Francesco Merlo racconta una delle foto scelte per il lancio di Repubblica: Grillo, politica o spettacolo?

dddE’ un vero e proprio ritratto dell’Italia e del Mondo quello che emerge dalla campagna pubblicitaria che lancia la nuova Repubblica: il ritratto di un Paese bifronte, sospeso in un tempo indefinito, prigioniero dell’eterno ritorno del passato; guidato da partiti nati per unire e che invece sono più lacerati che mai; tentato da facili scorciatoie populiste; incerto davanti a diritti che dovrebbero essere fondamentali e che invece sono ancora assenti. Ma in una realtà sempre più complessa c’è sempre una possibilità di scelta, c’è sempre un bivio di fronte al quale il cittadino può decidere: quale strada imboccherà dipenderà dalla sua storia, dai suoi valori e soprattutto dalla conoscenza. Il primo atto per scegliere, dunque, è scegliere il giornale che sappia informarlo con libertà, accuratezza, spregiudicatezza. Un giornale tutto nuovo, come Repubblica in edicola dal 22 novembre. Francesco Merlo racconta una delle foto scelte per il lancio: Grillo, politica o spettacolo?

di FRANCESCO MERLO

Politica o spettacolo? Questa è la foto che ci confonde di più perché è quella dove Grillo è meno Grillo. Il bavaglio pannelliano infatti, sia pure nella variante della benda, è un numero di repertorio, un classico della politica trasformata in spettacolo, ben poco adatto a Grillo che, al contrario, ha trasformato lo spettacolo in politica.

Grillo qui è persino meno orginale del suo Di Maio che, non riuscendo a coprirseli bene, mostra gli occhi e dunque guarda di sottecchi con un inaspettato ammiccamento all’ironia che della politica-spettacolo è la componente più efficace e più sottile. Lo aveva ben capito Andreotti quando al Bagaglino esibiva sul palcoscenico la propria leggenda di Belzebù: “Bisogna sempre tenere un diario ed è bene che qualcuno lo sappia”. Ed erano politica o spettacolo i duetti che metteva in scena con i suoi imitatori? Diceva Andreotti-Lionello: “Porto la mia gobba come il santissimo sacramento”. Gli rispondeva Andreotti-Andreotti: “In una sola cosa non le somiglio: non imito Andreotti”. Mezza Italia rideva e l’atra mezza inorridiva.
In quel cabaret tutti andavano a interpretare la maschera del politico che paga pegno allo spettacolo: Dini, Fini, Casini, Gianni Letta, Rutelli… Indimenticabile fu il senatore Schifani confuso e stordito tra le tette di Aida Yéspica. Andarono a prendersi la torta in piena faccia Clemente Mastella e Ignazio La Russa, mentre Di Pietro, lesto come uno sbirro, riuscì a schivarla.
Ma l’icona italiana della politica spettacolo, l’immagine-bandiera studiata nelle università di mezzo mondo è quel vecchio fazzoletto di stoffa, che nessuno usa più per salutarsi o per soffiarsi il naso: il 19 maggio 1978 i radicali si presentarono imbavagliati nella tribuna elettorale della Rai. Erano i giorni del sequestro Moro e fu evidente, ma allora non evidenziato, che quelle immagini di Marco Pannella e Mauro Mellini, di Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia imbavagliati, con lo sguardo fisso e un cartello al collo, riproponevano – smorfiate -le foto che le Brigate Rosse proprio in quei giorni scattavano al prigioniero Aldo Moro e poi facevano arrivare ai giornali. Si fronteggiavano due forme di politica spettacolo: da un lato la violenza rivoluzionaria e dall’atro la non-violenza gandhiana.
Insomma quella della politica-spettacolo è in Italia una lunga storia di contaminazione di generi che comprende, tra gli altri, Almirante e Nenni, Pajetta e Pertini, quasi tutti i socialisti craxiani, i girotondini di Nanni Moretti, e ovviamente Benigni che ‘prese in collo’ Berlinguer, e poi gli artisti impegnati, il riso come misura di libertà della politica: quando il presidente Gronchi in teatro cadde dalla sedia, Tognazzi e Vianello lo presero in giro e furono cacciati dalla Rai. Anche Dario Fo e Franca Rame vennero mandati via da Canzonissima. E Beppe Grillo nel 1986 fu censurato perché rideva di Craxi : “Se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?” .
E però la politica spettacolo in Italia non è stata solo una strada di libertà. Al contrario, anche il riso è stato un’astuzia del potere: le barzellette di Berlusconi, lo stesso Bagaglino che fu cabaret di regime con il paradosso dell’imitatore di Craxi, Pierlugi Zerbinati, che ai tempi d’oro veniva salutato persino dai corazzieri ma alla fine, in aeroporto, fu costretto a scappare sotto una pioggia di monetine.
Laboratorio di sperimentazione, l’Italia è l’unico paese al mondo dove la politica-spettacolo, ben più che nell’America di Reagan e nella Francia di Coluche, è diventata doppia identità, second life, verità parallela sino a Grillo appunto, che da folletto che sbeffeggiava il potere è ora potere che sbeffeggia. Con lui il pubblico è elettorato, gli applausi sono voti, il capocomico è leader di partito, il cartellone è nomenklatura. E fu Dario Fo a spiegarci che le sue sparate, a partire dal vaffa, il suo parlare per eccessi, per iperboli, sberleffi e anche per insulti e minacce di ogni genere, era in fondo teatro, opera buffa, metafora, il linguaggio smodato e maleducato dell’arte comica che diventa progetto politico.
Dunque politica e spettacolo sono l’ultima forma che ha preso la famosa doppiezza italiana . Dopo il partito di lotta e di governo, lo statista mafioso, il comunismo democratico, il ladro per bene, il conflitto di interessi… c’è Grillo che è politica ed è spettacolo.
Inutile dire che disporre di identità supplementari e giocarle vertiginosamente è sempre stato un espediente della coscienza, un trucco della morale italiana che permette di incarnare come per magia due in una volta, essere un altro e tenersi sempre libera una via di fuga.
E tuttavia la doppiezza è anche tormento. Mai è un piatto freddo dell’ipocrisia . E infatti Grillo, come Cherubino di Mozart, ha detto: “non so più cosa sono”. E annuncia tournée all’estero, promette di allontanarsi dal blog, cioè dalla sua creatura e da se stesso, arrotola il lenzuolo fuori dalla finestra, ha pubblicato sul giornale di area articoli firmati “Beppe Grillo e il suo neurologo”, ha dato ai suoi spettacoli il nome “Neurodeliri” e “Grillo contro Grillo” proiettando sul muro ologrammi di se stesso.
Ha infine spiazzato anche noi giornalisti che spesso rischiamo di perderci in questo guazzabuglio di politica e di spettacolo che in Italia cominciò nel 1946 quando l’attore napoletano Guglielmo Giannini – il monocolo, un portachiavi a forma di pitale, il corno rosso nel taschino – fondò il partito dell’uomo sotto torchio: l’uomo qualunque. Tre anni dopo la raccontava così: ” Il prototipo dell’uomo qualunque era mio padre, che valeva cinquanta volte più di me ed era cinquanta volte più povero. Comprai la casa a lui e a mia madre, ma loro vi morirono. Quando gli diedi la casa morirono, proprio come l’uomo qualunque morì quando gli diedi la poltrona di deputato. Anche per gli attori è lo stesso: recitano bene quando sono giovani. Poi, quando hanno imparato, devi cacciarli via a pedate e prendere quelli che ancora non sanno. Ecco: il mio uomo qualunque finì quando divenne qualcuno”.

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