Quando i lettori si contavano a milioni PANSA, MAESTRO CANTORE DI UN GIORNALISMO CHE NON ESISTE PIU’ Nel libro “Il Rompiscatole” le polemiche morte e la struggente bellezza di una professione morente

E’ l’epopea di un mondo in decadenza, l’autobiografia di un grande giornalista del tempo andato in cui i lettori si contavano a milioni. Ne rimanesse solo uno, Giampaolo Pansa continuerebbe a scrivere per lui. Cominciò nel 1948 “picchiando su una Underwood di seconda mano”, continua ancora picchiando sul computer “che ho imparato ad usare scrivendo lettere d’amore ad Adele”.
Perché si scrive? Nella piccola Italia dei cognomi, dove l’eccellenza era discendenza, capitava che un operaio del telegrafo dovesse alla firma del suo ragazzo “quella visibilità che non si era mai sognato…: signor Pansa come sta suo figlio? Gli porti i nostri saluti”. Il successo di quasi tutti i grandi italiani è la risposta al complesso di inferiorità della provincia.
Dunque questo è il romanzo della scrittura come risarcimento, del colpo di penna come colpo di spada del monferrino timido e ribelle, con il coraggio e la modestia di quella piccola patria che fu la cuccia del sentimento e del risentimento nazionali.
A 80 anni Pansa cerca se stesso nel sentimento di papà Ernesto e soprattutto di Giovanna, la mamma “che non leggeva i miei articoli”, una bella donna “con il piacere di essere sempre in ordine”. Diceva: “Guai se la moglie ha bisogno dei soldi del marito”. Era sarta con “molte clienti” nel negozio ‘Mode Pansa’ che “solo per rispetto” coniugale non portava il suo cognome di ragazza.
Ma Pansa si ritrova anche nel ri-sentimento di nonna Caterina, contadina analfabeta “che non aveva altra terra se non quella dei vasi da fiori”. Perse il marito – Giovanni – nei campi. Perse un figlio – Paolo – che cadde da un’impalcatura. Giovanni e Paolo: Giampaolo.
C’è la foga del malessere come risorsa persino nel suo famoso stile che è diventato una scuola. Sferzante e imprevedibile, ogni tanto si fa spericolato, come sempre è accaduto ai grandi giornalisti impressionisti che si possono permettere di attribuire a Kant il sospiro del fatalismo di provincia: “Fai quel che devi e avvenga quel che può”.
Bisognerebbe studiare quegli articoli che lanciavano grandi sguardi sugli avvenimenti indugiando su minuzie descrittive sempre condite dall’aneddoto e spesso dalla malignità: la Balena Bianca, il Coniglio Mannaro, il tavolo che il corto Fanfani fece segare, e poi gli onorevoli Cazzetti e Cazzettini, e quello che prendeva a schiaffi se stesso, l’ Internazionale che nell’aula bunker è uno sghignazzo, i morti ammazzati, i terroristi poi rincontrati come ex terroristi , le sanguinarie dall’aria mansueta. E le interviste, i ritratti: Berlinguer, Romiti, Lama, Andreotti, Craxi, Berlusconi , D’Alema… E’ l’Oeuvre, dicono i francesi, che illumina tutto, anche gli errori di un autore. La nonna di Giampa la diceva così: “Una giornata di sole asciuga tutti i bucati”.
C’era, nel Pansa giornalista funambolico, non solo la vita come spettacolo – “Scrivo da un paese che non esiste più” fu l’incipit dal Vajont – ma anche quell’attenzione dolce per il dolore che è una delle lezioni più belle di Fenoglio. Pochi sanno che Fenoglio non fu solo il poeta delle Langhe ma anche dei munfrin che descrive come omoni di schiatta contadina, picareschi e spavaldi. Pure la bella partigiana Dea era “schietta, franca, e coraggiosa. Sarebbe stata una Giovanna d’Arco”. Ebbene, ditemi se qui non c’è Pansa. E se non somigliano tutte a Dea le donne che delicatamente racconta in questo libro, senza concessioni alla moda detestabile del maschio femminista e senza i compiacimenti generazionali per la malafemmina. Dalla professoressa di matematica sino alla signora Adele Grisendi, che è la spiritosa compagna della sua vita, queste mille donne sono mille volte la stessa donna ” che non ero io che decidevo di guardare, ma era lei che mi obbligava a farlo”.
Pansa dice di dovere a Fenoglio anche il passaggio da sinistra a destra, dalla tesi di laurea sulla Resistenza concordata con Alessandro Galante Garrone ai libri su Salò che tanto hanno venduto e che lo hanno gettato in quella rissa culturale che qui confessa di amare. Prima di diventare un ciclo, poi “un’ossessione” – parola sua – e infine un estenuante déjà vu, che in psichiatria è una trance sonnambolica, un deliquio che abbassa i poteri critici, e in politica è una dannazione italiana, quella decisione di raccontare la guerra civile anche dalla parte degli sconfitti fu difficile ma giusta, come dimostra la forza delle critiche, feroci ed entusiaste. Ovviamente è spericolato associare le stroncature di alcuni professori di sinistra alle intimidazioni degli scalmanati energumeni di sinistra che in nome dell’antifascismo esibirono contro di lui la viltà del fascismo. Erano più o meno gli stessi che adesso cercano di zittire il professor Angelo Panebianco. E però rimane lecito non condividere Pansa o Panebianco.
E bisogna dire che gli italiani hanno come valore fondante la libertà e la democrazia, non la dittatura. In questo senso siamo tutti – Pansa compreso – antifascisti convinti e, se davvero si ponesse il problema, anche militanti. E’ però vero che nell’antifascismo non si agitava solo il valore della libertà perché i comunisti, che – insegna Fenoglio – non furono il tutto ma una parte, avevano in testa, almeno a quei tempi, un’Italia sovietica. D’altra parte gli storici migliori insegnano che la cosa più interessante sono le somiglianze più che i contrasti, il viaggio breve che intellettuali e masse fecero dall’uno all’altro campo, dal fascismo al comunismo.
E’ un divertimento – lo dico su un giornale che amo e lui finge di detestare – scoprire che non gli danno pace le vecchie polemiche che sono appassionanti (forse) solo per gli studiosi di biografie e per i filologi. E’ infatti vero che la professione di rompiscatole non finirà mai. Ma si possono rompere scatole che non ci sono più? Nel leggere per esempio che Giorgio Bocca , morto nel 2011, è ancora per lui, ottantenne munferin,” l’Uomo di Cuneo”, mi viene in mente D’Azeglio che liquidava Cavour: “empio rivale”. So bene che a tutti i piemontesi capita almeno un giorno nella vita di sentirsi dire ” sei troppo piemontese”, ma come va giudicata l’idea che mettere fuori Montanelli rese migliore il Corriere “senza più vecchi arnesi”? Vogliamo fare litigare i morti con i vivi?
E ora prendo ad esempio l’omicidio Calabresi, a cui Pansa dedica un capitolo e accenni polemicissimi non verso gli assassini, ma verso chi allora non capì. Pansa capì. E però quell’omicidio è nei libri di Storia. E nessuno può prescindere dalla giornata della memoria del 2009 quando al Quirinale si incontrarono Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, e Licia Rognini, vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli. “Finalmente, dopo 40 anni, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi. Finalmente due famiglie si ritrovano” disse Gemma Capra.
E che dire delle polemiche con Ezio Mauro, Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari che nessuno – ma proprio nessuno – qui a Repubblica chiama Barbapapà? Non che sia un soprannome offensivo, ma lo usano solo Pansa e i giornali che a Scalfari sono ostili.
Ogni volta che Pansa ne scrive si capisce che Repubblica gli torna in gola. Erano fratelli e si guastarono, dove guastarsi è un’ altra maniera di vivere insieme, senza mai perdersi di vista. E però i grandi protagonisti delle polemiche del tempo, quando passa quel tempo, non hanno conti da saldare. Rimangono gli stili e i dettagli di vita come contributi alla biografia del giornalismo italiano della carta stampata, alla struggente bellezza di una professione morente che ha premiato Pansa sino a eleggerlo maestro.

2 thoughts on “Quando i lettori si contavano a milioni PANSA, MAESTRO CANTORE DI UN GIORNALISMO CHE NON ESISTE PIU’ Nel libro “Il Rompiscatole” le polemiche morte e la struggente bellezza di una professione morente

  1. Palmiro

    C’è poco da dire!L’articolo su Pansa,come l’altro sui guastati d’Italia sono semplicemente dei capolavori! !!!

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