La scissione più noiosa della storia. ECCO I SEI DELL’OCA SELVAGGIA Renzi, D’Alema, Bersani, Franceschini, Emiliano e Orlando

Ecco i sei personaggi della più noiosa scissione della storia d’Italia. Renzi è riuscito a rottamare le lacrime, sostituite con gli sbadigli, D’Alema è il vecchio ludopatico della politica costretto dalla dipendenza compulsiva a giocare d’azzardo e a vincere, Bersani ed Emiliano sono le parodie di Gramsci e Bordiga, Franceschini e Orlando stanno sottocoperta …

MATTEO RENZI
Era la furia di provincia, l’ambizione della modernità e del marketing, l’angelo della storia che finalmente presentava lo sfratto alla vecchia sinistra ingessata e perdente, al sindacato imprigionato nell’ideologia, all’informazione politicizzata e corporativa. E invece li ha resuscitati tutti, ha risvegliato gli addormentati cronici come Franceschini, ha fatto evadere dalla casa di riposo il vecchietto sdentato D’Alema e lo ha reso arzillo e vincente. Gli è riuscito il miracolo di trasformare i rottamati in costruttori della città futura. Al mite Bersani ha dato il ruolo di Gramsci, persino Emiliano di fronte a Renzi sembra Bordiga. E la scissione, che a sinistra è stata sempre il trionfo degli azzardi, il narcisismo dei duri e puri, la sfida degli ideali sullo sfondo delle grandezze storiche , è diventata uno slabbramento condominiale, un parapiglia da teatro dilettante dove non si capisce chi è il Soviet e chi il socialdemocratico né dove stanno la falce e il martello né con chi si è schierato Che Guevara. Una volta si scrivevano documenti, appelli, si piangeva insieme, e invece Renzi – ha confessati Del Rio – “non ha fatto neppure una telefonata”. E non solo maltratta il presente, ma offende anche la memoria con il remake delle scissioni, quelle che separavano pezzi di storia del movimento operaio. Le scissioni dei massimalisti, l’addio del Manifesto e poi di Rifondazione comunista furono tutto un piangere e un odiare. Si esibivano e ci inquietavano il genio di Pintor, l’intelligenza della Rossanda, il carisma di Parlato. E poi ci furono le lacrime di Ingrao e quelle di Occhetto, lo scandalo grigio del Cossutta d’acciaio. E invece Renzi passerà alla storia per avere rottamato il pianto: non più lacrime, ma sbadigli.

MASSIMO D’ALEMA

Viene voglia di abbracciarlo questo vecchio ludopatico della politica , sempre costretto dalla sua dipendenza compulsiva a intrigare, a giocare d’azzardo e a vincere. D’Alema, che è la vendetta sempre allertata, è il riassunto di tutte le leadership italiane. In lui c’è un po’ del realismo spregiudicato di Craxi, ma anche della Magna Grecia di De Mita. E’ celodurista come Bossi, spavaldo come Berlusconi, fratello anziano di Renzi in sicumera, e come Andreotti è più furbo che intelligente. Lupo a guardia di agnelli, è lunghissima la lista delle vittime terapeuticamente sbranate: Occhetto, Prodi, Di Pietro, Marini, Cofferati, Berlusconi, Veltroni e adesso anche Renzi. D’Alema è di quelli che nella repubblica di Weimar avrebbero fatto sparare agli spartachisti. Eppure davvero viene voglia di proteggerlo e di aiutarlo, perché è un viso familiare, e tutti capiscono che è cattivo perché non saprebbe essere altro; e si vede che vorrebbe smettere, ma non ci riesce. Come Zeno ogni volta promette a se stesso, all’Italia e a Lilli Gruber che sarà l’ ultima sigaretta, ma poi non resiste alla droga ipnotica del fregare un altro avversario, di impartire un’ultimissima bella lezione e basta: “andrò all’estero e mi occuperò solo di Europa e di mondo, diciamo”. Ma già gli si acciglia la faccia estremista sopravvissuta al comunismo, torna a impermalirsi e la sinistra rimane di nuovo impigliata ai suoi baffi che sono come la gobba di Andreotti: umori, ambiguità, trame , inciuci, affari , ombre cinesi. E sempre accade il miracolo: ogni volta che fa fuori un Renzi, i capelli gli diventano più bianchi e i baffi sempre più neri.

PIERLUIGI BERSANI

Come può un rammendatore diventare scissionista? Tutta una vita a ricucire e a rattoppare e Bersani adesso strappa? Grillo lo insolentisce chiamandolo Gargamella, Zombie, fallito e quasi morto, perché è il suo contrario: mai un ghigno, mai un insulto, persino le sue metafore sono innocenti come quelle del lunario contadino, con le bambole da pettinare e i giaguari da smacchiare. Rispetto al turpiloquio violento del populismo è il “per bene” che proprio per questo sembra senza sale, l’eroe che ci commosse irritandoci quando vinse le elezioni ma fu costretto a dimettersi. Anche di pensiero è morbido e rotondo come il tortellino di lotta e di governo, che è il mondo sano da cui proviene, quello delle feste emiliane dell’Unità, cucina saporosa e ‘Avanti popolo’, buonumore di classe invece che lotta di classe, ideali sempre gentili. Bersani è un boccalone di birra senza schiuma, ma è anche un espediente magrittiano: “Questo non è un sigaro”. Il suo paradosso è che Renzi gli ha regalato in questa scissione smorfiata i ruoli, in un colpo solo, di Bordiga, Terracini , Grieco e Gramsci, quello delle tesi di Lione. Ma Bersani non è credibile come tagliatore di teste, come seminatore di zizzania. Anche quando viene sconfitto ha la faccia del bonhomme. E’ così di buon carattere che se vince si dispiace per chi non ce l’ha fatta, vorrebbe che non ci fossero perdenti, e se si arrabbia prende l’aria burbera del salumiere sotto casa, l’amico rassicurante che però non è più sicuro di niente. C’è davvero qualcosa di malinconico nell’idea che Bersani diventi il leader di un Pd frattale, il naufragio di un naufragio, un ennesimo lontano frammento della sinistra.‘Io non lascio la nave, posso starci come comandante o come mozzo ma non l’abbandono’ disse quando fu costretto a dimettersi da segretario. Bersani scissionista sembra un’altra battuta di spirito di Grillo, l’ultimo regalo ai cinque stelle.

DARIO FRANCESCHINI
Anche in questa scissione è rimasto nascosto. Nelle battute di caccia Franceschini non stana la lepre, ma fa bottino. Diventa presenzialista solo quando c’è da riscuotere, come ministro infatti è ubiquo, ma non si espone mai al pericolo dello scontro politico. In fondo i partiti sono come i ristoranti: c’è il cuoco che si dissipa tra fornelli e coltelli, fuochi e fiamme, odori e sapori, e c’è la cassiera che somma e sottrae. Franceschini è la cassiera di questa scissione. Il suo ruolo è stato importante, affidabile ma discreto, silente e fuori porta come le rovine di Villa Adriana che da ministro trascura, e non come il Colosseo sul quale si accanisce sino a volerne a tutti i costi ricoprire l’arena, perché da solo fa più utili di tutti gli altri monumenti messi insieme. Insomma, protegge se stesso perché un po’ si sente come i beni culturali che amministra, crede di essere scrittore prima che statista, (complesso alla Fanfani che credeva di essere pittore prima che politico) e dunque intinge la penna romanziera e manda segnali, si fa collega di Manzoni, dà una pacca sulla gobba a Leopardi, pensa alla Baudelaire ma mercanteggia con Cuperlo, tratta con Emiliano, strizza l’occhio a Renzi e intanto costruisce l’edificio mattarelliano e si fa sacrestano di Gentiloni. Mai numero uno, è stato però reggente e alla fine prenderà tutti per stanchezza. E’ infatti l’unico che dopo la scissione si ritroverà in entrambi i partiti: scisso ma tutto d’un pezzo.

MICHELE EMILIANO
E’ il Mangiafuoco che starnutisce invece di piangere, una forza della natura che minaccia ogni giorno la scissione che non fa, denunzia Renzi che “ha creato il partito delle banche” ma poi lo chiama: “se sposti il congresso rimango”. In questa scissione, Emiliano è il “trattenetemi che me ne vado”. Ed è ‘bulimicocratico’, un insaziabile divora potere: presidente della Puglia ma candidato segretario; aspirante premier ma ancora e per sempre magistrato in carriera, e non solo perché non si sa mai, ma soprattutto perché “del magistrato mi piace l’antropologia”. E’ insomma un bel pasticcio meridionale, uno di quei notabili che Renzi non è riuscito a rottamare. Li ha usati come alleati e poi loro hanno usato lui. Pensava di strumentalizzarli ed è finito strumentalizzato. Emiliano infatti è un signore del territorio anche se signoreggia senza la guapperia di De Luca. E ha costruito un’identità confusa ma simpatica, da Masaniello ma illuminista, uomo di popolo, tutto semplicità e verità, bagni di folla e linguaggio diretto, è il populismo del Pd, la risposta di sinistra al populismo grillino. E infatti a Bari è amato come sono amati i leader di popolo, tutti cuore e sudore. Gli perdonarono persino le cozze pelose e gli astici , la pesca miracolosa con cui gli imprenditori lo omaggiarono. Emiliano crede davvero di poter governare anche l’Italia come governa la Puglia. Infatti la sola scissione che gli piace non prevede fasi drammatiche, mozione contro mozione, dispute sulle sezioni, lotte per il simbolo, le mani sulla cassa dei beni del partito. La scissione per lui è molto più semplice e quasi indolore: è il suo insediamento nel posto di Renzi. Il suo sogno è diventare l’antagonista di Grillo: il magistrato populista contro il comico populista.

ANDREA ORLANDO
E’ il vecchio ragazzo che saggiamente non vuole la scissione perché “sarebbe una sciagura”. Ex giovane turco, questo ministro della Giustizia mette soggezione a tutti, ma non ha neppure un grammo di carisma popolare, anche se di sé dice: “sognavo di fare il muratore”. E’ un “pollo di batteria”, come lo ha definito Renzi che ha fatto sapere di non temerlo perché secondo i sondaggi che fece commissionare quando era premier, Orlando non sarebbe mai riuscito a superare il 18 per cento. Mediatore tormentato, non graffia per non farsi graffiare, e si esprime sempre in politichese. Qualche esempio? Quando gli chiedono se vuol fare il segretario risponde “è un’idea su cui al momento non sono concentrato”, se invece lo interrogano sulla giustizia dice “siamo pervenuti a un punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare alla giurisdizione tempi congrui a svolgere l’attività di accertamento dei fatti di reato …”. Ha 48 anni, un bel viso glabro da bambino e un cervello omerico da Nestore, il re saggio dell’Iliade. E infatti frequenta soprattutto i suoi “coetanei di spirito”, Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso, Aldo Tortorella e l’appena settantenne Ugo Sposetti, che è lo storico tesoriere, l’ultimo comunista rimasto nel Pd. Sposetti ha scelto Orlando come custode del patrimonio del partito, gli ha affidato la cassa perché “è saggio, misurato, fidatissimo” e non ha nulla di estremista, è un ligure da bonaccia che quando il mare è agitato sta sottocoperta a difendere la casa, in preda alla nausea. Le onde gli mettono paura, è nato La Spezia, ma è un italiano di terra che aspetta l’arcobaleno dopo la pioggia. E dunque è un bene-rifugio, uno di quelli che, di questi tempi, diventano leader per caso. Come Gentiloni, Orlando è infatti il grigio-piombo che non spaventa.
Francesco Merlo

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