Il peggio, almeno, bisogna meritarselo. SUL GIORNALE DELL’ARTE 82 “MAESTRI” BOCCIANO (118) E PROMUOVONO (457)

Va bene che l’arte è il luogo in cui c’è un senso nascosto o se, preferite,  è il solo luogo in cui il non senso è un valore. Ma una stessa mostra  (la Collezione Schukin  alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi) può essere dallo stesso giudice  (Bruno Muheim) indicata come la migliore e come la peggiore dell’anno?  E il biasimo del terremoto è davvero un giudizio di intelligenza critica? E che dire della condanna di Botero “per il gusto che rappresenta” se non che spesso è nell’elenco dei peggiori che troviamo i migliori, anche se capita pure che i migliori premino i peggiori?

Di sicuro, nelle due sapide classifiche che il Giornale dell’Arte ad ogni fine anno fa compilare a un gruppo, a un’ elite, a una giuria di esperti e di saggi,  insomma ai migliori,  la griglia del peggio è più attraente della griglia del meglio. Il peggio ha un fascino speciale non solo e non tanto perché rimanda all’ Index Librorum Prohibitorum, che fu e ancora oggi è il più completo catalogo, in ordine alfabetico da Alfieri Vittorio a Zola Émile, dei libri che bisogna leggere. Ma soprattutto la griglia del peggio ci seduce e ci commuove perché permette anche ai migliori di dare il peggio di sé, a conferma che è sempre molto saggio dubitare della saggezza dei saggi.

Ovviamente, solo chi conosce nomi e cose e affari del mondo dell’arte si accorge che qui, come nelle note a piè di pagina dei libri accademici,  ci sono molti ammiccamenti ruffiani, e si regolano conti.  I lettori non decifrano perché non sanno – e io stesso limito il mio pensar male al sospettare – che qui ci sono rapporti, ostilità, amicizie, favori, posti di lavoro, prebende, machiavellerie e intrecci tra giudici e giudicati. Il Mart di Rovereto, per dire, è in “un veloce declino”, come denunzia Fabio Achilli condannandolo al peggio, oppure è “ormai pienamente tornato in auge”, come sentenzia Paolo Bolpagni mandandolo nella classifica del meglio?

Ecco, a me piace pensare che, proprio per svelare la velata ‘connettografia’, Guido Curto  premia due mostre organizzate da lui stesso confessando con ironia di averle scelte “pro domo sua”. Lo incalza però  Dario Pappalardo condannando al peggio “ chi cura le sue mostre  e stronca quelle degli altri”.

Ovviamente tutti sappiamo che non c’è niente di meglio di una bella polemica culturale senza  sconti né reticenze anche perché è contro gli altri che si disegna la propria forma e non c’è libro che non sia stato scritto contro un altro libro. Ma sappiamo anche che non c’è cattiveria più gustosa  di mandare un meglio nel peggio senza neppure degnarlo di una parola di spiegazione, senza la fatica di utilizzare saperi e tecniche per demolirlo senza pietà.

E però qui, nell’ immondezzaio dell’anno artistico  2016 o se volete nel V canto dantesco, nell’orgia dei nomi, nell’accozzaglia e ammucchiata degli straviziosi d’arte c’è pure qualche Minosse che, chiamato dal kamasutrico   editore Umberto Allemandi a giudicare le anime (Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:/ essamina le colpe ne l’intrata;/giudica e manda secondo ch’avvinghia ). Ebbene, solo qui nell’Inferno del Giornale dell’Arte) Minosse proprio mentre attorno al corpo attorciglia la coda, che è lunga nove cerchi d’Inferno, riceve la pena che commina, danna ed è dannato: il giudice è colpevole. Così Vittorio Sgarbi in questa griglia del 2016 occupa il posto di giudice ma per ben cinque volte anche quello di peggiore critico d’arte. Conoscendolo, ne gode. E mi chiedo se Massimiliano Fuksas e Tomaso Montanari siano più fieri di esseri stati premiati come migliori o dannati come peggiori.

Gli autori, le mostre, le opere, i curatori, i critici, i galleristi che ottengono la marchetta ( l’alloro del migliore dell’anno)  guadagnano un attimo di diffidente attenzione, ma poi finiscono con il subire la sola, vera condanna capitale: quella del silenzio.  Al contrario, la stroncatura (la marchiatura del peggiore dell’anno)  promuove un autore, ne segnala l’insidia e il pericolo, lo rende cibo dell’intelligenza. Insomma, finire nell’elenco del meglio è una vergogna. Il peggio, almeno, bisogna meritarselo.

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