Perché a Torino il terrorismo (per sentito dire) ha vinto più che a Londra LA FUGA CHE SALVA E LA FUGA CHE UCCIDE

SABATO sera fuggivano a Torino e fuggivano a Londra, ma a Torino il terrorismo ha vinto più che a Londra. Non è sempre vero, infatti, che chi ha paura non ha colpa, come ci ha insegnato il fratello d’Italia, Francesco Schettino. E di sicuro il terrorismo per sentito dire produce più irragionevolezza — che è alimento terroristico — del terrorismo vissuto, che invece stimola la lucidità, insegna e spesso accende il coraggio.
ATORINO come a Londra e come a bordo della Costa Concordia, la paura non è la gola che si strozza, i capelli che si drizzano, gli occhi che si velano e le gambe che si piegano: la paura, che non ferma il tempo ma lo rovescia, è la voglia di svignarsela. Ma a Londra sabato notte si fuggiva dal nemico, a Torino chi scappava era il nemico. E l’ordine impartito via twitter dalla polizia inglese, “scappa, nasconditi e racconta, run, hide, tell” governava come già a Parigi — s’échapper, se cacher, alerter, — proprio quel bisogno: non era un incitamento al panico, ma al contrario una circolare conto il panico.
Perciò gli inglesi hanno mostrato al mondo il meglio di sé quando in Borough High Street, Southwark Street, Stoney Street e in tutte le stradine adiacenti al London Bridge si sono aperte le porte della case private per accogliere chi fuggiva e persino i buttafuori dei pub si sono messi a buttare dentro le persone.
La pur bella e civile Torino, che è una delle capitali d’Italia, città europea di nuovo al centro della storia del Paese, si è invece smarrita nella paura con l’attenuante importante del terrorismo annunciato, troppo annunciato, anche con la diffusione di quelle che gli storiografi chiamano le “ brochures- panique”: «si è creduto facilmente che arrivassero i briganti perché lì li si aspettava» ha scritto Georges Lefebvre nella
Grande Paura (1932) che è uno dei più bei classici sulla rivoluzione francese. “ Brochures- panique” sono i libri che del futuro hanno una visione apocalittica, quelli che diffusero in Inghilterra per esempio l’ossessione dell’invasione da parte dei francesi. Non le distopie di fantascienza come l’arrivo dei marziani o degli ultracorpi, ma lo sbarco dei turchi, la minaccia cinese, i cosacchi a San Pietro, quel che non avviene mai, la sindrome del Deserto dei Tartari. Oggi sono brochures- panique il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq, i titoli dei giornali islamofobi e le invettive come letteratura politica che trasforma tutti i musulmani in demoni barbuti, gli allarmi sulla morte dell’Occidente invaso dagli immigrati stupratori… Scrive ancora Lefebvre nella
Grande Paura: «Si comincia a suonare a martello, i rintocchi non tardano ad estendersi, per ore e ore, su interi cantoni. Le donne, vedendosi già violate, poi massacrate e con i loro bimbi in mezzo ai villaggi in fiamme, piangono e si lamentano, fuggono per i boschi o lungo le strade, con qualche provvista e indumenti raccolti a caso. Più di una volta, gli uomini le seguono dopo avere seppellito quello che di più prezioso hanno e dopo aver dato il largo al bestiame per la campagna ».
La storia è piena di tragedie dovute al panico da annunzio. La follia collettiva è quella del “dalli all’untore”. E davvero non è facile sottrarsi e immaginare che a Torino — io, voi — saremmo riusciti a non sospendere la ragione e a non regredire come tutti gli altri, se persino il buon Renzo, scappando quando non c’erano pericoli, «era per perdersi affatto: ma atterrito più d’ogni altra cosa del suo terrore» che «in ogni romore» gli faceva sentire «manigoldi e trappole».
In piazza San Carlo il rumore è stato forse un petardo, che alla bomba islamista neppure vagamente somiglia, e poi il tonfo sordo del cedimento della ringhiera di un scala d’accesso al parcheggio sotterraneo. Torino non è Bagdad dove si spara sia per uccidere sia per festeggiare le vittorie nel calcio e dove nessuno può distinguere i mitra di festa dai mitra di guerra. A Torino i rumori delle bombe sono quel sentito dire che tende a ingigantire i pericoli, gli allarmi, i segnali e a deformare anche le vittime che diventano sopraffattori.
E con la paura al grado zero d’intelligenza, la regressione collettiva agli istinti primordiali ha scatenato anche le jene che nel pandemonio di Torino hanno pensato bene di rubare gli zaini e i portafogli. Gli sciacalli sono gli stessi dei terremoti, quelli che nel settecento venivano impiccati perché rovistavano tra le rovine e tagliavano le dita dei cadaveri per rubare le fedi d’oro. Ma sono sciacalli anche quelli che sul terrorismo — sia quello vero sia quello per sentito dire — regolarmente provano a lucrare consenso politico. Per un momento, la settimana scorsa, persino Theresa May aveva cercato di presentare Jeremy Corbyn come il leader che trova “ excuses for terrorism”. Ma agli inglesi lo sciacallaggio non è piaciuto. Anche per questo, stando ai sondaggi, Theresa May ha perso consensi. Persino i conservatori del Telegraph si sono indignati: segno, tra i tanti, che a forza di dolori e di lutti, il terrorismo vissuto sta raffinando le capacità di resistenza degli inglesi. Nel terrorismo controllato infatti si scappa tutti insieme per nascondersi e organizzarsi tutti insieme. Nel terrorismo annunziato invece si scappa ciascuno per sé, per isteria di sopravvivenza, per paura animale, la stessa del cervo o del cinghiale che sente lo sparo e fugge appunto dal rumore, corre pazzescamente per ogni dove, calpestando duemila anni di civiltà insieme ai toraci delle ragazze ora ricoverate alle Molinette, alle teste dei bambini, ai corpi degli altri. I cacciatori sanno bene che spaventare il cinghiale è il modo migliore di prenderlo, di sfruttare la cecità del suo istinto: scappa per sopravvivere e invece va a morire. E non c’è neppure bisogno di petardi. Basta il latrato di un cane.
Dunque alla fine non c’è da stupirsi se a Londra la fuga è stata un riparo dalla morte e dalla violenza, da quei sette omicidi di innocenti, mentre a Torino la fuga ha prodotto violenza: più di mille feriti. A Londra ha forse ridotto il danno, a Torino l’ha sicuramente provocato. Chi scappa dal terrorismo annunziato infatti si crede vittima mentre si fa carnefice: il terrorista diventa lui.
La fuga di Londra invece non ha travolto ma ha coinvolto Gabriele Sciotto, il giovane calabrese che ha fotografato uno degli attentatori. Sciotto ha poi raccontato di essere stato invitato a fuggire con gli altri a riprova che ci può essere ordine e solidarietà anche nella fuga. Ma Sciotto, che fa il documentarista, è uno di quegli italiani freschi e curiosi, un nostro piccolo Bruce Chatwin, composto e maturo più dei suoi 25 anni. Ha preferito seguire la sua professione di fotografo e cacciarsi dentro un’enormità. Se l’è cavata con freddezza, sembrava uno stratega della polizia londinese. Lo hanno ringraziato, ma la mitica Bbc, intervistandolo, gli ha fatto pure uno sberleffo: ha sottotitolato in inglese il suo inglese perfetto.

3 thoughts on “Perché a Torino il terrorismo (per sentito dire) ha vinto più che a Londra LA FUGA CHE SALVA E LA FUGA CHE UCCIDE

  1. io

    peccato che non venga minimamente tenuto conto delle differenze di affollamento fra i fatti di londra e torino. alla luce di ciò articolo TOTALMENTE SENZA SENSO.

  2. Paolo Porreca

    come mai nessun commento sulla magnifica organizzazione della serata di Torino e quindi sulla sindaca Appendino e il relativo staff ? strano perché ricordo bene le sue parole, i 5S a Torino sono già gestione perché lì è la civiltà, a Roma sono già indigestione perché lì fanno schifo (uso un eufemismo per parafrasarla), chissà come avrebbe cantato bene la decadenza se fosse successo a Roma, e un’altra cosa, peccato che il nuovo terminal di Fiumicino ora sia considerato uno dei migliori al mondo, c’è un argomento in meno con cui dare sfogo alla propria bile poetica, ma non disperiamo qualcosa succede sempre, basta aspettare e giù duri col mainstream

  3. Nino Conet

    Che noia questa tiritera che punta sempre a dire 5s peggio del renzismo in affanno. Liriche per il clan di Rignano.

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