Anche a Roma la mafia “non esiste”, “fa ridere”, e “sono solo stracciaculi” CHI HA PAURA DI CHIAMARLA MAFIA

Il famoso “la mafia non esiste” si è trasformato in “la vera mafia sta altrove”, ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss ‘babbìano’ sempre, dagli antenati don Calò e Genco Russo – “noi la chiamiamo amicizia” – sino ai nipotini Carminati e Diotallevi : “ Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti”. E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con “baciamo le mani” ma con “li mortacci tua”. Nell’idea che “questa non è mafia” c’è anche , e forse soprattutto, l’autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice.
“La mafia è diventata policentrica” disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell’epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l’antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero “che uccidono con la risata” ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l’innocenza della truffa d’Oriente alla precisione della lupara d’Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste.
E’vero che c’è una profondità di differenza,anche in termini di fuoco e di simboli, perché all’Atac non sono state trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell’Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all’opera gli esperti che, a partire dall’oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. E’ Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità.
L’ abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le ‘croste’ dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada … sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l’Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro …
Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi, applica anche alla mafia gli orizzonti larghi, e sto parlando della storia come di geografia in cammino, degli studi del tedesco Karl Schlӧglel e dei suoi libri affascinanti sui luoghi della storia, i marciapiedi, le città, le stazioni ferroviarie, le pompe di benzina … e il potere, che a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l’affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d’auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l’innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l’amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Lega ambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un’azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l’elezione, concesse a prezzi d’affitto stracciati i locali di Via Pomona?
A Roma sono tutti “amici”,ma non nel senso dell’omertà palermitana. Già negli anni Trenta, fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, “il ponte Andreotti” congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. Era la Roma del mitico corsivista dell’ Unita’ Fortebraccio (Mario Melloni), di Bufalini e Guttuso, di monsignor Angelini e di Franco Rodano, Luca Pavolini, Luciano Barca, Felice Balbo, Pasquale Saraceno e Tonino Tatò , che fu l’attivissimo segretario di Enrico Berlinguer ma anche il funzionario efficientissimo del partito virtuale del trasversalismo romano: un partito pubblico, mai segreto. Non c’ è cronista che non l’ abbia incontrato ed evocato e nel pesarlo non si sia sbagliato per difetto.
Ebbene, c’è di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c’è la mafia. C’è l’assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti – guarda caso – Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia.
In quell’ intreccio di salotti buoni ci sono di mezzo la Comit di Mattioli, il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma, la grande Iri di Petrilli, le famiglie dei Caltagirone, i direttori generali dei ministeri, tutti i tecnici romani, da Sergio Castellari (morto forse suicida o forse assassinato) sino agli allenatori della squadra di calcio della Roma, ai suoi giocatori, ai suoi presidenti, da Franco Evangelisti sino a Dino Viola e ai Sensi. E poi commercianti di frutta e verdura, imprenditori edili e proprietari di grandi magazzini, garagisti e specialisti in opere di demolizione… Sbardella, Ciarrapico e Sua Santità.
Ma tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l’erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell’apostolato civile possa essere diventato mafia.
Buzzi, nell’intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com’è possibile che il funzionario del sol dell’avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi ?
E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un’ utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon allì l’antimodernità del Samurai di Mishima con l’arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l’orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini.
A Roma i fascisti non sono più fascisti, sono mafiosi.
Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare “mafia” la mafia la chiamavano “la mano nera”. La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un’emigrazione. E adesso è ‘romana de Roma’, cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che ‘natura non facit saltus’, ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un’eternità di foresta.

2 thoughts on “Anche a Roma la mafia “non esiste”, “fa ridere”, e “sono solo stracciaculi” CHI HA PAURA DI CHIAMARLA MAFIA

  1. Angelo Libranti

    Gran bell’articolo. Un concione lungo e barboso per celare l’opera nefasta delle Cooperative rosse. quelle che facevano affari, in privativa, con la Russia Sovietica fin dal dopoguerra e che, piano piano, si sono diffuse a macchia d’olio fino a friggere la capitale d’Italia.
    Altro che mafia, senza provocare morti e senza minacciare nessuno, hanno creato un vasto impero commerciale impenetrabile alla magistratura, almeno fin’ora.

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