“L’estate del ’78” di Roberto Alajmo TUTTO SU MIA MADRE E IL SUO ADDIO IN STAMPATELLO

Indietro, indietro con fierezza sino al giorno del 1978 in cui, a Palermo, la mamma fu trovata bocconi sul pavimento, la camicia da notte indossata sulla vestaglia, la testa voltata verso il letto per negarsi allo sguardo, e sul comodino un foglio dove aveva scritto, con il rossetto, qualcosa che non si riuscì a leggere. “Destino penoso: uccidersi per l’incomprensione degli altri, e gli altri che non riescono a capire nemmeno il biglietto che lasci per spiegare il motivo”.

Indietro, indietro con ironia sino al giorno in cui, dopo dieci anni di penosa malattia (“la sopravvivenza in sé non è un valore”) seppelliscono papà, che intanto si è risposato. Ma quando calano la bara:

– Dutturi, ‘un ci trasi.

– Ma è grande la bara o piccola la tomba?

– Tutti rui.

– E quindi?

– L’amu a tagghiari

Indietro, indietro con rimpianto, per compilare il proprio Repertorio delle Gioie Irrecuperabili: “leggere senza occhiali, mangiare frittura a cena, dormire una notte intera, essere riconosciuto da un genitore…”. E ancora: proviamo a ricordare, noi padri  e voi madri, l’ultima volta in cui abbiamo preso in braccio nostro figlio: “Il primo dentino si vede e infatti si festeggia; l’ultima volta che lo prendo in braccio invece non posso saperlo”. Il figlio di Alajmo si chiama Arturo. Ed ecco il catalogo dei film da vedere per piangere insieme, padre e figlio”: Big Fish, Il Postino, Alla ricerca di Nemo, Butch Cassidy, Nuovo Cinema Paradiso, Cría cuervos.

Quel che accade di botto – ci insegna questo arretrare di Roberto Alajmo nella storia di famiglia – non accade mai di botto. Anche l’amore tra mamma e papà, quando lei ha 17 anni e non ha mai avuto un  fidanzato. Nel libro ci sono le foto: il corpo è a clessidra, la sensualità è d’epoca.

Ma la memoria, come un romanzo giallo, è già sentimento del pericolo: i viaggi in Vespa, i nomi  Elena e Vittorio ancora su quel tronco d’albero dentro un cuore, le lettere d’amore dove il sesso è  “zigt-zigt”. Per ora è “il ritratto di un amore dal quale fa un bell’effetto essere stati concepiti”. Solo l’eleganza della scrittura allude al male di vivere nel tempo lieto ma già segreto: nonni, zii, regali, viaggi, e foto di mamma che sul letto ci vive, “sdraiata, seduta,  accovacciata, supina, bocconi, di traverso, sottosopra, su un fianco o sull’altro, sopra o sotto le coperte”.

Poi cominciano le porte sbattute in piena notte, le voci alterate, lo sciacquone tirato troppe volte: la guerriglia. Un giorno mamma ha i polsi fasciati: “Che ti sei fatta? Niente mi sono tagliata. (Ma sui polsi? Su entrambi i polsi?)”. Introversa e intellettuale, lei avvizzisce mentre papà, vitalistico e curioso del mondo, rifiorisce.

E c’è il 1978, l’anno – Alajmo non lo dice ma lo mostra – che andrebbe raccontato non solo per spiegare la fine dell’utopia marxista nel bagagliaio di un’auto, ma anche per la legge Basaglia, che non abolì i “disturbati” come si dice oggi, ma diede loro la dignità di persone, li sottrasse alla violenza come terapia, li strappò dalle grinfie scientifiche della psichiatria misuratrice di crani. Elena, la mamma, la maestra che a Palermo seguiva don Milani, Elena la pittrice usava un farmaco, Spasmo Oberon, che (non) le curava il mal di testa, ma la drogava e le dava dipendenza. Quel barbiturico, veleno da rotocalco, sarà ritirato dal mercato nel 1986.”Forse non è stato testato abbastanza, o è stato testato da qualcuno che ha intascato una tangente … Sta di fatto che negli anni settanta le case italiane si riempiono di madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, ma nessuno lo sa”.

La mamma soffre di “psiconevrosi con difetti di personalità caratterizzati da deficienza di identità compensata da tecniche di egocentrismo”. E qui la psichiatria diventa la medicina del dottor Tersilli che fa il saltello, la scienza del dottor Kranz di Paolo Villaggio, quello che gridava: “Chi viene voi adesso?”.Mamma entra ed esce dalle cliniche dove l’elettroshock è “l’equivalente del calcio alla lavastoviglie che ha smesso di funzionare: può andar bene, oppure continua a non funzionare, oppure si sfascia del tutto”.

Sfasciata, Elena “finalmente” va via di casa: donna in fuga che si fa del male, è un’estremista della sensibilità. Su di lei si abbatte la furia dei benpensanti e la violenza delle leggi: la direttrice dell’Istituto, abituata a ingoiare i suoi rospi, vede la scimmia che la maestra ha sul collo e si accanisce. Elena appare e scompare, accetta un amante che non ama, di notte ingoia Spasmo Oberon e chiama il Telefono amico. Un giorno di luglio aspetta il figlio per strada, cuocendo sotto il sole di Mondello: sarà l’ultimo imbarazzato incontro.

Non si sa quando, scrive una lettera “da aprirsi dopo la mia morte”: “…voglio che tutti sappiano –  incide a stampatello – CHE HO SCELTO IO IL MOMENTO”. Quarant’anni dopo, in questo libro, che – passa parola – è bello davvero, il figlio Roberto, grazie alla distanza e all’effetto fumé della letteratura, ritrova il senso forte di una vita e di una morte memorabili, rende onore al coraggio e alla fierezza di un suicidio in stampatello.

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