LA BATTAGLIA DI GENOVA. PERCHE’ LA DESTRA E’ DIVENTATA UN RISCHIO NELLA CITTA’ CHE HA SEPPELLITO GRILLO CON UNO SBADIGLIO

GENOVA
NOVE chilometri di red carpet da Rapallo a Portofino, un vellutino rosso sul lungomare e persino dentro il bosco. È il kitsch del governatore Toti, l’ideale estetico della destra che, dopodomani, per la prima volta nella storia, potrebbe conquistare Genova con un candidato sindaco, Marco Bucci, che è stato manager negli Usa e dunque — macaroni me te magno — butta lì “mission” e “vision”, garantisce “passion” e “future”. Ma poi perde l’effetto “international” con un «tu non sai l’inglese» all’avversario, Gianni Crivello, che gli risponde: «E tu non sai più il genovese». Lo scontro è tra due nonni ultrasessantenni in una Genova annoiata che ha appena seppellito con uno sbadiglio le belinate di Grillo, che pure da qui, come da una cassaforte, traeva la sua nobiltà, non tanto nella protesta anarchica e nel codice del carattere mazziniano e garibaldino insieme, quanto nell’amicizia con i cantautori e con il gabibbo che fu grillismo prima di Grillo.
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«GRILLO non è una politica, è una cazzata» disse Paolo Villaggio che meglio di tutti incarna il genovese burbanzoso e esilarante quando svela l’assurdo della banalità. Spazzato via lo smodato, Genova si annoia, ed è inedita la sostanziale neutralità delle grandi famiglie, Costa, Garrone e Mondini, Messina (con Bucci), Spinelli, Malacalza, Cosulich… In genovese si dice “maniman”, non si sa mai.
Dunque la città assiste senza partecipare alla sfida dei due nonni che non riescono a domare gli scalmanati nipotini: da un lato pugni chiusi e dall’altro «chi non salta comunista è»; e poi «fascisti »… E «sapete che mi ha detto quel tipo?» ha gridato Crivello, rosso in viso, durante il faccia a faccia organizzato dal Secolo. «Mi ha detto finoccchio». E quello: «Ti ho detto Pinocchio». E la destra in coro: «Pi-no-cchi-o». Di sicuro Bucci è la tentazione di un pezzo di sinistra perché ha due lauree, è stato un bravo amministratore in America e non si sporca mai con l’estremismo dei leghisti («io non sono leghista»), che pure l’hanno scoperto e lanciato su suggerimento del giornalista del Giornale Massimiliano Lussana. Vuole risanare il centro storico «che la sinistra ha degradato». Promette investimenti esteri mentre la moglie Laura, che con le sorelle gestisce la pasticceria “San Sebastiano” nella centralissima via Alessi, garantisce la tradizione almeno la domenica: «se vinciamo: cavolini alla panna per tutti».
Alla fine questo Bucci è una specie di Marino di destra: «Un marziano a Genova» secondo i giornali che lo sostengono. Si sposta in tram, promette una metropolitana di superficie, “la gronda” che è la tangenziale, i superparcheggi… È gentile ma con il carattere bizzoso dei genovesi di scoglio. È decisionista, e quando era amministratore della società che ha informatizzato la Regione di Toti, ogni tanto urlava. «Ha fatto piangere qualche dipendente ». Cattolico ed ex scout come Renzi e la genovese Pinotti, ha un fratello cappuccino, Luca, medico e guardiano del convento di Santa Margherita Ligure.
Dall’altra parte c’è nonno Crivello, un valligiano di Valpolcevera, dove è stato presidente del municipio per 10 anni e prima ancora faceva l’infermiere comunista, ai tempi in cui gli ospedali solo in quella zona di Ponente erano 8. Di sé diceva: «io sono un buon numero due». Ma poi, quando gli altri si sono squagliati, gli hanno cambiato la montatura degli occhiali, lo hanno portato dal sarto e dal barbiere, gli hanno raccomandato di non borbottare. Si è fatto coraggio e si è mostrato per quello che è: affidabile, onesto, concreto, un uomo delle istituzioni rispettato anche dalla destra più estrema.
Anche lui dovrà vedersela con chi lo ha scelto: Claudio Burlando, che fa ancora il motore immobile di un Pd clientelare, e il ministro Orlando che, a Sestri, nella piazza storica della sinistra, non ha radunato più di 70 persone. La Meloni ne ha radunati 300, anche se «dicevano ‘mortacci tua’».
Crivello è migliore di chi gli trova gli slogan: “Genova per noi” ripropone la solita canzone, che è bella certo, ma è diventata una nenia identitaria, la scorciatoia mentale di chi non ha pensiero. Le canzoni qui sono un’ ossessione. Ai cantautori dedicano musei, la chitarra di Faber sta dentro una teca come La Gioconda; e il pianoforte di Bindi, la trombetta di Lauzi…: feticci per collezionisti, tutti un po’ maniaci.
Contro il kitsch della destra c’è il kitsch della sinistra che pretende di rappresentare la spregiudicatezza più audace e ‘maledetta’ con le famose viuzze tortuose e strette ma sporche e fetide di spaccio e di prostituzione, ovviamente dedicate a De André: «Attractive » mi dice la coppia londinese che incrocio in albergo: «perché diverse da tutto quello che abbiamo mai visto».
Kitsch contro kitsch. Di là c’è la destra che regala focacce per strada, organizza pranzi e cene: «la specialità di Toti sono i ristoranti, la politica a tavola ».Toti ferma le vecchiette: «venga, signora, a vedere il mio ufficio». Fa i fuochi, bum bum bum, organizza corse e maratone per Bucci alle quali si accoda alla fine «per non sudare». Minaccia di controllare gli immigrati con i droni e appunto stende il tappeto rosso in riva al mare. Somiglia al sindaco di Stromboli che in “Caro Diario” voleva a tutti i costi che il suo bel vulcano nero suonasse: «una colonna sonora di Morricone: scion scion».
Toti ci mette pure la strategia napoleonica e sfida Berlusconi: «se Bucci prenderà Genova, noi prenderemo il paese». E si vede già a Palazzo Chigi con il suo governo di cuochi. Si crede così furbo che ha organizzato una cena (segreta) al Perlage con i capi dei camalli che sono – loro sì – furbi di mare, come il pauro di Favignana che mangia l’esca attorno all’amo. «A voi compagni veri, offro il rispetto della storia » ha detto Toti, che già si era fatto fotografare con la maglietta Fiom. I camalli sono ormai un migliaio in un porto sempre più meccanizzato e robotizzato. Stanno, per lo più, con Lotta Comunista: in maggioranza non voteranno, anche se qualcuno ha scelto la Lega per leninismo: «tanto peggio, tanto meglio».
Il kitsch della sinistra è dunque l’ estetica del degrado che, proprio di fronte al bellissimo Palazzo del Comune, è esaltata da scritte luminescenti “fascino”, “storia” – che fanno venire i brividi. Non c’è bisogno di andarci di notte, come ha fatto per demagogia Giorgia Meloni, per trovare l’ inferno che non è mai poesia nonostante le canzoni che rimbombano purtroppo anche nella mia testa. Il paesaggio è anni 70, con le siringhe dell’eroina, l’ odore di ‘fumo’ e di urina, le prostitute ecuadoregne sugli usci, le saracinesche abbassate perché i negozi sono quasi tutti falliti, a parte qualche mitico locale come il panificio Claretta e il bar delle Vigne, dove c’è persino la sala da biliardo. Mi infilo nel gruppetto di “pensionati / mezzo avvelenati” e di nuovo mi pare che “la stanza non ha più pareti”. (Ma non erano solo canzonette?).
Sono tutti di origine meridionale come me, e dunque entro in confidenza con un “sabbenedica”. Sono muratori, pittori, marittimi…: a prima vista sembra l’eternità della provincia, ma se parliamo di politica, spunta la novità. Sono stati di sinistra, poi grillini, e ora votano Lega. Mi prendono per il braccio e mi portano dentro i vicoli come, nella prima parte di “Profumo di donna”, il genovese Vittorio Gassman che, cieco, trova la strada della prostituta. «Ma non è come a Napoli, non è come a Bari. Questo è il solo centro storico lasciato agli stranieri: nigeriani, senegalesi, ecuadoregni». Nasce qui la terza lingua, quella che tiene insieme tutto. È un anglo-spagnolo-italiano estremamente semplificato, «tiene bisogno, sexy needs?», «ciao baby lindo ». Fa caldo e l’atmosfera è opprimente. Il sole qui c’è, ma non brilla mai perché le case sono alte e secche; e le strade, bellissime, sono i budelli bui di De André (“Nei quartieri dove il sole del buon dio / non dà i suoi raggi…”) che emozionavano l’architetto Giancarlo De Carlo (è magico il suo introvabile ‘Il porto e la città’): «Spesso dagli edifici si poteva entrare sia dal basso che dall’alto, per cui i tetti non erano una fine ma un principio, non concludevano ma erano invece un esordio».
Qualche detrito si attacca sotto le scarpe – i rifiuti di plastica si appiccicano e non si disperdono – mentre Giovanni Castrogiovanni mi spiega che voterà Lega ma non rinunzierà mai a Berlinguer: «se fosse vivo, sarebbe con noi». Ma va, Berlinguer che vota Lega! «E perché? Era sardo, difendeva i dialetti, l’identità…». Gli dico che si porta il santino Berlinguer dentro le sue ossessioni, come gli altri si portano De André. È cultura di destra: “il linguaggio senza parole” lo chiamava Furio Jesi che a Genova è morto nel 1980: pulsioni, paure, umori e miti.
Il centro storico al primo turno ha premiato la Lega: 13 per cento. Anche a Cornigliano, il quartiere operaio, quello dell’Ilva (a freddo) : 20 per cento. Bucci immagina una Genova «sobborgo di Milano». Entro il 2021 infatti sarà pronto il terzo valico e dunque in meno di un’ora si potrebbe arrivare a Milano. Di nuovo il treno e le stazioni misureranno l’epoca?
La sinistra si è indignata per la parola “sobborgo” che è kitsch perché impolvera di subalternità l’ambizione e sa di berlusconata: Genova come “Milano 3”? Crivello ha sentenziato «Superba, non sobborgo» che è però un altro kitsch perché gioca sul campanilismo e sulla smargiassata antimoderna in una città che ha perso la metà dei suoi abitanti, non ha un’idea di sviluppo, non ha lavoro e costringe i giovani ad emigrare.
Mi dice Renzo Piano: «Faccio fatica a capire quando e perché si è perduta la mia Genova. A differenza di altre grandi città ha infatti saputo mantenersi schiva e selvatica, non ha venduto l’anima al turismo. È vero che è scorbutica, ma in modo virtuoso». La sinistra genovese è vecchia? «Non mi pare estremista. Forse però è talmente sicura di essere nel giusto da diventare arrogante. Ha l’arroganza di chi non ascolta gli altri. Io non faccio compromessi, non faccio inciuci con la forza di gravità, ma per costruire bene devi sapere che tutti, anche i più stupidi, hanno qualcosa da dirti e da darti. È arroganza pure quella di donna Prassede che voleva fare del bene a tutti i costi, anche a costo di fare del male».
È sul centro storico che si vince e si perde. «Qui siamo noi che puliamo la strada», dice Morelllo, il titolare del bar delle Vigne. Due prostitute mi mostrano i blocchetti di buoni-mensa del Comune con i quali sono state pagate. Nella Moschea di vico del Fornaro (quello dove fu multato con diecimila euro il ragazzo che faceva pipì) mi accovaccio e mi pare, ogni volta, di accovacciarmi sempre sullo stesso tappeto stinto, nel solito locale angusto e senza finestre, tetto basso e odori forti di povertà speziata che i ventilatori aggravano.
Chiedo ad Alessandro Cavo, un liberale di mare aperto che ha ricomprato la pasticceria di famiglia, se è vero che qui si paga il pizzo alla mafia calabrese. «Non mi risulta, non ne ho notizia». Gli contesto che se fosse vero non lo potrebbe dire e gli racconto che i miei amici del bar delle Vigne mi hanno mostrato un calabrese che sembra un barbone: «quello controlla tutto».
Gran parte della case del centro appartengono al marchese Cattaneo Adorno, ma ci sono anche i “piccoli proprietari solidali” come Franco Crosiglia, professore di musica alle medie. Quant’è l’affitto? «200 a camera, ma non li prendo mai e qualche volta mi commuovo pure e finisce che presto qualcosa». In tanti dicono che anche Marco Doria, il sindaco uscente, possieda moltissimi appartamenti in centro, ma non è vero: né lui né la sua famiglia. Domenico Chionetti, che è stato il braccio destro di don Gallo, mi spiega che «bisognerebbe lavorare con i piccoli numeri» e invece nel centro storico sono stipati troppi rifugiati: «solo tra Via del Campo e Vico Santa Sabina ce ne sono 200». Quanto rendono? «35 euro al giorno. Due e mezzo vanno al profugo ». «Affari e carità» dice Chionetti, che tutti chiamano Mengu, ed è appassionato ma non estremista, una meraviglia laica di sinistra: «me ne andai dalla mia Imperia perché dominava Scajola, e venni a Genova dove tutto era di sinistra. Mi toccherà tornare a Imperia?».Giriamo per i vicoli dei trans: «è la comunità più antica e numerosa d’Italia». Don Gallo diceva: «i trans sono i miei apostoli». Rossella Bianchi, che li rappresenta tutti, voterà Crivello: i trans sono «naturalmente di sinistra».
Chiedo ad Alessandro Cavo se crede nell’allarme democratico: «No. Conosco i leghisti di Genova. È la città dell’accoglienza. E i genovesi non tradiscono mai Genova». Qui tutti amano Genova di un amore struggente: «Ci commuoviamo quando la vediamo dal mare…». E però sono tutti infelici: Genova delude. Come accadde a De Carlo, che concluse così il suo canto d’amore: «Ci sono nato, ma non ha voluto diventare la mia città».

11 thoughts on “LA BATTAGLIA DI GENOVA. PERCHE’ LA DESTRA E’ DIVENTATA UN RISCHIO NELLA CITTA’ CHE HA SEPPELLITO GRILLO CON UNO SBADIGLIO

  1. Ivana Canevarollo

    Vivo nel centro storico genovese, lo amo e sto male nel vederlo abbandonato a se stesso. Nonostante mille promesse e l’impegno degli abitanti , via della Maddalena ha sempre le serrande chiuse, deserta di giorno e malissimo frequentata la notte. Veramente due aperture ci sono state: vicino all’asilo infantile, nuovo di pacca, hanno aperto due locali per lo spaccio di superalcolici (e se chiedi perchè ti senti dire: “è il libero mercato cara”. In via Macelli di Soziglia, le piccole botteghe cercano di resistere, ma non ne possono più circondati come sono da degrado e Carrefour e, tutti d’accordo, hanno votato lega. Le insegne e i locali dei piano strada sono trasandati e squallidi. Non si contano i locali pisciatoio che distribuiscono bibite 24 ore su 24.
    A Genova è impossibile che vinca il migliore, perchè il migliore non c’è. Una campagna denigratoria perchè mancano i contenuti . Un candidato del centro sinistra ambiguo come ambigue sono le molte listarelle che lo sostengono. Un candidato più di centro che di sinistra nella realtà. Un candidato che ha votato Si al referendum costituzionale e che è a favore delle grandi opere (TAV e Gronda). Una campagna deludente tutta basata sullo spauracchio della paura leghista e fascista. Un tormentone per me questo ballottaggio, ancora incerta tra l’astensione, l’annullamento della scheda o il voto (per l’ennesima volta) al meno peggio.
    Ivana

  2. Rita

    Grazie per questo splendido articolo, così, ahimè, realistico! L’ho inoltrato agli amici… e se lo affiggessi sulle porte di Tursi?
    Rita

  3. Elle Gi

    Anch’io, come la signora Ivana, vivo da tanti anni nel centro storico a un passo dal Duomo ma, al contrario di lei, da tempo me ne sono completamente disinnamorata anzi provo una grande rabbia sempre più crescente. Ogni giorno quando apro il portone di casa per andare a lavorare cerco di non far più caso agli escrementi, ai bicchieri di plastica e alle bottiglie di birra abbandonate sulle scale di ingresso, piuttosto sto attenta a non prender l’ennesima storta e a non cadere a causa del pavé sempre più malmesso. Ma quando attraverso piazza S. Lorenzo mi viene da piangere, da urlare nel vederne la desolazione e i portici del palazzo cinquecentesco trasformato in rifugio permanente per senzatetto e il ritrovo di ubriachi e punkabbestia.
    Il mio grido di rabbia e di dolore però fa star male solo me e nessun altro, dato il totale menefreghismo e la sciatteria incombono e, a questo punto, spero solo che il destino mi porti a cambiare rotta verso destinazioni più accoglienti e meno tristi.

  4. Silvia

    Mi accingo ad andare a votare per questo ballottaggio incerta ed insicura come mai sono stata nei 28 anni da “avente diritto al voto”. La mia storia e quella dei miei cari è sempre stata legata alla mia città che amo immensamente, in cui vivo con difficoltà.
    Ho letto il suo articolo dettagliato e veritiero, tanto quanto quello di Mario Paternostro su Primocanale.
    Quello che più di tutti mi spaventa sono stati i toni e i contenuti, da parte di tutti. Ancora prima del ballottaggio, durante una campagna elettorale davvero brutta. Per non parlare dell’astensionismo sempre più dilagante.
    Scrivono e dicono che Genova sarà tenuta in considerazione, in questa occasione, per capire il polso della “situazione Italia” sul fronte politico. E questo mi spaventa ancora di più. La politica dovrebbe essere altra cosa a maggior ragione in un’ epoca così complessa come quella che viviamo e che aspetta noi e le prossime generazioni.
    Comunque vadano le elezioni oggi non è per nulla una buona giornata, né per la mia città, né per la mia Nazione.
    Buon lavoro

  5. volty

    «« «GRILLO non è una politica, è una cazzata» disse Paolo Villaggio »»

    Volendo andare a colpi di battute cazzose, si potrebbe rispondere, per le rime, con un “IL RESTO non è una politica, bensì … “, dove i puntini fungono da casella che da spazio alla immaginazione cognitiva. Oppure “L’ANTIGRILLISMO non è un pensiero, è una boiata».

    «« Spazzato via lo smodato, »»

    Una cosa per essere spazzata deve esserci prima stata. Non essendoci stato, l’unica cosa da spazzare è questo “spazzato”.

  6. Paola

    Gentile Signor Merlo, grazie per aver scritto quello che molti pensano ma non trovano le parole per dirlo. Almeno in modo così chiaro e con sguardo sgombro.
    Cordiali saluti
    Paola

  7. volty

    E ridaje.

    Il vaffanculo degli esordi era il va-pensiero del ri-sorgimento grillino contro il sistema di quella volta. Un sistema sorretto dalla pedanteria che sedava l’opinione pubblica grazio allo sfinimento a colpi di minestroni di parole e nozioni senza senso compiuto. Era un vaffanculo accorciativo. Accorciava la “O parlate di cose concrete e sensate, o andate … !”. Era un vaffanculo liberatorio. Liberatorio perché, appunto, liberava dalla finta dialettica della pedanteria di allora. E manco fosse resistenza armata contro la politica (ed il resto) malfatta. Trovo che attaccarsi al solo vaffanculo senza contestualizzarlo sia molto di parte. Vaffanculo era un invito ed una risposta nello stesso tempo. Per capirlo bisognerebbe ricordare / riportare il clima e le malefatte (comprese quelle “dialettiche”) di allora.

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