La prima volta di Di Maio al Quirinale DALLO SBERLEFFO FUTURISTA / ALLA GRISAGLIA POP(ULISTA)

 

“Caro Di Maio, è un piacere conoscerla”,”caro presidente, sono onorato”. Mattarella ha stretto la destra di Di Maio con la sua destra e poi ci ha messo sopra anche la sinistra in modo da attrarlo a sé. Ed è stato, quel tocco delle mani, il momento di maggiore comprensione tra i due soggetti smarriti: le mani del garbo dolente e quelle del grillino rifatto che, sotto sotto, ancora non ci crede; un contatto fisico utile a conoscersi molto più delle parole che, ha detto il presidente, “sono ben lontane dall’intesa”.

La prima volta di Di Maio non è stata dunque un’iniziazione politica, ma antropologica, la marcetta del pop(ulismo) attraverso i lunghi corridoi della storia, sotto vecchi lampadari che mettono soggezione, calpestando tappeti infeltriti e inerpicandosi lungo scale costruite per i cavalli.  Supercerimonioso con il Cerimoniale che lo assisteva, Di  Maio parlava della pioggia, della grandezza del cortile, della solennità dell’architettura, e più si avvicinava al presidente più  somigliava alla signora Elide del film di Ettore Scola: “Lei non salisce?”

Il cronista gli ha chiesto: si sente emozionato?.” Responsabile, mi sento carico di responsabiltà” ha risposto soddisfatto, con quell’estetica da “ho un debole per l’uomo in Lebole” che per la prima volta, accanto ai corazzieri, non si sente perduta. Di Maio è infatti felice perché la mamma lo guarda, sa che lo guardano i vicini di casa, i cugini e tutto il paese, anche quelli che sino a ieri lo prendevano in giro come Vincenzo De Luca per esempio che non lo chiama più “Giggino ‘o Webmastér” e gli offre invece consigli protettivi, da vecchio ras intenerito.

Arriva a piedi nella piazza e subito si capisce che a Di Maio piace vedere  i giornalisti che gli corrono incontro, ma anche che si compiace di cacciarli con la mano: “Lei non fa parte della delegazione” dice con gentilezza a un cronista che si era intruppato. “Avrà l’incarico?”. “Lo chiederò” risponde sempre fingendo, come un Balanzone meridionale, di coltivare un pensiero segreto, una carta a sorpresa.

Per Luigi Di Maio al Quirinale, rigido ma felice e con la grazia pop dell’arrivato, non è la prima volta del diavolo in Chiesa come fu per Beppe Grillo cinque anni fa. Dietro Di Maio oggi ci sono, sordi e muti per disciplina, un’elegante signora bionda, Giulia Grillo, di professione medico legale, con la stessa giacca avvitata della presidente berlusconiana del Senato e le stesse perle bianche per orecchini, e un gentile ex carabiniere laureato, Danilo Toninelli.  Hanno preso il posto che fu occupato da Roberta Lombardi e da Vito Crimi, i due simpatici “cittadini” – così si autodefinivano  pensando alla rivoluzione dei sanculotti -, due tontoloni che elogiavano il fascismo, si addormentavano in aula, si perdevano a Roma attorno al Parlamento e liquidavano i giornalisti così:  “lingue umide”, “servi”, “merde”, “frustrati” e “precari”. Oggi Di Maio, alla fine dell’incontro con Mattarella, dice che  vuole fare l’alleanza con quel Pd le cui deputate, poco tempo fa, venivano salutate in questo modo: “Voi donne del Pd siete qui perché siete brave solo a fare p…”.  Ma chissà se l’abito grigio,le scarpe inglesi e le già berlusconiane cravatte di Marinella  sono davvero migliori e più affidabili  della sovversione elegante di Dario Fo, della zazzera e del cappello di Casaleggio,  del ghigno beffardo dei dadaisti liguri, l’allegra brigata della scuola genovese, da Paolo Villaggio ad Antonio Ricci,  la smodata Genova  di un’idea come un’altra,  la faccia buffa che aveva preso l’antica indignazione carbonara, con  Paolo Villaggio che del grillismo diceva “non è una politica, è un cazzata”, ma poi di Grillo: “è un Mao allegro”.

Tutto quel che avevano immaginato come pernacchia futurista si è per ora travestito e accreditato  come il nuovo ventre molle d’Italia. Di Maio ripete “porto qui il popolo” e ” undici milioni di voti”, che significano, tra le altre cose, anche il plebiscito ai Cinque stelle di Ciaculli, e l’idea di popolo come provincia affamata. Non più l’odore di canfora e di naftalina che accompagnava i democristiani infagottati degli anni cinquanta  il cui popolo era il gregge di Dio; non più le giacche ruvide dei togliattiani con in tasca i lirici greci e latini tradotti per il proletariato in marcia. Di Maio indossa l’abito del terno al lotto, è la cuoca di Lenin che vince alla lotteria e davvero pensa che questo basti a governare.

E infatti varca per la prima volta il portone del Quirinale come fosse di casa, come se il Palazzo fosse già suo. Sicuramente piacerebbe a Umberto Eco questo suo offrirsi come idolo, con la competenza surrogata da un consenso che è grande ma non sufficiente, tronfio per un trionfo mutilato come l’Italia di Vittorio Veneto, vittorioso ma sconfitto come fu Bersani che oggi potrebbe, a parti invertite, gridare al vincitore quel che a lui (vincitore) gridò Grillo. “Siete circondati, arrendetevi”. E forse  Umberto Eco ci regalerebbe una riscrittura della celebre fenomenologia di “un esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità”: altro che Mike Bongiorno! Ben più di lui che fu epopea nazionale con le mille, allegre gaffe dal sapore familiare, Di Maio  avanza dentro il Quirinale come il modello antropologico del populismo addomesticato di governo, il sobrio cappellano della rabbia italiana , con il cantore ed esegeta Travaglio, un duro ma facile alle cotte di potere, “un surrogato” che si traveste da Benedetto Croce e re-incarna la vecchia maschera italiana del giornalista picchiatore di regime ma…rivoluzionario. Non è lecito spingere troppo questo facile paragone con gli anni 20, ma il primo governo Mussolini somiglia al contratto “alla tedesca” (che è un esotismo senza senso compiuto)  offerto  ieri pomeriggio da Di Maio a Mattarella: tutti dentro quelli che ci stanno, “noi non siamo né di destra né di sinistra” che può essere detto anche al contrario: “siamo sia di destra sia di sinistra secondo chi viene” (nel 1922 non vennero solo i socialisti che Mussolini saluto così: “voi mi odiate perché mi amate ancora”).

E  non c’è da difendere la sacralità degli scranni  e delle istituzioni visto che di critiche e sarcasmi sul senato, sulla camera e sui governi,  ne abbiamo composte un’ antologia. Ecco il punto: per quanto blasonate e prestigiose siano le cariche alle quali può ora accedere Di Maio, semplicemente ci si può riconoscere non adatti, inadeguati, incompetenti o magari anche pensare, con orgoglio scanzonato, che sia il ruolo di statista a non essere adatto a te. Invece  Di Maio è felice mentre stringe le mani di Mattarella perché sa che domenica prossima il parroco del suo paese, come già fece a Pasqua, lo benedirà dall’altare chiamandolo per nome.

Quando infine, alle sei della sera, la delegazione di Di Maio si allontana e la polizia per difenderlo dai curiosi svuota la piazza e caccia il popolo, che è un’ immagine peggiore delle auto blu a sirene spiegate , il nuovo potere populista si veste già di nomenklatura, fa la prova generale del petto in fuori e del passo cadenzato: lui è il popolo, lui è la rivoluzione. Come già accadde a Virginia Raggi all’esordìo in Campidoglio, Di Maio per ora vive il potere in una bolla di naturalezza, uno stato di grazia che gli viene dal successo, ma è un Calimero che si sente Federico II o, poiché parva non licet…, è come Lara Cardella quando voleva i pantaloni.

3 thoughts on “La prima volta di Di Maio al Quirinale DALLO SBERLEFFO FUTURISTA / ALLA GRISAGLIA POP(ULISTA)

  1. Mario

    “Le innovazioni, le decisioni proiettate nel futuro da un pezzo non partono più dalla classe politica. Al contrario: soltanto quando un’idea nuova si è ridotta a banalità, partiti e governi cominciano a pensarci. Le decisioni effettive vengono prese in sedi decentrate, in un sistema nervoso ramificato che non è controllabile da nessun punto. La politica, come dicono i teorici, diventa un processo stocastico. In tal modo gli organi centrali perdono autorità e peso. Il loro spazio si riduce, ma diminuisce anche la loro pericolosità. Il governo diventa una tigre di carta.”
    Hans Magnum Enzensberger da Mediocrità e Follia – 1988

  2. Angelo Libranti

    Non è sembrato vero a Di Maio essere ricevuto al Quirinale. Quegli scaloni, quei lunghi corridoi e pesanti tendaggi devono averlo suggestionato. ‘Ndo cazzo sto, avrà pensato,
    come il carbonaio del Marchese del Grillo, dopo essersi svegliato nel suo lettone profumato.
    Questi sono, purtroppo, i nostri politici più rappresentativi; gente presa dalla strada o dagli spalti dello Stadio San Paolo a Napoli mentre, con la cassetta a tracolla, vendono bruscolini e gazzose, confermando il detto: al peggio non c’è mai fine.

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