Serracchiani, agnello di nome Debora IL BELATO DELLA CATTIVERIA

ANCORA un agnellino, vivo e “belante di disappunto”, dentro una cesta di vimini con su scritto il suo nome di bestia, Debora (Serracchiani), e un augurio: «Speriamo che si metta in salvo e vada a Roma, se restasse qui non posso giurare sulla sua sorte».
NON so cosa ne pensano gli animalisti della Lega italiana per la difesa di animali e ambiente (Leidaa) che hanno lanciato la campagna per salvare gli agnelli pasquali, ma il destino tragico della metafora qui si capovolge: come agnus Dei, prima Berlusconi e a ruota Laura Boldrini, lo hanno baciato e salvato dal pio macellaio; come Serracchiani invece va messo al forno con le patate. Il Dio fatto uomo, che toglie i peccati del mondo, può essere sottratto alla tradizione purificatrice, ma la presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, che è soltanto una signora, deve essere invece “agnificata”. E dunque l’agnus Dei, qui tollit peccata mundi, l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, diventa l’agnus politicus qui tollendus est a mundo, l’agnello politico che deve essere tolto dal mondo.
La volgarissima scena, allegramente ferina, è avvenuta mercoledì a Trieste all’hotel Savoia ed è stata raccontata dal collega del Piccolo Giovanni Tomasin che ha visto, appunto, “lo sconcerto del piccolo ovino” ma non quello dei caproni presenti. L’ex senatore berlusconiano Giulio Camber lo ha offerto al futuro candidato di centrodestra alla presidenza della Regione, Riccardo Riccardi, e le loro risate hanno aggiunto oltraggio a oltraggio.
Nessuno ovviamente crede che Camber, Riccardi e la leader “storica” del berlusconismo triestino, Sandra Savino, organizzatori del banchetto azzurro, siano sanguinari sgozzatori di nemici politici, ma di sicuro si sporcano maneggiando simboli che non capiscono. Pensano che si possa scherzare con gli scannamenti e con le minacce senza mostrificarsi. E direi, a questo punto, che le bestie sono loro se non temessi la legittima reazione degli animalisti difensori delle bestie. Non c’è simbolo senza rito: il rosso cardinale rimanda al sangue del sacrificio cristiano e la bandiera rossa a quello della rivoluzione proletaria. Il cristiano mangia l’agnello per incorporarne il mantra, vale a dire il candore di vittima, l’innocenza di capro espiatorio, la purezza di Dio crocifisso; il mafioso e il ‘ndranghetista invece spediscono la testa d’agnello dentro un cesto di vimini, con su scritto il nome del bersaglio — Debora per esempio — come avvertimento e minaccia: o fai quel che diciamo, oppure finisci scannato come l’agnello. In Anime nere i ‘ndranghetisti caricano un agnello su una Mercedes nera e se lo portano via. Poi, con lo scannaciareddi, il lungo serramanico dei macellai, lo sgozzano, lo cucinano e lo mangiano.
Ecco dunque la frase completa dell’ex senatore Giulio Camber, palesemente sopraffatto dal simbolo che non controlla: «Siamo in periodo pasquale e abbiamo qui l’agnello Debora. Speriamo che si metta in salvo e vada a Roma. Se restasse qui non posso giurare sulla sua sorte, che dipende da Riccardo e Sandra (Savino,
ndr) ». E subito dopo: «Anche se loro non farebbero mai del male a un agnellino». E difatti, trattato come un bimbo in culla, l’agnello è stato molto coccolato, baciato, accarezzato, ed è stato tutto un rassicurare Sua Ovinità. La minaccia però non era rivolta a lui, ma a lei, che non è ovina. Debora è donna sapiens, una razza animal forse trascurata dalla Leidaa, che pure è guidata dalla simpatica e appassionata Maria Vittoria Brambilla. Tanto più che Serracchiani, che Forza Italia ha tutto il diritto di provare a sconfiggere, è diventata sensibile alle minacce che da troppo tempo riceve e che la vogliono — ha raccontato a Repubblica nel dicembre scorso — «sfregiare, umiliare, colpire, sporcare: le offese sono diventate selvagge, personali, fisiche ». Dal gennaio scorso vive sotto scorta.
Adesso da Trieste arriva questo sinistro pasticcio di simboli, dentro un abuso di metafore che sta coinvolgendo tutto il Paese. È difficile negare la forza della foto di Berlusconi che bacia l’agnello. Credete a noi, che lo seguiamo da più di venti anni: c’è il tentativo di un nuovo inizio, un salto di modernità dalle begonie dell’esordio all’ovino dell’ultimo ballo con gli italiani. Come ha notato ieri Stefano Bartezzaghi, acchiappa, ovviamente al di qua del fondamentalismo contro la bestia-uomo, una sensibilità che è diventata popolare, il turbamento morale davanti alle immagini di sofferenza e di morte di tutti gli sfortunati esseri viventi che l’uomo riduce al suo dominio, allevati o bradi che siano.
Purtroppo non tutti hanno capito che la difesa degli animali, che è legittima, non va comunque scambiata con quella delle metafore. C’è infatti il “rischio Trieste”, che è un esemplare mix di ridicolo e di ferocia.
Gli animali veri non hanno nulla a che spartire con l’antropomorfismo, con la retorica della Natura buona e dell’uomo cattivo. Non si macella il “pio bove” amato dal vate Carducci, ma il manzo d’allevamento. Si arrostisce il pesce e non l’ichthýs simbolo di Cristo. Si schiacciano e si avvelenano zanzare, vermi, mosche e scarafaggi senza mettersi sotto i piedi e intossicare il povero Gregorio Samsa. Nessuno mangia i piccoli figli delle “capre, capre, capre…” di Sgarbi, ma i capretti che a Pasqua anche molti devoti preferiscono agli agnelli: non meritano baci? Si squartano vitellini, mucche, struzzi, capponi, anatre ma non gli animali allegorici della grande filosofia di Esopo, di Fedro, di La Fontaine, con i quali si fa salotto, con la cui sapienza ci si diverte a scuola. Per non parlare di Topolino, Paperino, Minnie, Eta Beta e Nonna Papera.
L’ agnus Dei poi è un simbolo così carico da sperare che, dopo un giorno di riflessione, se ne accorgano anche a Trieste e chiedano scusa a Debora Serracchiani. Non hanno commesso reato ma, visti i tempi, potrebbe accadere che l’insonnia felina possa spingere qualche giudice predatore a pensare che l’abuso di metafora non solo macchi il buon nome dell’ovino in Cristo, ma istighi anche, se non al deicidio, allo sgozzamento che persino come figura retorica non è politica ma l’oltranza biliosa di chi la testa non sa proprio usarla. Se infatti le parole sono pietre, i simboli sono macigni.

7 thoughts on “Serracchiani, agnello di nome Debora IL BELATO DELLA CATTIVERIA

  1. Giovanni Tomasin

    Caro collega,

    grazie per la citazione, è usanza cavalleresca ormai rara nella nostra professione propensa alle dimenticanze. Poche righe più in basso, però, vedo il mio nome abbinato alla dirigenza forzista, tra coloro i quali “di sicuro si sporcano maneggiando simboli che non capiscono”. Penso si tratti di una svista come ne capitano a tutti, sottoscritto per primo.

    Se così non fosse, posso assicurare di non aver mai fatto parte dei “leader storici del berlusconismo triestino” (quando il Cavaliere scese in campo avevo tredici anni e l’idea di un tredicenne berlusconiano m’inquieta un tantino) né di aver avuto ruolo alcuno in quella scena che mi son limitato a raccontare, sottolineandone peraltro il carattere sanguinario.

    Colgo l’occasione, quanto mai appropriata, per porgere un augurio di buona Pasqua. Con stima,

    Giovanni Tomasin

    1. Francesco Merlo Post author

      Caro Giovanni, è vero. Mi dispiace tanto. Non so quale diavolo mi ha spinto nell’orrore dell’errore. Potrei fare due righe, ma temo che sia peggio.Penso che si capisca che è un errore. Scusami. Spero di conoscerti di persona. Un caro saluto. Francesco

  2. Luciano

    Caro Francesco, gli animalisti non sono “difensori delle bestie” come li chiami, ma sono difensori degli animali innocenti, perché gli animali, nome che deriva da anima , sono innocenti a prescindere, di default.
    I difensori delle bestie stanno in Parlamento, che infatti contro ogni pudore difendono le “bestie” che hanno calpestato le leggi e le norme del vivere civile e che sono state condannate e dovrebbero essere espulse in forza della legge, la legge che essi stessi hanno votato.
    Ma si sa, la legge è uguale solo per i poveretti, per quelli che non contano niente.

  3. Lorenzo

    Mah… Non mi è mai chiaro se un giornalista possa essere spudoratamente di parte; ovviamente lei lo è, ma non capisco se la deontologia professionale lo permetta fino a questo punto. soprattutto se si scrive per un giornale che, almeno a parole, dovrebbe essere superpartes o, perlomeno, non parificabile a organo stampa di partito/movimento politico.
    Cordiali saluti
    Lorenzo Giorgi

    1. Francesco Merlo Post author

      Gentile Lorenzo, mi capita di ricevere critiche che magari non condivido, ma delle quali capisco il fondamento, il fumus, l’origine. Lei invece dà l’impressione di aver letto un altro articolo, di parlare di quel Pasquale schiaffeggiato al posto di Totò. Ecco. io non sono Pasquale.

  4. volty

    Non ho capito granche’di queto articolo. Proverò a rileggerlo domani.

    Attenti che gli animalisti ad oltranza non si fermeranno mai — se la vincono oggi sugli agnellini, domani si daranno alla difesa delle cavallette e delle cicale, e poi passeranno ai batteri e ai virus.

    Caprette, bacci, abbracci … Non è che qui si sta preparando la discesa in campo della bellezza ?

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