A pranzo con FERDINANDO SCIANNA “Se hai tutto in testa, a che ti servono i piedi?” “Per Guardare”

DAL NUMERO DI MAGGIO DI GQ
“Fotografo sempre meno perché mi fanno male i piedi. Dunque mi sono messo a scrivere”. Soffre di tendinite e avanza a passettini, come nel corso di Bagheria: “Non posso più andare a caccia di immagini. E’ vero che basta una foto per raccontare una grande storia, ma per avere quella giusta devi scattarne (e buttarne) diecimila, e dunque essere veloce, spostarti, inseguire l’istante mentre accade”. Forse ti fanno male i piedi, gli dico, perché vuoi scrivere: “Scrivo e mi piace molto”. Lo hai sempre sognato. “Avevo modelli troppo alti. Ho avuto, per amici e maestri, Sciascia, Borges, Bufalino, Kundera e Consolo. Come potevo scrivere e poi presentarmi a loro?”. Ti sei procurato il mal di piedi per liberarti di Sciascia? “Sul tavolo ho una foto di Leonardo che mi guarda benevolo. Mi diceva: non diventare schizofrenico. Ma, aggiungeva, se invece diventi un fotografo che scrive … Mi piace quando mi dicono: ho preso il tuo libro e l’ho letto tutto”.
Ferdinando Scianna è il fotografo che, più di tutti quelli che conosco, somiglia alle sue fotografie: viso e testa secchi e rasposi come le campagne di Bagheria, gli occhi chiari e luminosi come un mezzogiorno. Da lontano, con la postura ‘incroccata’ e il baschetto da cantastorie, sembra una delle forme del caos di Sicilia. Spesso parla per aforismi come le nonne con lo scialle nero che tanto ha ritratto. La risata è lunga, eccessiva, dionisiaca e pagana come le processioni di Sicilia che lo hanno reso famoso nel mondo. Ho guardato – gli dico – le tue foto della Padania e sono rimasto colpito perché c’era anche lì la Sicilia: padani di Bagheria. “Forse perché sono fuggito a gambe levate da un mondo che mi porto sempre dentro come una malattia. E cerco nelle cose quel che da sempre ho in testa”. Se hai tutto in testa, a che ti servono i piedi?”Per guardare”.
Ho conosciuto due ‘camminanti’ che andavano a piedi da Roma a Berlino: ‘per guarire la vista’ mi hanno detto. Scianna mi parla di sua moglie Paola che è art director di ‘Oggi’, ha diretto Photo e l’agenzia Contrasto… :” Da sempre si occupa di foto e di immagine, nonostante una malattia che le vela gli occhi, una di quelle malattie rare che appassionano i medici. Se lavora così bene con le immagini è segno che ci vede meglio di noi, ma non con gli occhi: organizza quel poco che riceve dagli occhi con la memoria, con il cervello, con il corpo. Immagina l’immagine”. Gli dico di Savonarola, che è stato il più famoso predicatore di tutti i tempi, ma non sapeva parlare, aveva la voce roca e l’accento romagnolo che, nella Firenze di allora, era peggio del siciliano a Milano. “C’è un mistero nella debolezza che diventa forza, è il fascino del balbuziente che canta. La storia della genialità, da Beethoven a Borges, è piena di questi paradossi, il cieco che fiuta i colori, il sordo che vede la musica”. E ora, al contrario, c’è il mal di piedi che acceca il fotografo.
Anche l’incontro di don Abbondio con i bravi è un racconto di rallentamenti e accelerazioni del passo, e chissà come sarebbe andata se don Abbondio che “tornava bel bello vero casa” avesse avuto una macchina fotografica. “La storia cambierebbe se avessimo la foto di Annibale sull’elefante, del cavallo di Troia, dello sbarco di Colombo”. E infatti Stalin truccava le foto e cambiava la storia. “Pensa se avesse avuto a disposizione il fotoshop. Monica Bellucci un giorno disse: ‘Non crediate che io sia come mi vedete nelle foto…’. Da parte mia, ho provato a essere un fotografo che non fa ritocchi”.
Ma basta ritoccare le foto per diventare un altro? “Servono. La foto è un documento d’identità. Tutti portiamo dentro il portafoglio la nostra foto e spesso anche quella dei figli e dei nipoti. Nessuno si porta dietro un disegno di qualche cosa. Solo la fotografia ha lo strazio della traccia del reale”. Ma nessuno si piace nella foto d’identità. “E’ la tua foto di riconoscimento, ma il solo che non si riconosce sei tu. Guardarla è come andare dallo psicanalista”. Non esiste la fotogenia? Non ci sono quelli che ‘vengono bene’? “Tutti, prima o poi, pensano di venire male. Ci sono anche quelli che dicono ‘mi hai fatto venire male’”. Colpa del fotografo? “Il fotografo bravo non è quello che ti fotografa per come sei , ma quello che ti spiana le rughe e ti fa somigliare all’immagine che hai di te”. Viviamo nell’epoca delle immagini taroccate, siamo tutti come Berlusconi? “Da solo Berlusconi è un trattato sull’immagine. Prima truccava le foto per ringiovanirsi. Poi ha truccato il suo corpo. Ora esibisce una vecchiaia esagerata. Ricominciò con quella foto del Sunday Times che ci stupì tutti: le rughe, la pelle increspata, lo sguardo triste, l’occhio sinistro leggermente più chiuso: ‘non ho paura di mostrarmi vecchio’, ‘così sono più vero di Renzi’”. Sono meglio i selfie di Renzi? “I selfie sono figli dell’angoscia, certificati di esistenza: ti fai la foto, la posti e poi te ne fai un’altra. Il grande successo dell’ultimo anno è lo snapchat: mandi foto, video e messaggi che durano pochi secondi e spariscono per sempre. Le vedi e non le vedi più. Non lasciano traccia”. Renzi è la via italiana allo snapchat?
Il mio amico Oliviero Toscani dice che la “la fotografia si nutre di tecnologia e i fotografi che usano ancora la pellicola sono inutilmente romantici: le foto digitali sono più a fuoco della natura”. “Beh, Oliviero una volta usò una foto per la campagna di Benetton dove c’erano dei morti per mafia e, al centro, una macchia di sangue. La colorò di rosso”. Però le foto truccate ci sono sempre state. “ Il documento è falso perché sulla foto scrivi dati anagrafici falsi, ma la foto non è falsa. E’ falsa la didascalia”. Ho un amico francese che doveva girare un documentario sulla Sicilia ma era disperato perché in Sicilia – diceva – non trovava siciliani. Alla fine li ha messi in scena in un angolo di Francia assolata, capelli e occhi neri, baffi e cappelli. E forse sono falsi la foto di Garibaldi che entra a Roma e il miliziano di Capa: “Nonostante i falsi, nulla come il reportage fotografico documenta. Per quanto mi riguarda il fotografo deve essere un testimone invisibile e mai intervenire sulla scena. Del resto puoi rifare una foto di moda ma non puoi dire a un uomo che muore ‘sia gentile, lo ripeta nel pomeriggio perché con questa luce non viene bene’; oppure: rimuoia quando mi passa la tendinite’”.
Sei nato povero? “No. Mio padre faceva il commesso e aveva un limoneto che rendeva abbastanza. La vera povertà da cui vengo è che a casa c’erano solo due libri, la vita di santa Teresa e una bibbia. Poi mio nonno, medico e avvocato a Palermo, regalò allo zio Michele una teca con dei libri Utet che lo zio, forse per non rovinare il regalo, non aprì mai. Erano i classici russi . Ho cominciato a leggere a 15 anni con Oblomov e Anna Karenina. C’entravano con Bagheria?”. Su Bagheria e sulla Sicilia Ferdinando potrebbe parlare per giorni: “La luce è speciale, fatta apposta per fotografare …”. Trovi la Sicilia dappertutto: non credi che l’ idea sciasciana della sicilitudine alimenti ormai il pittoresco? Non sarebbe ora di superare Sciascia come si fa con i classici? “Sciascia sarebbe d’accordo con te” mi dice e mi disarma davanti a una sogliola che mangio a fatica per quanto è bella: sembra una foto di Scianna, e pure scattata a Bagheria. Eppure siamo al Bebel di via S.Marco, a Milano. Gli auguro di dimenticare la Sicilia e promette che ci proverà: “Quando riprenderò pedibus calcantibus questo viaggio verso la foto che – hai ragione – è un viaggio verso me stesso”. Ferdinando è il fotografo che, ad ogni scatto, si fa l’autoritratto.

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