MORIRE IN ITALIA DOPO 2400 ANNI DI VITA / Il brutto affare dei Bronzi di Riace 40 anni dopo il ritrovamento: sono esposti coricati, sottoposti ad accanimento di restauro, in attesa di un museo che non apre mai, nessuno va a vederli ma tutti li vogliono

REGGIO CALABRIA – Coricati ed esibiti, dietro una vetrata, su due lettini  ortopedici, i Bronzi di Riace sono due caduti in battaglia,le magnifiche vittime dell’inadeguatezza italiana. Vederli sdraiati  è il primo scandalo di incredulità. Un simpatico signore in camice bianco li accudisce come fossero i suoi figli. Cosimo Schepis, uno dei restauratori di  esperienza internazionale, calabrese gramsciano – perché pessimista della ragione – ama questi due ostaggi del <paisi i ‘m’incrisciu e mi ‘ndi futtu’/ e tutti i cosi sunnu fissaria> , <il paese dei ‘mi annoio e me ne fotto’ e ogni cosa è fesseria>, e parla con dolcezza ai suoi pazienti. Ma trattandoli come fossero vivi, li fa sembrare morti.

E difatti io stento a riconoscere il sovrappiù di umanità, di forza, di spirito, e i nervi in fuga, e le dita prensili, insomma quell’eccesso di vita che nei Bronzi guerrieri è verticalità. E allora vorrei attraversare il vetro, romperlo e passare dall’altra parte per rimettere in piedi questi Bronzi che, a quarant’anni dal  ritrovamento nel fondo del mare, vengono esibiti così,  coricati  in una saletta del bruttissimo, marmoso Consiglio regionale della Calabria, palazzo Campanella, un altro fantasma d’uomo dell’antichità che si è perduto nella città del sole dove i Bronzi di Riace,quelli dritti, sono dappertutto, riprodotti con la regia di Benjamin andhywarlholizzato.

E sono fantasmi anche i tre bibliotecari del Museo della Magna Grecia che dal 2009 sono ‘congelati’.  Anche loro sono coricati come i Bronzi, in attesa di erigersi in piedi al completamento degli interminabili  lavori di rifacimento del Museo. I libri, 25.000, sono chiusi negli scatoloni, nel sottosuolo. In altri contenitori continuano il loro sonno antico le collezioni archeologiche, dalla preistoria alla Magna Grecia. Accanto ci sono due tombe elleniche, piccole casette in mattoni con le tegole disposte a libro. I tre bibliotecari non sono i soli dipendenti  pagati dal Museo chiuso.  E si capisce che i Bronzi, in una terra tanto depressa, sono un’iniezione vitaminica, il solo denaro che gira.

A Reggio il Comune sfida ogni giorno la bancarotta. La settimana scorsa un imprenditore creditore è arrivato davanti al municipio con l’ufficiale giudiziario e con un camion: voleva sequestrare e portar via mobili, computer… I Bronzi non sono solo arte e storia ma economia,  come una Madonna che piange, un padre Pio taumaturgo, un mago che l’azzecca, la rondine che fa primavera. E non solo per i grandi investimenti come i 30 milioni stanziati per il Museo, ma anche per il piccolo mercato, sino all’imbroglio di quell’ ex avvocato di Scilla che per sbarcare il lunario si offriva come guida agli stranieri  per  un tour nei luoghi dei Bronzi, nella città-santuario: qui sorgeva la palestra dove si allenavano, qui c’era la casa di Chrestos e qui invece abitava Erastos, e alla fine il cicerone esibiva pure l’ ultimo discendente: un vecchio sordomuto: <Achaikos estin>, greco è.

In realtà i veri eredi dei due guerrieri, in senso testamentario, sono i restauratori che dopo 2400 anni di vita dei Bronzi in salamoia  sono giustamente intervenuti la prima volta: otto anni di cure. Poi si è scoperto che bisognava dotarli di un piedistallo antisismico: tre anni. Infine qualcuno ha notato che i microclimi del vecchio museo corrodevano inesorabilmente i guerrieri che pure impavidamente avevano resistito a Nettuno e ai suoi umori  di acida salinità, protetti da una crosta di calcare. E li hanno coricati  tre anni fa,ma forse solo perche il Museo era stato intanto chiuso.

E ci sono gli eredi collaterali , forse i più fortunati: architetti, costruttori, muratori, restauratori di interni, sismologi e cultori moderni della storia antica. La Regione stanziò due milioni di euro per attrezzare la clinica e non mandarli a curarsi a Roma o a Firenze. Il  presidente Scopelliti mi conferma con orgoglio che i calabresi si identificano con i due ‘oplitidromo’, pensano che siano la loro Gioconda:  i parigini glissano sulla paternità italiana di Monna Lisa e molti reggini non sanno che i Bronzi sono manufatti della Grecia e non delle sue colonie (Magna Grecia). <Quando li rimetteremo in piedi, spero entro l’anno, faremo una grande festa con il capo dello Stato> aggiunge  il governatore della Calabria  che per la verità qualche anno fa festeggiò non so quale opera urbanistica ingaggiando Valeria Marini: la fece passeggiare avanti e indietro  sul lungomare. <Una vera bronza> ricorda il vecchio edicolante di via Nava.  Adesso la Regione ha stanziato altri cinque milioni di euro <per aiutare lo Stato a terminare il grande restauro del museo>, un vecchio palazzo fascista di Marcello Piacentini,  rifatto con un progetto di Paolo Desideri.

Visito il cantiere, affidato a una ditta di Altamura, ed ho una bella sorpresa di luce, acciaio e vetro. Le gabbie antisismiche sono straordinariamente mimetizzate. Il riscaldamento è affidato a dei camini bioclimatici nascosti dentro le pareti. La copertura è in vetro calpestabile sorretta da una  potente ed elastica rete di puntoni e tiranti d’acciaio, attraverso cui passa la luce. Una sopraelevazione in evidente e controverso contrasto con il vecchio edificio garantisce caffetteria e ristorante in una terrazza mozzafiato.  L’architetto Desideri ne va fiero: <Abbiamo fatto una piccola Ferrari> dice. Poi ripete : <Una piccola gemma>.

La storia della sismologia ha trovato una ciclicità secolare dei terremoti a Reggio: 1693, 1783, 1908… e ora si aspetta quello di questo secolo. Il basamento antisismico dei Bronzi è stato rifatto in marmo di Carrara e questi piedistalli saranno i posti più fermi di tutta la Regione.  Il museo prevede quattro piani di esposizione con un percorso obbligato che lascia la visita delle statue dei guerrieri alla fine < per evitare che la gente consumi rapidamente i Bronzi e  se ne vada> mi dice Simonetta Bonomi, la sovrintendente. <Uso i Bronzi per educare i visitatori al gusto dell’archeologia e della storia antica>. Padovana, allegra, la Bonomi è paradossalmente più meridionale, solare, dei reggini.  Le racconto che a Parigi in rue de Vaugirard ho comprato una boccetta apparentemente vuota ma sigillata, con su scritto ‘Air de Paris’ e una piccola foto della Gioconda. <Tutto sommato  è una raffinatezza più che un imbroglio. Qui fanno di peggio>. Nella città dove il pre-moderno è saltato direttamente nel post-moderno hanno stampato i Bronzi sui biglietti da visita, sulla carta igienica. Reggio di Calabria è un inno di cartelloni, una pioggia di gadget, grembiuli, tovagliette, persino il peperoncino macinato li  vanta come logo: si chiama ‘Viagra di Calabria’. I calabresi si arrabbiano solo quando la pubblicità rianima i due guerrieri, li fa giocare a pari e dispari, pone in mano ai due Bronzi l’Ipad da sfogliare a caccia della vacanza, dell’evasione, o infine trova loro la via di fuga dal museo: rannicchiati e chini, sgattaiolano dietro il bancone della biglietteria dove l’usciere ovviamente sta dormendo. Ecco perche quando li trovo coricati mi smarrisco pensando che anche Cristo è morto in piedi. Solo quello del Mantegna, con una magia di prospettiva, è deposto a terra,un anticipo di Che Guevara esposto all’obitorio.

Poveri Bronzi. Da quando sono tornati all’asciutto sulla costa, hanno passato più tempo in degenza ospedaliera che in attività espositiva. E ora compiono quaranta anni in questo sepolcro  dove hanno subito l’oltraggio della cannula, dove li hanno svuotati di ogni traccia di argilla cotta, dove gli hanno rifatto la patina, dove li sdraiano e li accudiscono.  Accanto a me c’è un francese che quasi si spiaccica sul vetro. Ci guardiamo e ci capiamo: <Sembrano due cadaveri in un campo di battaglia>. E io: <Già, solo abbattuti i guerrieri stanno supini>.

Sicuramente al mondo  non esiste nessun altro reperto archeologico che abbia goduto (sofferto) di un accanimento terapeutico così lungo. Nel nuovo Museo è prevista una camera di pulizia per prevenire gli attentati germicidi: ogni visitatore sarà <lavato con l’aria>. Come si vede, dopo quarant’anni di investimenti (sono state realizzate due copie per un  milione di euro), questi non sono più i guerrieri sulla cui misteriosa identità inutilmente litiga la storia antica dell’intero Pianeta con ogni genere di ipotesi, un immenso cumulo di teorie più o meno bizzarre, di libri e prose ispirate, di enigmi storiografici, verso un imprendibile mondo immaginario dove la cosa meno importante è la verità. Un libro di successo intitolato  ‘Facce di bronzo ‘ raccontò che le statue erano tre, ma il terzo bronzo fu rubato dal sovrintendente e dal sub che li trovò, ed  è stato venduto ad una ricca collezionista di Boston, e sembra un mix del film ‘Totò terzo uomo’ e dei fumetti di Diabolik.

Ma i Bronzi sono anche la rinnovata questione meridionale, il luogo fisico di un rancore della cultura e del territorio di una parte del mondo purtroppo marginale. Quei guerrieri sono anche i contadini di Gramsci e i briganti antiunitari. E si capisce perché se li disputano le due Italie: il Sud, con i retrogusti indigeni una volta antagonisti  e ora finalmente concordi, i boia chi molla e gli abbasso Garibaldi;  e il Nord  che li vorrebbe scippare ai calabresi e affittarli in giro per il mondo o esporli al Quirinale, come ai tempi di Pertini ,oppure  nella sala del Brunelleschi a Firenze dove fu necessario lanciare un appello in tv per invitare la gente a non andare: troppa  folla.

Invece in Calabria, come si sa, li guardano in pochi. E forse i calabresi non li vanno a vedere perché credono di essere loro i Bronzi di Riace,  e questo gli fa credere Scopelliti,  con lo stuolo di cultori della memoria e di professori della Magna Grecia: per una volta demagogia e nobiltà d’intenti coincidono. Anche in Sicilia il presidente Lombardo ha dato identità polifemica ai suoi concittadini orbati da Ulisse, quell’astuto uomo del Nord (in realtà Itaca è a est). Chi cerca un nemico trova un  tesoro. E chi trova un tesoro si fa molti nemici ma anche un museo, che bisognerà, una volta aperto, allestire, gestire e sovvenzionare giorno per giorno.

L’architetto Prosperetti, il gran potere ministeriale dell’Antichità in Calabria, vuole lanciare un concorsone internazionale di idee per portare il mondo ai piedi dei Bronzi, che forse non si sono solo coricati, ma anche accartocciati in se stessi per desiderio di sparire, voglia di cupio dissolvi. Non regge il loro cuore alla vista – nel centro elegante di Reggio – dello sgretolamento delle facciate delle ville costruite dopo il terremoto del 1908! E non ci sono altre grandi città del sud così dissipate, dissipantisi. Solo la santa ruspa potrebbe fare  giustizia dei palazzi senza intonaco, dei piloni di calce e mattoni,  dei mozziconi di case  senza più colore,  edifici abbandonati in pieno centro, finestre murate e finestre divelte,  <guardi, sembra Beirut> mi dice la sovrintendente Bonomi indicando le finestre della sua stanza panoramica.

Ma poi giro lo sguardo e vedo l’Etna a sinistra, Messina di fronte, ovunque il mare. A Reggio le costruzioni sembrano fatte apposta per irraggiare senso di smarrimento: dai posti più brutti vedi gli scenari più belli. Qui c’è una speciale architettura che la sovrintendente  chiama <il non finito calabrese>: il cinema  Centralino ridotto a scheletro di cemento e mattoni; il Roof Garden, che fu un locale alla moda e ora sembra bombardato, persino il lungomare sognato da D’Annunzio (<il più bel chilometro d ‘Italia>) a poco a poco sta perdendo il suo incanto, degradato dal tempo che passa, dal contesto che avanza, dal ‘non finito calabrese’ che a Reggio minaccia di lasciare indefinito qualsiasi futuro. E il futuro  già per suo statuto non è mai finito.

17 thoughts on “MORIRE IN ITALIA DOPO 2400 ANNI DI VITA / Il brutto affare dei Bronzi di Riace 40 anni dopo il ritrovamento: sono esposti coricati, sottoposti ad accanimento di restauro, in attesa di un museo che non apre mai, nessuno va a vederli ma tutti li vogliono

  1. benjamin bowson

    BENJAMIN BOWSON
    DATE DEGNA SEPOLTURA AI BRONZI
    “Coricati ed esibiti, dietro una vetrata, su due lettini ortopedici, i Bronzi di Riace sono due caduti in battaglia, le magnifiche vittime dell’inadeguatezza italiana”. Ha ragione Francesco Merlo su Repubblica, i Bronzi di Riace sono ormai due cadaveri, ricoverati in un eterno ospedale del restauro. Disarmati da tempo da ignobili mani che avevano levato via ogni segno del loro antico mestiere. Guerrieri senza armi, scesi dai loro piedistalli e inabissatisi nelle acque dello Ionio per non vedere, profetici, la fine misera della loro terra. Lì dovevate lasciarli, gli avreste risparmiato le pene senza fine a cui da quarant’anni li sottoponete. Li hanno portato in giro come fenomeni da baraccone. Il mondo ha visto cosa eravate e cosa siete diventati oggi. Sembrano i Sioux arresisi alle giubbe blu. Dei tristi Buffalo Bill pagati per fare centro al circo. I Bronzi di Riace guerrieri indomiti che vedono figli degeneri piangersi addosso e spargersi per il mondo a elemosinare un pezzo di pane. Si, dovevate lasciarli al sonno eterno al quale si erano votati, sommersi da sabbie d’oro e acque di smeraldo. Dovevate risparmiargliela questa umiliazione di finire supini su letti d’ospedale a farsi curare la bua da intrepidi dottori. E potevate risparmiarvela l’onta di un confronto improponibile fra cosa eravate e cosa siete diventati. Un popolo lo si giudica dal rispetto che ha per i propri morti, e voi siete gente che i padri li lascia insepolti alla mercé di corvi e sciacalli. Vi fossero almeno utili a riempirvi lo stomaco con le loro esibizioni ma nemmeno un buon palco siete riusciti a costruirgli e manco il biglietto per vederli siete in grado di farvi pagare. Fate un favore a voi stessi, abbiate un moto d’orgoglio e fate un gesto pietoso. Riseppellite i cadaveri così in un futuro lontano quando di voi si sarà perso il ricordo, qualcuno ritrovando loro magari immaginerà grandi anche voi.

    1. bianca

      ma chi sei per dire queste cose dei calabresi??? La puzza sotto il naso anglo- sassone vedi di lasciarla a casa tua, dove di cultura e passato neanche l’ombra e solo siete stati capaci di depredare, colonizzare e mettere i Sioux nelle riserve. Così avete costruito la vostra fortuna

      1. Giuseppe Braghò

        @ Bianca
        Il signor Merlo di anglo-sassone non possiede neanche lo “stile” giornalistico.
        E’ siciliano, di Catania. Eppure, non tutti – nell’Isola – sono astiosi e arroganti come il “testé nominato”: in Sicilia ho conosciuto e frequentato penne valorose come Sciascia e Buttitta, solo per citarne due. Gli stessi, esprimevano la propria sicilianità in maniera “sanguigna” a volte: sempre con decoro tuttavia. Verso se stessi e principalmente in riguardo al lettore. Tant’è.

  2. Violetta

    Mi stupisce, amico Merlo, il Suo impegno e quella Sua inclinazione per la rifiutologia monezzologa e per l’anacronismo; per la fuga dal presente verso le spazzatture di ieri ed i fossili culturali di altro ieri. Mi stupisco di come sia possibile che il Suo magnifico intelletto, in questi giorni difficili universalmente, come mai la storia umana riesce a ricordare, Lei solo possa guardare in dietro, dietrissimo. Ogni volta di piu’. Non per trovare forse qualche ricetta rinforzante dei saggi intemporali d’allora, invece però per grattare soltanto sulle cicatrici indurite, fossilizzate, inerti nel tessuto morto e senza alcuna utilità che i secoli hanno graffiato e diseganto dalle antiche ferite sulla pelle della vecchia Europa, specie dell’Italia, che oggi dondolano, entrambe due, sull’abisso della cancellazione come proggetto socio-politico – federativo e come punto di rifferimento civico nel mondo per il nuovo millennio.
    Personalmente, devo dire, mi piace la Sua intelligente visione del presente. La finezza e capacità critica del Suo sguardo e quindi prefferirei leggere le Sue idee per costruire quello che ci manca, per criticare quello che si puo’ migliorare, per riciclare quello che ancora si possa sistemare di nuovo e per inventare delle nueve risorse mentali, che Lei come intellettuale sicuramente possiede a dirotto, invece trovare spesso queste belle parole senza nessun futuro possibile.
    Non voglio mai credere né pensare che Lei si accontenterà da quella rassegnazione mortuoria e funeraria essendo così vivo e magnifico. Comprendo pure che i brutti tempi non ci invitino piu’ alla festa, ma propprio per quello dobbiamo essere noi quelli che faciamo quell’invito alla festa della vita a questi tempi deplorabili, che addirttura sono il “rifiuto” delle nostre scelte. Il tempo non pensa né fa nulla da sè, solo è una nostra percezione della sensibilità interna, come disse el vecchio e saggio Kant. Ossia, una percezione soggettiva del ritmo e la battuta che mettiamo in moto nel nostro circolare per l’eternità fra parentesi di materializzazioni alterne. Cioè il tempo è musica, è danza. Come mai ballare, allora, con i bronzi rigidi del passato invece di farlo con le anime ed i corpi vivi del presente?

  3. Giuseppe Braghò

    Un giornalista che riporta spropositi ben rappresenta lo status e la qualità della casta triumphans dei così detti “editorialisti”: almeno della maggior parte degli stessi, “contemporanei” come Lei. Il Giornalismo di un tempo – non così lontano, poi – ha regalato insegnamenti non colti, ahinoi. Con certezza, un trombone è più greve di un flauto. Tragga le conclusioni. E’ vero, il mio “Facce di Bronzo” è e sarà per sempre un “libro di successo”. Uno dei motivi? Non è gossip: nelle pagine odierne de “La Repubblica” è Lei che percorre, al mio contrario, tale stradina. Si documenti prima di redigere bagattelle. In “Facce di Bronzo” non troverà eresie. Che il “terzo” Bronzo sia stato venduto a una “ricca collezionista di Boston” lo scrive Lei, e non Giuseppe Braghò. Lo stesso, ha condotto una coscienziosa inchiesta intorno a un banale esempio di malcostume Istituzionale: porgendo al giudizio del lettore soltanto “prove documentali”. Investa con tranquillità 20 euro, per una copia del mio libro. Lo legga. Lo analizzi, piuttosto: essendo Lei un “editorialista” ne avrebbe il dovere. Dopo, soltanto dopo, scriva pure ciò che vuole. Ancora: piuttosto che rispolverare la villania di paragoni del mio lavoro con Totò e Diabolik, rispolveri come l’uso di “venire” al posto di “essere” – nelle frasi passive – sia errato.
    Giuseppe Braghò

    1. Aiace

      Caro Francesco,
      aspettavo, spasmodicamente, il duello. Ma, ora, dopo quasi un mese di attesa, pare che tutto si sia squagliato nell’afa dell’estate. Peccato. Perchè il puzzle era stuzzicante. E, se non altro, avrebbe forse dato un po’ di ossigeno ai due giovanotti, incolpevoli vittime della bronzea malasanità nostrana. Sarà per via di questo format, che dà all’autore diritto di parola ma non di replica: una sorta di “haug, ho detto, anzi ho scritto” e chi s’è visto s’è visto. Eppure, insinuazioni e insulti erano tali che un purosangue etneo avrebbre lavato, appunto, col sangue. A cominciare da quello “editorialista”, buttato lì d’acchito a dispregio della casta, come una volta si diceva “sporco ebreo” o “sporco negro”. E i dubbi, atroci, permangono tutti: ma, Francesco, questo “Facce di Bronzo” l’hai letto o non lo hai letto? Per estensione, un lettore sprovveduto ma scettico, potrebbe insinuare che tutti i colti riferimenti con cui, crogiulandotene, infarcisci ad libitum i tuoi annali provengano da un misterioso bignami culturale a portata di mano. E non siano invece frutto, come ha sempre ingenuamente creduto, di uno studio matto e disperato, pregresso e corrente, che transustanzia l’arido mestiere di cronista.
      Vero è che, anche tu, non sei andato molto di sottile. Citare il titolo senza citarne l’autore, e solo forse per parare con Totò e Diabolik, è un bello sfregio. Specie per l’interessato, che vede le sue statue, sulle quali ha lavorato di lima e cesello, come se fossero ancora nell’apnea millenaria, tra la salinità del nulla. Per un attimo ho anche pensato alla messinscena. Che signor Braghò e Facce di Bronzo fossero un’invezione poetica per prevenire la fallibilità dei romanzi storici. Categoria letteraria che lascia il tempo che trova anche al sottoscritto, e fin dai tempi resinosi di Fermo e Lucia. Ecco, sulla falsariga, i due aitanti giovanotti, di battesimo Tideo e Anfiorao, potrebbero essere tutto. Un amore omossex, come Achille e Patroclo, o due naufraghi, insieme ad altri, delle carrette del mare di un tempo. O due vittime, infami e cornute, della Mafia Greca incaprettate, allora usava così, in un fondale marino.
      Rispondi Francesco, rispondi, raccogli il guanto. Non lasciare il povero lettore tra amarezza e dubbio.

      1. Giuseppe Braghò

        Con sufficiente dose di certezza – permetterà – la immagino “Oileo” piuttosto che “Telamonio”. In ogni caso, quando ho dato dell’editorialista al signor Merlo non intendevo offenderlo: no no. Ho semplicemente raffrontato. Il “raffronto” non è poi cosa difficile da cogliere. In genere, almeno. Sa – gentile Oileo – ritengo che un giornalista sia da ricordare per il contenuto dei propri editoriali, più che per la baldanza del lessico. Il Suo amico è andato “oltre” la baldry. Non soltanto quando al mio “lavoro” si è riferito. Come ho scritto, i miei vecchi amici Sciascia o Buttitta non avrebbero percorso sentieri picareschi, al contrario del “purosangue etneo”. Un flop è un flop. Per chiunque lo “raggiunga”. Il mio “Facce di Bronzo – personaggi & figuranti a Riace” non è “romanzo storico”, come Lei scrive. E’ la naturale “fioritura” di attenta inchiesta giornalistica (documentale) costata tredici mesi di lavoro. Rigorosa applicazione. Rigoroso rispetto nel riportare le verità affioranti dal corpus di documenti da me dissepolti dal comodo e silente oblio dell’Archivio Storico del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Il giornalismo investigativo, che io pratico, non lascia spazio a mazzi di rose o a fantasiose interpretazioni. Ancora: intorno a tale pratica di giornalismo, lo “spirito sarcastico” in coda alla Sua nota sta come il nero al bianco. Buio e luce, per intenderci: altro che “amarezza e dubbio”. Vuole davvero “approfondire”? In Lamezia Terme, presso la Pramantha Arteteca sarò relatore del Convegno organizzato in occasione del quarantennale dei “Riace”: il 19 p.v. dalle h.19:00. https://www.facebook.com/arteteca.pramantha
        Buonasera.

        1. Aiace

          A I A C E

          Un merito, signor Giuseppe, le va riconosciuto. Nonostante il cognome, ribatte colpo su colpo, con pervicacia, e di abbassare… le braghe non ci pensa nemmeno. Sanguigno. Come i suoi vecchi amici Sciascia e Buttita. Ma siccome anch’io ho i miei, e anche più vecchi, e altrettanto tosti, Gramsci e Lussu, , li deluderei se non tentassi, quantomeno, la preventiva riduzione del danno alla mia immagine telematica. Danno probabile, dovuto ai suoi terribili fendenti. A cominciare da quell’”Oileo” che con certezza (ah, le certezze!) immagina in me. In verità io puntavo per “Talamonio”, che a quanto ricordi era guerriero forte, buono e senza talloni di debolezza. L’archetipo dell’impavido soldato per cui un editorialista dei tempi, riferendone le gesta in un editoriale di successo, così concludeva estatico: “è dolce e bello, morire per la patria!”. Il massimo della abnegazione. Solluchero, per i guerrafondai. Non ho naturalmente competenze di biografie elleniche dei tempi. Ma, se scoprissi che quell’ “Oileo” era agli antipodi di quel prototipo, era cioè un soldato fanfarone, un “miles gloriosus” all’italiana, fregava le fanciulle, non si allenava con le armi e, al minimo pericolo, se la dava a gambe, ravviserei gli estremi del vilipendio, e passerei le carte ai miei avvocati.
          Capisco, signor Giuseppe, che gran parte della querelle sia germinata da quell’anelito che sempre sorge a salvaguardia della prole. Come la gatta, a morsi e graffi, difende i suoi gattini in pericolo, così lei sta facendo di tutto a difesa delle sue “Facce di Bronzo”. Non capisco invece perché le due sue creature, partorite dentro un silente Museo Archeologico dopo tredici mesi di doglie, le butti al macero del giornalismo d’inchiesta. Come una strage di stato, una tangentopoli qualsiasi. La sua, dentro l’Archivio, “disseppellendo dal comodo oblio il corpus di documenti” e dando contorni certi a una storia nebulosa, è stata una gravidanza da storico. Ha riportato alla luce, appunto, “verità (ah, le verità!) affioranti”, da quarant’anni a bagnomaria. E, forse, un po’ squarciato il mistero che aleggiava da millenni. Perché, signor Giuseppe, questo lavoro lo “degrada” a giornalismo d’inchiesta? Rimugina, forse, ambizioni deluse? Per cui, dopo quello d’inchiesta sarebbe arrivato il giornalismo degli editoriali?
          La faccenda, invece, del contrasto, più o meno finto, pare venirne piuttosto limpida. Quei sospetti inverecondi, buttati lì, en passant, dentro due righe di un corposo “editoriale” a disposizione di molte migliaia di astanti e, chissà, di probabili acquirenti di “un libro di successo”, le stanno portando bene. La Sibilla Cumana le è favorevole. Come si dice, disprezza e compra. I poteri della pubblicità non hanno limiti. E quel “purosangue etneo”, con quel suo lessico baldanzoso, “scriptor gloriosus”, di proposito o involontariamente (ipotesi alla pari), ha dato in ogni caso nuovo smalto a quelle “facce di bronzo” che rischiavano la ruggine dell’eterno oblio. Ecco perché tace, non risponde: non c’è bisogno. Il compito è già fatto. La missione, compiuta. E tutti i riverberi stanno venendo al pettine. A quello del “purosangue etneo” che, come un dio imperturbabile creatore, braccia in conserte, se la ride a quattro ganasce osservando queste futili e reiterate scaramucce. Che, a rigor di statistica, incrementano l’audience, nuova dea dei palinsesti esistenziali. Un inquilino in più, in questo piccolo (per ora) ma elitario salotto telematico, chissà quale benefit gli procurerà. Ma soprattutto al suo pettine, signor Giuseppe. Quali siano, i ritorni, di quella stroncatura-promozione, e di questo suo “interventismo” forsennato dentro il salotto, sono già piuttosto evidenti. Mio cugino, libraio, non sa più far fronte alle prenotazioni di “Facce di Bronzo” che non ha mai avuto in passato tra gli scaffali. E poi, last but not least, a chiosa finale, il convegno alla Pramantha Arteteca. Benché più che un invito sia apparso un sottile autocompiacimento del relatore (altro riverbero di quel salotto?), ne avessi saputo in tempo (solo oggi ho letto, mi perdoni signor Giuseppe, il suo fiero cipiglio nei miei confronti), avrei penzolato nell’indecisione. Da un lato avrei pensato: farò di tutto per non esserci. E non per disdegno verso il relatore, e i suoi approfondimenti. Ma perché, tra tutte le assise, la tipologia del convegno è una tisana mentale tra le più efficaci. O una camicia di forza fra le più angosciose. Dall’altro, invece, avrei pensato: come vorrei esserci. E solo per soddisfare un dubbio curioso. Non è improbabile, anzi è assai possibile si verifichi la scena cui nessuno, avviluppati nelle profondità del relatore, fa caso. Un tizio, barba e baffi finti si aggira, furtivo, nelle retrovie della sala, attento per ovvi motivi a non farsi riconoscere; ha un taccuino in mano che, ad ogni frase del relatore, riempie voracemente di appunti e di spunti. Quasi certamente è lui, il “purosangue etneo”, che prende la rincorsa per un prossimo editoriale sui due guerrieri finalmente rinati. Magari fra quarant’anni.

          1. Giuseppe Braghò

            Gentile “Aiace”,
            Replicare più volte a carteggio anonimo o pseudonimo (che – in fondo – abita medesima circostanza), non è bene: anche se ne varrebbe la pena, valutata la taglia del compilatore. Per la qual cosa, egregio Aiace (al momento, “Oileo” il quale, sappia, era temibile guerriero: però “testa dura”. Impenitente aggiungerei. D’altra parte un combattente non può che manifestarsi “duro”: sarebbe controproducente impugnare, in luogo del brando, un mazzo di lavanda. Tanto, però, non la assolve: sia ben chiaro), ponderi la personale proposta: si firmi e continueremo a disquisire, specie adesso che i “toni” rischiano di percorrere (pian piano: cosa vuole…) un virtuoso sentiero. Lei – Aiace – sa di scrivere a Giuseppe Braghò il quale, al suo contrario, ignora l’identità del contraddittore. Lei, egregio anonimo, brama l’epiteto di “Telamonio”, a quanto scrive. Bene! Lo consegua e ci leggeremo. Le auguro una buona giornata.

  4. Paolo Montefusco

    Egr. Dott. Merlo, forse colui al quale si riferisce come autore di “libri e prosa ispirata” sono proprio io. L’autore della sceneggiatura del film Mythos tratta dal “mio” omonimo romanzo che ha già da tempo ceduto i diritti cinematografici. Certamente il finale di quest’ultimo mi è stato ispirato dalle indagini di Giuseppe Braghò e tutto il resto del palinsesto dalle ipotesi di Sandro Stucchi. Purtroppo le quasi mille copie vendute non danno molto merito al mio lavoro il quale non può ancora essere definito un successo come “Facce di bronzo” ma le posso assicurare che ci sto provando con tutte le mie forze. Ho promesso parte dei proventi di Mythos al museo di Reggio in cambio di pubblicità e di una degna presentazione davanti al Tideo e all’Anfiarao ( a proposito, perché non li ha chiamati con il loro nome? ) ma è circa un anno e sto ancora aspettando. Le lentezze, come i ” mi ni futto etc, Lei lo ha scritto benissimo, sono una prerogativa necessaria per i burocrati di questa terra. Con il mio lavoro ho mirato a creare un alone di bellezza intorno a ciò che di più magnifico il mondo greco ci abbia consegnato e l’ho fatto sempre ripensando ad un insegnamento di Gide, ” il romanzo è un frammento di storia che avrebbe potuto essere, la storia un romanzo che si è svolto nella realtà.
    Io vorrei farLe una domanda: ma un innocente romanzo, può far temere che possa venir fuori una parte di verità? Se il più grande esperto al mondo di arte ellenica ha detto che i nostri due guerrieri forzatamente dormienti sono Tideo e Anfiarao, io, ho forse osato troppo nel dire che in quel gruppo di statue citato nel referto della Guardia di Finanza quel lontano 1972 ci fossero anche Mecisteo, Adrasto, Partenopeo, Polinice e Capaneo? Non è un caso che probabilmente il film Mythos sarà prodotto dai francesi e che il romanzo verrà presto tradotto in inglese negli Stati Uniti. Non sarebbe meglio, Dott. Merlo, considerare ed apprezzare il nostro impegno, anziché denigrarlo? Le posso assicurare che la gran parte di calabresi lotta ogni ora della sua vita contro i “mi ni futto ca so tutte fissarie” ma le possiamo assicurare che contro quella mentalità, è una lotta impari. Poi, quando veniamo trattati come poetucoli e fumettari…insomma, “supra a tigna a cuzzulata”!

  5. Paolo Montefusco

    Chiedo scusa al Dott. Braghò.
    Mi urge fare una precisazione, Dott. Merlo, perché anch’io come Lei, ho dato una notizia errata senza aver mai letto attentamente uno dei documenti più importanti riportati in Facce di Bronzo.
    Il referto che citavo, non è della GdF, bensì, ancor più grave, è la comunicazione di Mariottini, ( il sub che li avrebbe scoperti ), al sovrintendente dell’epoca Giuseppe Foti, il quale dichiara di aver rinvenuto un “gruppo di statue, presumibilmente in bronzo”. Quando si dice ” gruppo di statue ed in seguito “le due emergenti” io credo che ci si voglia riferire a ben altro. Sul braccio di una delle statue “UNO SCUDO”! Dov’è? Lo si può constatare a pag. 42 di Facce di Bronzo, e per i ciber-lettori è possibile vedere la foto del documento nella prima pagina web delle immagini dei bronzi. Senza questa precisazione sarei stato passibile di una denuncia e per fortuna qualcuno me lo ha fatto notare. Ma io sono soltanto un autore di prose, con i documenti non sono avvezzo, Lei ha milioni di lettori, avrebbe dovuto farlo. Il mio occhio fino ad ieri si era soffermato a quelle parole centrali, “GRUPPO DI STATUE” le parole che di più hanno stimolato la mia fantasia. Se ha detto il vero o ha avuto un’allucinazione da Indiana Jones, ringrazio comunque il Dott. Mariottini. Ma soprattutto Giuseppe Braghò, il quale ha vissuto per mesi a Riace raccogliendo centinaia di testimonianze, denunce, documenti originali ( quest’ultimi a Reggio ), dandomi la possibilità di ampliare le mie conoscenze. Per questo La invito a non trattare intellettuali come Braghò in tal modo. Se si fosse pubblicizzato il suo immane lavoro dettato soltanto dalla passione per la verità, l’interesse per il bene comune, e perché no, anche la mia umile prosa, forse il guerriero e lo stratega sarebbero già in piedi da tempo, onorati come meritano.
    Possiamo dire anche i Sette a Tebe e i dodici Epigoni? Noi li sogniamo, Lei perché non ci aiuta?
    Cordiali saluti.
    Paolo Montefusco.

  6. Vincenzo

    A me sembra che il Sig. Merlo abbia un po’ esagerato. Vera gran parte delle cose che dice. Sono consapevole dei mali che affliggono la mia città (ogni giorno assisto al brutto spettacolo del “non finito calabrese”) ma dire che anche il centro di Reggio ne faccia parte è ingeneroso e disonesto. Un po’ di buona pubblicità non ci farebbe male per risollevare un po’ l’economia di questa terra. Ma si sà, è facile sparare sulla croce rossa, e i siciliani in questo non sono mai stati generosi nei nostri confronti. Il finale dell’articolo è emblematico: “dai posti più brutti vedi gli scenari più belli” ovvero la Sicilia di Merlo.

  7. Aiace

    Caro Francesco, non so se la calata di sbarra fra il sottoscritto, povero tuo lettore, e l’intellettuale G. Braghò, sia il segnale che la ricreazione è finita. E non so, fosse così, a chi dei due addossarne la colpa. Ma vorrei che l’autore di “Facce di Bronzo” sapesse che non ho nessuna remora, proprio nessuna, a dare le mie generalità. Ho scelto, senza neppure pensarci tanto, ad Aiace perchè il tema gli si confaceva. Nei tempi antichi, quando Iliade a scuola e sfrenati amori iuventini a casa si intersecavano, John Charles era Aiace, Sivori naturalmente Ulisse, e Stacchini Achille, ma solo per il “pie’ veloce”. Ho così scelto lo pseudonimo per dare un tono frivolo (non so quanto riuscito) a quelle due righe dedicate a un libro di successo il cui autore, insinuando che tu non l’avessi manco letto, tempestava il blog di insistenti interventi. E per “colloquiare” sul faceto, io credo, non importa chiamarsi Pinco, o Pallino. Conciosiacosacché, la mia curiosità iniziale (Francesco, il libro l’hai letto?) resterà, temo, inevasa. L’attualità preme e, forse, soltanto il dubbio osato “ancora offende” la penna più eterea del firmamento giornalistico nostrano. Potrei risolvermelo, d’altronde, in self-service. Comprare il fantomatico libro, trovandolo, leggermelo da cima a fondo. E vedere chi bara. Ma, non è per i 20 €, pare, di costo, e neppure perchè il signor Braghò mi dà, forse in eufemismo, della “testa dura”. Il fatto è che sono di lettura lentissima e, sul comodino, ho una mezza pila di libri in gerarchica e silenziosa attesa. Più in là, forse. Ma non è detto. Intanto, continuo a friggere nel dubbio. Non sono forse, i dubbi, il sale della vita?
    P.S. E’ la prima volta, giuro, che ho azzardato un intervento telematico. Un veicolo, data la mia anagrafe, di cui non ho la patente. E visto il coprifuoco che ne è ingenerato, fosse per mia colpa, lo prometto: non lo farò più.

    1. Giuseppe Braghò

      Gentile “Aiace”,
      Non vorrei turbare – con l’assillo d’incessanti comunicati – la circostanza oggettiva (salvifica, aggiungo) indispensabile allo status di quiete necessario per ripartire concordia tra la pila dei Suoi Libri, in “attesa”. Che cosa dire? Certo, sarebbe forse opportuno “vedere chi bara”, come Lei scrive. In contingenze simili i signori Pinco o Pallino lo praticherebbero, suppongo. Un “qualunque” Aiace, poi! Discordanza, noto, tra la volontà di dichiararsi, oggi, senza problemi (cosa che, in effetti, non è successa) e la possibilità di firmarsi, ieri, in calce allo stupore giuridico che i Suoi Avvocati avrebbero di sicuro partorito, qualora Lei avesse subodorato onta nell’esatta interpretazione dell’epiteto. Apprezzo il Suo stile redazionale (pur notando la presenza di blande inesattezze lessicali) ma ne aborro parte del contenuto, quando – lo stesso – percorre le viuzze del dileggio gratuito: “braghe”, ad esempio. A tal proposito, presumo che Lei non abbia goduto dottrina umanistica: avrebbe sicuramente riscontrato altre “radici” di base, contenute nel mio cognome.
      Buone Vacanze!

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