LA CASSAZIONE E LA PAROLA MAFIA (A ROMA)

A Roma c’è la mafia. Purtroppo avevamo ragione anche se avevamo sperato di avere torto. La Cassazione,  che non fa solo Giurisprudenza, ma pur non essendo la Crusca fa anche vocabolario,  ha stabilito che quella di Ostia è mafia e non una puzzonata, che il controllo di quel territorio è mafioso e non cravattaro, che “le famiglie” sono mafiose e non bande di spezzapollici. E lo diciamo senza farci maramaldi perché alla disputa, giuridica e linguistica, riconosciamo valore. Non pensiamo, insomma, né che siano sciocchi né tanto meno lestofanti da concorso esterno quelli che non volevano credere che la città più bella del mondo, la quale era stata via via corrotta, infetta e ladrona, fosse mafiosa, e in un modo piccolo e dunque poco degno non solo della sua maestà, ma anche della cupa grandezza della stessa mafia.  E poco importa che quell’inchiesta sia stata ridimensionata nel numero degli imputati perché qui la grande novità sta nella correttezza, non solo giuridica, della parola mafia attribuita alla città della corruzione e del potere.

Attlio Bolzoni ci ha raccontato ieri che le motivazioni della VI sezione della Cassazione – considerata la più garantista – hanno dato un colpo indiretto ma mortale alla sentenza di primo grado nel processo di Mafia Capitale che aveva invece escluso la mafiosità, derubricando il 416 bis a comune associazione a delinquere. Com’è noto ci sarà l’ appello e, benché i giudici non siano vincolati alla Cassazione ma solo alla legge, è ovvio che la futura sentenza, quale che sia, finirà anch’essa alla Suprema Corte che poi difficilmente dissentirà da se stessa. E va de sé che un clan mafioso ad Ostia, che è un quartiere di Roma, sia mafioso anche a Tor Bella Monaca, al Quadraro e pure  in Campidoglio, e che la mafia è mafia anche senza bombe e incaprettamenti, e basta che il  numero degli affiliati sia superiore a tre. E non è detto che la mafia  debba esprimersi con morti ammazzati, patti di sangue, raffinerie di droga  e piani regolatori. Quel che conta – dice la Cassazione – è il metodo,  il controllo del territorio con la violenza, le minacce fisiche, l’estorsione. Ed è ovvio che i due boss romani non riproducano l’umanità del padrino e di Toto Riina. Ma si tratta di mafia e non di “bazzecole, quisquilie e ohibò pinzillacchere” di banale corruzione, anche se la nostra Roma esce rimpicciolita nel triste paragone con  Palermo.

L’impatto della Cassazione è enorme perché stabilisce che l’espressione Mafia Capitale non fu l’esercizio di stile di inquirenti che non essendo romani non potevano capire che si trattava di fregnacce, sia pure criminali. Era vero il contrario: in difetto erano tutti i romanissimi  – in testa Giuliano Ferrara – con l’autodifesa troppo generosa di un mondo che non voleva sentirsi in colpa, non voleva scoprirsi fratello di mafiosi. Come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. E forse i meridionali conoscono meglio il paesaggio mafioso, che non è fatto di fichidindia e coppole storte, e ri-conoscono la scenografia urbana della mafia nella violenza sui marciapiedi e nell’invadenza dei commerci illegali, nei cassonetti bruciati, nel degrado dei trasporti e del decoro delle metropolitane, nei lavori pubblici incompiuti, nella cultura come baraccone di incompetenze, nella corruzione politica che diventa sistema…  E sullo sfondo ci sono pure le esecuzioni per strada. E pensate alla testata con cui è stato affrontato un giornalista troppo insistente. La testata non è di per sé mafiosa (basti ricordare  Zidane), ma sul naso è codice da Ucciardone come racconta il romanzo “Malura” di Carlo Loforti (Baldini& Castoldi).

Infine, la Cassazione non può usare il linguaggio corrente, ma le parole delle norme, che per noi sono slang giuridichese. Quando  è costretta a ricorrere a un parola in “Volgare” la nobilita acquisendola alla legge e la trasforma in lingua ufficiale. E’ avvenuto con le unioni civili che erano la perifrasi “relazioni stabili tra conviventi” dopo essere state “coppie di fatto” e prima ancora concubinaggio. E il femminicidio, che è violenza di genere dopo essere stato uxoricidio e delitto d’onore, adesso è usato dalla Corte ma solo con il disinfettante di un “cosiddetto” abbreviato in “c.d.”.  Nell’aprile scorso la Cassazione ha benedetto persino “stalking”.A volte per riconciliare il diritto con la realtà, per adeguarsi al passo e al fiato della società basta una parola: mafia.

2 thoughts on “LA CASSAZIONE E LA PAROLA MAFIA (A ROMA)

  1. volty

    fischi per fiaschi,
    straccionaschi per mafiaschi

    Il modus operandi deve essere accertato quartiere per quartiere, caso per caso. La mafia non opera, e non può operare, con gli stessi metodi in tutti i luoghi.

    Siamo alla vittoria della terminologia superlativa.
    Comunque sia, certificato che la mafia esiste (anche lì), l’attribuzione non potrà essere automatica.

    «« Come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. »»

    E, come insegna sempre la teologia, la altrettanto suprema astuzia dei “giusti”, è quella di far credere che il diavolo è dappertutto — nei cassetti, sotto il materasso (e pure quello ad acqua), …, nei giornali, soprattutto tra le righe e le pieghe di parte.
    —–

    Cmq. sia correttezza giuridica esige(va) di accertare prima di nominare. Difficile vendere la tesi per cui si sapeva tutto già prima (perché se lo si sapeva già ….!).

    La Crusca ci regalò “petaloso”, e il mondo va per il meglio, molto meglio di quanto l’ottimista Pangloss poteva immaginare….

  2. Paolo

    lei caro Merlo comprende poco di diritto e non ha capito bene se non nella versione giornalistica cosa ha detto la Corte ma si sa questo è il livello della narrazione italica, quello di spelacchio

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