, ma per sospensione della vita che, di nuovo, non è altro che paura.

Sempre la terra trema quando la montagna, che è  l’emblema romantico del disordine creativo e della trasgressione liberatoria,   manda la lava rossa a spianare le case di lava nera – lava calda contro lava fredda – e satura il cielo di polvere per  chiudere l’aeroporto e per corrodere le facciate fatte di “azolo” che è un’altra polvere, anch’essa di lava, ma di un altro colore, variante bluetto-grigia del nero dell’Etna, Gatto che Ronfa, il gatto nero più colorato del mondo.

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