Gli architetti e le città STEFANO BOERI E LA MILANO DI ACQUA E VERDE ” E’ vero, Milano è speciale, ma basta arroganza”

MILANO – “Milano ce l’ha fatta, è vero, ma ora corre due grandi pericoli: l’arroganza e la nostalgia. Il salone del libro è la dimostrazione che Milano, quando si compiace troppo, diventa arrogante”. E la nostalgia? ” Proprio adesso che finalmente stiamo assaggiando il futuro, progettiamo il rimpianto: giustamente vogliamo sfruttare l’acqua, ma sogniamo quella delle vecchie cartoline, non l’acqua e il verde che ci possano fornire energia e aria pulita, ma il ritorno a una Milano premoderna con la riapertura totale dei Navigli. E l’audacia diventa surreale: una spiaggia a piazza Cavour, le gondole per andare alla Statale. Al fondo c’è l’idea che Milano possa prendersi tutto: rubare il salone a Torino, o sole mio a Napoli, la laguna a Venezia”.
Milano sta tornando a dividersi. Sono due le parole del suo futuro : acqua e verde. “Milano è sempre stata una città bipolare: Milan e Inter, il Pirellone e la Torre Velasca, i panettoni Motta e Alemagna, la Cattolica e la Bocconi, Mondadori e Rizzoli, e c’erano quelli dell’Einaudi e quelli della Feltrinelli… “. L’Einaudi a Milano era il mondo di tua madre, Cini Boeri, 92 anni, protagonista del design italiano, staffetta partigiana, la signora del Pci milanese. Nella sua casa, nella vostra casa in Sant’Ambrogio, cenavano dunque quelli dell’Einuadi: “Il cuore era la libreria Aldovrandi. L’Einaudi significava il Pci ovviamente, e ricordo, a cena da noi, Amendola, Napolitano qualche volta Paietta e Berlinguer; ma quelli dell’Einaudi erano anche gli irregolari che per il Pci contavano persino di più, Volponi, Paolo Grassi, Luigi Nono, Spriano, Bertolucci, Elio Petri, Ugo Stille …rammento una visita di Piero Sraffa, persino di Olivetti. E ovviamente Guido Rossi. Si sceglievano i senatori, si trovano finanziamenti alla Scala, si nominavano i direttori del Corriere “. E quelli della Feltrinelli? “L’Einaudi significava la sinistra di potere, quella dell’egemonia culturale; la Feltrinelli era invece la sperimentazione e l’avventura e penso alla Pivano, a qualcuno del gruppo 63, a Giulio Maccacaro, che fu il curatore della collana Medicina e Potere e andrebbe riscoperto”. E Giangiacomo? “Nella mia giovinezza non c’è. Era un mondo molto vicino e tuttavia molto lontano”.
La sinistra milanese che allora si divideva tra potere e avventura ora si divide tra acqua e verde? ” Con la bipolarità è facile andare avanti sino alla caricatura. Ma sarebbe meglio che per una volta Milano evitasse il derby. Personalmente subisco il fascino del doppio patriottismo, l’amore per i due destini da unire. Va sicuramente bene l’eleganza fragile del canale navigabile, dall’Adda sino a San Marco, e una darsena alle spalle del Corriere della Sera. Ma nelle strade della Cerchia il ruolo ornamentale non giustificherebbe l’impresa, risarcirebbe solo il ricordo ma diventerebbe difficile persino la circolazione di pedoni e biciclette; i marciapiedi dovrebbero essere allargati e in via del Mulino delle Armi, in via Sforza, in via De Amicis i navigli sarebbero canaletti, non dico di scolo ma… Aggiungiamoci la potenza moderna e pulita di un “fiume verde”, 45 chilometri di piante sopra e acqua sotto, che unisca le sette stazioni dismesse e faccia di Milano una città-parco, con una sesta linea di metropolitana, ovviamente di superficie, l’abbassamento della temperatura durante l’estate, l’energia pulita generata dalla geotermia ad acqua di falda e poi boschi, appartamenti a basso costo, finalmente una Moschea per i 120 mila musulmani di Milano costretti a pregare nei garage dove tutto diventa sospetto e pericoloso. E ancora, ai bordi, un sistema di torri. E campi di calcio, il Grande Pratone per i bambini”. E Stefano Boeri fa lo schizzo di questa sua Milano,con il naviglio riaperto in via Melchiorre Gioia e la darsena a San Marco, e poi i 45 chilometri di verde che collegano appunto le sette stazioni: Farini, Porta Genova, Porta Romana, Rogoredo, Greco-Breda, Lambrate e S. Cristoforo.
Acqua o verde? Il sindaco Sala ha avviato entrambi i progetti, ma si sa che la riapertura dei navigli è il suo vecchio sogno. “Sala fa il sindaco con intelligenza e passione, ha investito 11 milioni sul risanamento delle periferie che a Milano sono in centro, con continui e improvvisi cambiamenti del paesaggio urbano e pezzi di territorio abbandonati alla criminalità”.
La Milano di Boeri è ancora quella delle famiglie. E, come ai tempi del Manzoni, dei Verri e dei Beccaria, anche l’illuminismo qui è endogamico: famiglie appunto, mogli, compagne, figli, nipoti. Il padre di Boeri era un famoso neurologo, il nonno un senatore liberale di sinistra: il blasone qui è l’antifascismo. E poi ci sono i modi, la cura di sé, il viaggio,le lingue, l’umanesimo, la laicità: “Io non so no nemmeno battezzato” . Dopo la separazione dei genitori arrivarono i libri di Vando Aldovrandi (“Al”) e i fotografi di Grazia Neri. In via Donizetti tra studio e casa vivono i tre fratelli Boeri: Sandro, il giornalista che ha inventato Focus; Tito, l’economista che guida l’Inps; e Stefano appunto, l’architetto. Il palazzeto Boeri è una trasposizione smorfiata del palazzo dei Verri dove la anche la ragione e la città erano trattate come beni di famiglia.
Domando: qual è la differenza tra proteggere la memoria e abbandonarsi alla nostalgia? Boeri mi porta allora in via festa del Perdono, nei sotterranei, dove c’è la cripta e dove Paolo Galimberti, straordinario archivista, custodisce i ritratti dei benefattori che sostenevano e finanziavano l’ospedale. “E’ un pezzo di Milano che nessuno conosce, e che dovrebbe diventare Museo, una fantastica galleria che racconta la storia della città.”. Ed è appunto una rete di famiglie, nobili e borghesi, mecenati e grandi professionisti. Nella Milano dei Boeri c’è il mondo di Guido Rossi, scomparso nell’agosto scorso, che fu al tempo stesso sostegno e frusta per l’establishment italiano, opposizione e sistema, l’alta finanza di sinistra pubblicata da Adelphi. E poi la Milano delle corti nascoste e delle case delabré come quella di Giovanni Agosti, il professore d’arte che appartiene alla razza in via d’estinzione degli intellettuali da torre d’avorio, che nella cultura italiana sono stati molto più importanti dei soliti noti, e parlo dei Bortolotto, Quirino Principe, Isella, Longhi, Mario Praz, Cesare Brandi, Giacomo Debendetti, Contini…: come diceva Raymond Aron sono “ricci” mentre gli altri sono “volpi”. Boeri e Agosti sono inseparabili, anche se Boeri è volpe e Agosti è riccio. Guido Rossi, ha raccontato Agosti, “il cui corpo alla fine assomigliava a quello del Cristo di Grünewald a Colmar” – poco prima di morire ha messo in mano alla moglie Francesca i Promessi Sposi “come il libro a cui chiunque si rivolge in tutti gli accidenti della vita, sicuro di trovarci una risposta o una condivisione almeno delle proprie inquietudini”. Rossi abitava nello stesso palazzo di Umberto Eco. E Stefano Boeri lavora perché le due preziose biblioteche vengano riunite: un enorme patrimonio di rarità che andrebbe protetto. E siamo di nuovo alla differenza tra memoria e nostalgia che “è il grande male dell’Italia smarrita”, la disperata via di fuga di un paese stupito e instupidito che in politica torna al proporzionale e si rifugia nel déjà vu anche nello spettacolo.” E a Milano pensa che riaprire i navigli significhi tornare ai canali nebbiosi e ai baci sotto i lampioni. Ma la nostalgia alla fine paralizza, impedisce il futuro. Dal mio amico Celentano alla vecchia sinistra, in nome della nostalgia in tanti dicevano di non volere edifici sviluppati in altezza, ma in realtà non volevano costruire nulla. In campagna elettorale anche Pisapia era con loro. Non volevano neppure l’Expo che oggi riassume in sé la rinascita. Io non ho condiviso l’acquisto dei terreni ad un valore sedici volte più alto di quello agricolo, un affare per i proprietari. Ma l’Expo ha il merito di avere mostrato al mondo che Milano era ridiventata Milano. Dietro c’è un lavoro lungo, fatto di pazienza, sinergie, fortuna. E bisogna riconoscere che si cominciò, sia pure senza regole, con la prima giunta Albertini, si proseguì con la Moratti, e infine con Pisapia si trovò il senso “.
E cosi, con la complicità della grande crisi di Roma, l’Italia intera ha restituito a Milano il suo primato. Oggi Milano è l’altra Italia, quella dei vecchi e bellissimi tram, gli stessi dei quadri di Sironi, la sola Italia dove si cammina con il naso all’insù per via di quei palazzi ad elica che si attorcigliano in un barocco moderno. “A parte il caso del Centro Direzionale di Napoli, è vero. Ma l’unicità è una brutta bestia che trasforma l’orgoglio in superbia”. Esageri? “Sono le piccole cose che svelano le tendenze. Abbiamo inventato Bookcity, che funzionava perché faceva parte di un sistema integrato: a Torino c’era il Salone con tutte le novità dell’editoria; a Mantova il festival della letteratura offriva al pubblico l’incontro con gli autori; Milano organizzava la lettura diffusa, e la città diventava un club di strada dove una corrente di trasmissione del pensiero ci spingeva tutti verso il libro, così come nei giorni di Pianocity ci spinge tutti verso la musica. E potremmo organizzare pure Footballcity, tre giorni per giocare al calcio per strada, sulle scale delle chiese, dovunque. E non venitemi a dire che non è roba per architetti. Questa è riqualificazione urbana. Il lavoro dell’architetto è trasformare lo spazio della città, di cui siamo tutti coautori. E invece per hỳbris, per arroganza, in un colpo solo Milano ha aggredito il salone di Torino, ha ammazzato Bookcity, ha danneggiato persino Mantova. E purtroppo è stato pure un flop.”
Il flop è servito a capire? “L’educazione sentimentale dei milanesi è da tifosi, e dunque non c’è partita che non abbia sullo sfondo un vecchio rancore, un Milan-Inter di ritorno, rivalità arcaiche e sostanziali tra famiglie.” Anche tra famiglie di architetti? “Soprattutto tra famiglie di architetti.”. Gio Ponti contro Ernesto Natham Rogers, Domus contro Casabella e, più avanti, Vittorio Gregotti contro Aldo Rossi. “Ecco, appunto. Ma io, che mi sono laureato con Bernardo Secchi e devo molto a Gregotti, ho scoperto la grandezza di Aldo Rossi e poi anche di Giancarlo De Carlo che a Milano era un alieno”. Diceva di essere anarchico, ma era molto vicino a Vittorini. “Non solo per questo Milano non lo accettava. Il punto è che non era di famiglia. Come Renzo Piano, che spesso veniva chiamato, ma poi era costretto a rinunziare. Ho una foto del maggio 1968 che misi in copertina su Domus dove c’è De Carlo che sembra Lenin: affronta i situazionisti, i maoisti, gli agitatori ‘dalla faccia cagnazza’ avrebbe detto Gadda. E tra loro si vedono, nientemeno, Gio Pomodoro, Emilio Isgrò, Franco Fortini, Franco Cerri, Enzo Mari, Ernesto Treccani… In mezzo c’è De Carlo, fragile e duro. Cerca di convincerli a non occupare la Triennale”. Ci riuscì? “No, e la sua Triennale fu distrutta il giorno dell’inaugurazione. Ma vale per la Triennale quel che vale per il giardino di Mallarmé, dove la ‘rosa più bella è quella che non c’è.”
Ma le discussioni sul ‘come costruire’ sono già vita nell’Italia del degrado progressivo e inarrestabile. “Sicuro. E a volte arrivare in ritardo può persino avere qualche vantaggio: oggi lo stile della nuova Milano è chiaro, funzionale, luminoso, trasparente, personalizzato e non sto parlando del mio Bosco Verticale, ma dell’insieme delle costruzioni, un vero laboratorio di architettura: la ristrutturazione della Scala, la Triennale, l’area di Porta Nuova, Garibaldi e Isola, la sede del Sole 24 ore, Il Museo del Novecento, la Darsena, il Museo delle Culture, Portello, la Fiera, City Life , la Fondazione Prada, il Centro Armani, la sistemazione del Museo della Pietà Rondanini … E la Fondazione Feltrinelli, che è l’ultima arrivata, con quel cemento liscio, il legno chiaro e l’acciaio.”. Il Bosco Verticale fu trattato come uno strampalato capriccio prima di diventare l’icona di Milano, un edificio replicato in mezzo mondo e premiato anche con l’International Highrise Award. “L’architettura purtroppo comincia sempre lottando con gli indici di gradimento. All’inizio si oppongono tutti, poi ….”. Anche gli altri architetti? “A Milano sicuro”. Gregotti ha scritto…: ” sì, ha scritto, più o meno, che il mio Bosco Verticale lo aveva già inventato suo zio mettendo le piante nel balcone”. Chissà, c’è una parentela con tutto. Anche tra queste due torri – di 110 e 76 m, con 800 alberi (di 3, 6 o 9 metri ciascuno), 4.500 arbusti, 15.000 piante e fiori – e la canzone di Paolo Conte: “Nelle ombre di un sogno / o forse di una fotografia lontani dal mare / con solo un geranio e un balcone”.

One thought on “Gli architetti e le città STEFANO BOERI E LA MILANO DI ACQUA E VERDE ” E’ vero, Milano è speciale, ma basta arroganza”

  1. Paolo

    Finalmente un articolo sull’arroganza egoista di cui Milano si è fatta in questi anni prototipo. Parole intrise di autocompiacimento tipicamente milanese, ma che hanno posto il tema, sia pure senza nominarlo, del provincialismo di cui è intrisa quella cultura che, nel suo miglior momento, largamente dovuto alla sinergia col governo nazionale, ha espresso una bulimia, esemplificata al culmine dal salone del libro, che ne segna la cifra. Tra scimmiottanenti di architetture altrui considerate trendy, e una trasformazione in eventopoli al limite del ridicolo. No, la pulizia delle strade del centro non basta, NY negli anni 70-80 era molto sporca ma circolavano Basquiat e Wharol. Non era un caso. Nel capoluogo lombardo vengono invitati per l’aperitivo o si negozia un’indicazione mediatica sostanzialmente prezzolata come i ranking degli ex sponsor Expo quali MasterCard. Tragicomico. Tempo al tempo.

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