LE PAROLE CHE FANNO LA STORIA MICHELE AINIS: S’intitola ‘Sillabario dei malintesi’ il nuovo libro di Francesco Merlo — Identità. Trasformismo. Musulmano. Smog. Rottamare. Vaffa…

di MICHELE AINIS
CADONO sul foglio bianco come gocce, una dopo l’altra. Formano una pozza, poi un lago, poi un oceano. Sono le parole di Francesco Merlo, però sono anche le nostre parole, quelle che raccontano il nostro vissuto collettivo. Lui è un giornalista, tra i più raffinati in questo tempo orfano dell’esprit de finesse vagheggiato da Pascal. È dunque un uomo che vive di parole, che sa come orchestrarle. D’altronde i lettori di “Repubblica” lo conoscono bene, giacché la sua firma compare dal 2003 su queste pagine. E adesso Merlo ha scritto un libro dal titolo suggestivo quanto enigmatico: Sillabario dei malintesi. È una raccolta di parole equivoche quella che ci offre l’autore? O siamo noi, piuttosto, ad aver smarrito qualsiasi capacità di comprensione?

Per sciogliere i dubbi, non resta che immergersi nel testo. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Perché leggere è un po’ come viaggiare; tuttavia qui manca la stazione di partenza, forse anche l’arrivo. Il libro di Merlo è infatti costruito come un dizionario: 79 lemmi che s’allungano per 408 pagine. I dizionari non hanno centro, né punti terminali. Rispettano un ordine, però: l’ordine alfabetico. Stavolta non c’è nemmeno quello. Le parole si dispongono – parrebbe – senza una trama preordinata. Perché “Smog” precede “Identità”, perché dopo “Musulmano” c’è “Lombroso “? Di primo acchito, l’effetto rimanda ai labirinti di Borges, con la peculiarità che in questo labirinto verbale ciascun lemma apre una porta d’accesso, ciascun lettore può scegliersi l’entrata.

E allora cominciamo da “Ossimoro “, dalle parole che si contraddicono a vicenda. La politica italiana ne è da sempre una fucina, e infatti l’autore cita Moro e Grillo, una coppia che racchiude in sé l’ossimoro, la coincidenza degli opposti. Al primo si deve, tuttavia, l’invenzione delle convergenze parallele, nel 1959: forse la più celebre espressione del politichese, la cui fortuna è sopravvissuta alla scomparsa del suo artefice, benché nessuno ne abbia compreso mai il significato. Il secondo, con il Vaffa-Day del 2007, ha promesso di portare al governo l’odio per ogni governo, di governare insomma con un antigoverno; e magari questo compito impossibile sta per realizzarsi. Come del resto accadde a Berlinguer, con il suo partito di lotta e di governo. O con il socialismo sotto l’ombrello della Nato.

Però la figura centrale in questo lemma è un’altra: Gesualdo Bufalino. Autore d’aforismi, di battute fulminanti (“I vincitori non sanno quello che si perdono”), ma soprattutto scrittore a tutto tondo, con la sua lingua barocca che riflette certi tramonti siciliani. Per Merlo rievocare Bufalino significa rendere omaggio all’arte della parola scritta e significa al contempo rivivere trascorsi di provincia (Bufalino non volle mai lasciare Comiso) che sono gli stessi suoi trascorsi. Sicché improvvisamente si rivela l’architrave che sorregge il libro: un impasto di storie impersonali e di ricordi personali, squarci autobiografici che si fondono con la biografia d’una nazione. Puoi raccontare soltanto ciò che hai sperimentato, ecco la lezione.

Ne è prova il lemma con cui s’apre il volume: “Monarchia”. Qui Merlo abbozza un ritratto del nonno materno, monarchico e insieme socialista; e racconta che al referendum del 2 giugno 1946 suo padre, che era di destra, votò per la repubblica; la mamma, di sinistra, scelse la monarchia. L’ossimoro, insomma, s’insinua già nell’atto fondativo, probabilmente non solo a Catania, non solo a casa Merlo. Non è un caso se noi italiani usiamo una figura bisessuale – madre patria – per definire la nostra identità comune. E del resto c’è stato un bisticcio di parole, una truffa semantica prima che politica, nei 67 referendum dell’età repubblicana. Come nel 1993, quando il voto popolare abrogò il ministero dell’Agricoltura, senza tuttavia impedirne la rinascita come ministero delle Politiche agricole. Inganni verbali che hanno trasformato in un ossimoro lo stesso referendum, antico strumento di democrazia diretta: concepito “per unire un paese diviso”, in Italia “finisce per dividere un paese unito”.

Sicché in ultimo le parole non esprimono più i fatti della vita: diventano esse stesse fatto. Merlo ci conduce all’interno dello specchio, perfora la superficie riflettente del vocabolario, e così ci mette in condizione di guardare la nostra stessa immagine, attraverso le parole che usiamo per dire le cose, per fare le cose. Sono le parole a decidere la storia, scrive in una paginetta introduttiva. E siccome la storia non procede mai diritta, questo suo racconto dell’Italia è una rapsodia, un insieme disorganizzato di frammenti, di visioni parziali. Giusto così, per le ragioni che a suo tempo espose Wittgenstein: “Diffido dei sistematici e li evito”, diceva. “O sono stupidi o sono in malafede, perché la vita è un flusso discontinuo”.

Tuttavia c’è un filo di continuità nella storia italiana, un elemento che rimbalza da un secolo all’altro, indelebile come il termine che lo denota: “Trasformismo”. La più vecchia fra le parole della politica, ma anche la più attuale – ancora un altro ossimoro. In origine furono spezzoni della destra di Minghetti trasmigrati nella sinistra di Depretis; poi i ribaltoni orditi da Bossi contro Berlusconi, da D’Alema contro Prodi, da Renzi contro Letta; infine una transumanza spicciola, plebea, che nella legislatura in corso coinvolge un terzo dei parlamentari, passati in un gruppo diverso da quello in cui vennero eletti. Sempre in nome della governabilità, altra parola fraudolenta. E talvolta cambiando il nome del proprio partito, non potendo cambiarsi i connotati. È il caso del Pci-Pds-Ds-Pd o dei leader che per restare a galla hanno affondato la barca sulla quale navigavano. Come Casanova – osserva Merlo – che solo cambiando letto restava Casanova.

E infine l’ultimo ossimoro, il più lacerante. In un libro sulle parole che la politica ci rovescia addosso, a pagina 319 sbuca il “Silenzio”. Incarnato da una galleria di personaggi taciturni, da Martinazzoli a Mattarella, dagli Einaudi (padre e figlio) a Enrico Cuccia, a Sciascia, a Mina, a papa Ratzinger. I loro silenzi, le scelte di vivere appartati, risuonano più forti del vocio confuso che ci sommerge. E iscrivono in conclusione un epitaffio in questo bel libro di Merlo: non abbiamo più parole, le abbiamo spese tutte. Meglio
tacere.

Francesco Merlo
Sillabario dei malintesi – Storia sentimentale d’Italia in poche parole
Marsilio, pagg. 416, euro 20
Il libro verrà presentato sabato 27 alle ore 21 in Palazzo del Bosco a San Lazzaro di Savena (Bologna)

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