Lucio Battisti non passa mai di moda NOI, TRA CANZONI E SILENZIO

DLUI

Come gli spaghetti, la Vespa e la pizza margherita Lucio Battisti è l’italianità che non passa mai di moda, di nuovo in testa alle classifiche di vendita con 60 brani che saranno pure rimasterizzati, arricchiti, stracotti e digitalizzati, ma sempre quelli sono. E magari l’azzurro dell’acqua chiara sarà diventato più azzurro come nella cappella degli Scrovegni, ma neppure la Sistina restaurata dal grigio al blu conquista i giovani come i giardini di marzo che si ri-vestono di nuovi colori.

Battisti contraddice la definizione stessa di “classico” come opera – libro, quadro, film o canzone – che tutti conoscono ma pochi praticano, leggono o cantano. I ragazzi di 20 anni, che sono i nipoti della generazione dei ‘Balla Linda’, conoscono a memoria “un fiore in bocca può bastare sai / più allegro tutto sembra” e le poche immagini che la vedova concede al pubblico sono ricercatissime, cliccatissime, amatissime.

Nel 1972, dodici anni prima della morte, Battisti aveva scelto la vita appartata, l’inabissamento: non rilasciava più interviste e non si lasciava fotografare. Quel suo silenzio non esprimeva certo saggezza, ma era il rifugio, la tana del ribelle che non sopportava il disagio del successo, sempre spaventato dagli applausi e dalle foto. Non sapeva che è vita artistica anche smontare il proprio mito, non capiva che la scelta di negarsi sarebbe diventata marketing.  E infatti nel marzo del 1978 Nanni Moretti in Ecce Bombo la raccontava così: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Il 23 agosto dello stesso 1978 anche Mina tenne a Bussoladomani in Versilia il suo ultimo concerto, e fu la sua ultima apparizione in pubblico, con la canzone “Stasera io qui” di Ivano Fossati: “mi sono fermata, mi sono perduta”.

Secondo Ennio Morricone è la “Musica che sceglie le sue creature” e i morti sono i più cari al nostro cielo. Ascoltando, per esempio, Lucio Dalla non abbiamo più la malinconia di vederlo decadere. La voce, “che ormai canta nel vento”, ci consente di restare fedeli all’artista com’era. Pur di custodire la nostra memoria e proteggere la nostra illusione, fingiamo infatti di non vedere l’artifizio giovanilistico dei sopravvissuti come Mick Jagger e Paul McCartney. I loro trucchi estetici, di cui siamo felicemente complici, ci consentono di risentire il sapore dell’origine, il suono di un altro modo di stare al mondo. Con l’aria dei reduci, quelli che si fecero le canne con Mr. Tambourine Man, i vecchiarelli del rock,  i nostalgici, che esprimono ghigni, sorrisi e rancori al ritmo del ‘come eravamo’ non applaudono il Bob Dylan che, per non esporre lo strazio che gli pare la vecchiaia, si nasconde sotto un cappellaccio, smorza le luci, elimina lo schermo gigante, si nega ai primi piani, ma l’altro Bob Dylan, quello della loro giovinezza, delle canzoni di strada e dell’ utopia del mondo al contrario. E tutti facciamo finta di non vedere che questo vecchio che si nasconde somiglia a Ginger e Fred del film di Fellini, dove l’inchino era sostenuto dal bastone invisibile, il tip tap diventava un inciampo, le rughe erano spianate dai cerotti e dal campo lungo. Allo stesso modo in Italia siamo tutti complici di Gianni Morandi, Ornella Vanoni, Patti Pravo, Adriano Celentano. Al contrario Modugno e Claudio Villa, Jannacci, Gaber e De André non sono mai fuori luogo né fuori tempo, non cambiano e non ci tradiscono più: congelati nella mitologia non hanno futuro, sono soltanto le loro voci.

Ebbene, Lucio Battisti, con accanto il suo Mogol, è ancora più speciale. I giovani imparano a suonare la chitarra con le sue Emozioni. E i tradimenti e gli strazi sentimentali sono, anche per gli adolescenti, “le discese ardite e le risalite”. E se il 29 settembre in Italia non è il giorno del compleanno di Berlusconi ma quello in cui “vedevo solo lei / e non pensavo a te”   il merito non va solo alla potenza di una canzone che non è l’Infinito di Leopardi e neppure il Cinque maggio.

Il punto è che Battisti non è solo una voce. Ripropone un tipo di italiano, raro ma importante, che è l’italiano del silenzio. Nel paese delle chiacchere e delle esibizioni, è ‘il fuori posto’ che si sottrae, sempre a disagio con le parole. E val la pena citare qualcuno dei grandi silenziosi d’Italia:  Manzoni, Einaudi, De Gasperi, Cuccia, Berlinguer, Martinazzoli,  Sciascia, Bufalino, i due Sellerio, il presidente Mattarella.

I silenzi non sono tutti uguali e gli uomini del silenzio raramente si somigliano. Si va dal silenzio di Sant’Ambrogio che considerava la parola “il tugurio miserabile dello spirito” al silenzio della musica che mai si avverte così distintamente come quando si è spenta l’ultima nota: “quando – scriveva Adorno – uno dopo l’altro gli strumenti tacciono. Resta solo la viola e le è permesso di spegnersi, ma non di morire. Deve suonare per sempre; anche quando noi non la sentiamo”.

3 thoughts on “Lucio Battisti non passa mai di moda NOI, TRA CANZONI E SILENZIO

  1. fabio

    Nell’articolo è scritto: “Nel 1972, dodici anni prima della morte”… In realtà è morto ventisei anni dopo, nel 1998.

  2. Luciano

    Francesco, sei bravissimo come sempre, ma senza Mogol Battisti non sarebbe stato nessuno, come infatti dimostrano le canzoni scritte per lui da Panella dopo il divorzio da Mogol, canzoni che nessuno ricorda.
    E’ Mogol l’autore dei testi così immortali, il vero poeta, inchiniamoci a lui.

  3. Roberto

    È esattamente il contrario….Mogol (seppur grande paroliere) i testi li scriveva su una musica già fatta. Battisti musicista eccelso!

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