Ieri la cerimonia di fine anno sembrava ‘Assassinio nella cattedrale’ GENTILONI E LA RESTAURAZIONE DELL’ABITO GRIGIO: MA E’ IL GRIGIO DELLO SMOG O QUELLO DELL’ACCIAIO? Mentre promette ossessivamente lealtà, tradisce uno stile che era la sostanza politica del renzismo

Questo dice: “giusto e necessario”. Lo scorso anno, e ancora l’anno prima, quello diceva: “epocale e gigantesco”. Ma non sono cambiati solo gli aggettivi, che non sono più superlativi. Qui sono cambiati il colore, il calore e il tempo della musica che non è più la furia del rock di provincia, ma è la lentezza sapiente dell’esecuzione da camera. Gentiloni non va mai in crescendo, ma è costante e timido come l’Adagio di Albinoni. E anche quando – un’unica volta in tutta la conferenza stampa – si concede la mezza battuta, augurandosi che Matteo “non stia a guardarci ma stia invece riposando”, lo fa con un mezzo sorriso dolente. E subito si capisce che il suo sarà il tempo delle mezze stagioni e delle mille sfumature di grigio, che è il colore dello smog, ma è anche il colore dell’acciaio inossidabile: “io non faccio di mestiere il giudice, ho un’altra formazione” ha risposto a chi gli chiedeva una presa di distanza dal sottosegretario Lotti, che è indagato.  Ecco: il grigio di Gentiloni è smog che confonde o acciaio che offende? Ha detto ancora: “La stabilita non può bloccare la democrazia”, ma poi: “Completare le riforme serve a ricucire il paese lacerato”. Il suo grigio è il colore del tirare a campare o è quello della tempesta di Jünger?

Il presidente dei giornalisti  Enzo Iacopino,  che ne ha viste tante, si è complimentato con lui perchè Gentiloni ha risposto a tutte le domande, “ben 33, un record!”,  ma è stata una pioggerella lenta e monotona, senza mai quel rombo di tuono che annunzia il temporale che pulisce e che rinfresca. Il collo proteso in avanti, la schiena un po’ curva, i gesti parsimoniosi come se cercasse di reprimere in sé il proprio essere, raramente ha pronunziato la parola io, forse tre volte, ma sempre per ribadire il noi: “io penso che noi abbiamo fatto un’ottimo lavoro”. E poi per liberare Renzi dal ruolo di burattinaio: “Ci si può non credere, ma sono stato io a chiedere a Maria Elena di accettare il lavoro di sottosegretario”

A guardarlo circondato dai giornalisti – ” dodici giorni di governo e già una conferenza di fine anno” – in questo tradizionale ma paradossale incontro, che per sua natura non è una cerimonia renziana, Gentiloni si rivela come una restaurazione, l’eterno ritorno dell’antico, il futuro dietro le spalle. Benché sia monocorde, con la “s” appena sibiliante che forse il tempo gli ha corretto, e nonostante tenga gli occhi sempre bassi e non si esponga mai in favore di telecamera, si vede che questo presidente è nel suo ambiente. E infatti quando, per difendersi dalle domande sulla durata e sulla natura del proprio governo, dice “svolgo una funzione di servizio” o ancora “io mi sento in un ruolo innaturale”, tornano in mente tutte le strambe parole con le quali venivano chiamati i governi stagionali e decantatori: governo fantoccio, balneare, istituzionale, di bandiera, di necessità, di salute pubblica, governicchio e ovviamente governo elettorale. Dice Gentiloni con la stessa antica sapienza: “cadono i governi che demeritano”,”cercherò di tenere il governo al riparo dalle dinamiche interne al Pd”.

Alla fine, proprio mentre ripete ostinatamente “non siamo qui per cancellare il lavoro di Matteo”, Gentiloni ne cancella i modi, che di Renzi sono stati l’imprendibile sostanza che dava senso politico a tutti quei nominogli ( ne contammo 35) da  Boy a Renzusconi, da Ebetino a Pittibimbo, da Bomba a ‘Renzie’, che sempre in Italia sono la storia di una leadership. L’uso goliardico e sottomesso dei soprannomi  (“sono altri nomi” diceva Pirandello) serve in Italia  a catturare ogni nuovo capo, quel carisma che nel mondo è oggetto di studi scientifici e qui da noi di culto della personalità e di pernacchie altrettanto gregarie.

Gentiloni, che non ha soprannomi o meglio “non riesce” (ancora) ad averne nonostante lo indichino senza troppa fantasia come “il fantasma”, “il verde”, “Paolo il freddo”, rivendica “continuità”, ma la sua aria accigliata e corrugata è già rottura. Promette fedeltà ma gli occhi, il portamento, i toni sono infedeli. La sua ossessione lo vela e lo svela: ” la squadra è la stessa” e “noi andiamo avanti con le  riforme di Matteo”  e “mai Renzi avrebbe dovuto dimettersi”. Insomma, il tradimento è nello stile, nella forma che del renzismo è stata l’anima. E le risposte sono state 33 non per generosità ma, al contrario, per parsimonia. Non c’è infatti la bulimia politica di cui Renzi – ricordate? – fece letteralamente l’elogio e che lo scorso anno lo costrinse a interrompere la conferenza stampa alla diciannovesima domanda, dopo un’ interminabile tirata sul renzismo, un prolisso racconto su se stesso: “vedo gli sbadigli della terza fila” disse in un momento di resispiscenza.

Dunque il giubbotto “che – disse Renzi alla conferenza di fine 2014 –  non sono degno di portare” è diventato l’abito grigio di Gentiloni. Come può esserci continuità tra il giubotto e l’abito grigio se il primo fu (ed è) esibito in opposizione all’altro? E infatti al di là delle intenzioni, ieri la velocità del giubotto è stata seppellita dalla lentezza dell’abito grigio. Nell’idea renziana che il giubbotto sia l’addio a Gramsci e al tortellino di lotta e di governo, l’abito grigio è la resistenza allo sviluppo.

Al contrario nell’idea gentiloniana del grigio come estetica e morale dell’eleganza, del mistero dell’eminenza grigia che sta dietro le cose, del grigio come valore e come norma interiore, il fighettissmo rivendicato da Renzie, che per sentirsi ‘cool’ dice ‘hey!’, è la vita troppo frettolosa,  il narcisismo vuoto, quella voglia matta di sbrigarsela che a volte produce il massimo della concentrazione, ma  più spesso solo pressapochismo e spavalderia.

Gentiloni ha detto di ereditare la squadra che Renzi diceva invece di allenare come – ricordate ?- Al Pacino, che  è una specie di divintà del pop :” non credo in Dio, credo in Al Pacino” fu l’aforisma fulminante dell’attrice Valentina Lodovini. E ancora: ‘possiamo farcela’ diceva continuamente Renzi, ed era il ‘We Can’ di Obama (e di Veltroni), a sua volta figlio del We Can Work It Out dei Beatles. Ebbene, al di là – ripeto – delle intezioni, per il pop-renzismo Gentiloni è un rinculare su Amedeo Nazzari: Al Pacino contro il mondo arcaico che ha vestito Gentiloni; il chiodo contro l’asfissia grigia dellea Rai, del sindacato, della scuola e anche di Lega Ambiente ( che fu di Gentiloni); il giubotto contro il grigio dei gufi; Al Pacino contro le caverne ideologiche.

E invece, nel mondo di Gentiloni, che identifica il grigio con la discrezione dei contatti o meglio anocra con l’antropologia dell’essere discreto, dell’essere asettico, cordiale e cortese ma senza confidenza né tanto meno trasporto emotivo, il chiasso di Renzi è  l’iperattivisamo nevrotico del provinciale  in città, del burino stordito dal multiverso urbano della metropoli; è rispondere al telefonino con le mani sulla pizza, è parlare con la Merkel smanettando sullo smartphone. Raccontava Italo Calvino : “Quel giornale era scritto con espressioni sempre uguali, ripetute, grigie, con titoli che mettevano in rilievo il lato negativo delle cose. Anche il modo in cui il giornale era stato stampato era grigio, fitto fitto, monotono. E a me venne da pensare: toh, mi piace”.

Attenti dunque a non sottovalutare il grigio e a non semplificare i concetti italiani di tradimento e di trasformismo. Prima di diventare arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra, Thomas  Becket  era il cancelliere di Enrico II, il suo uomo più fidato, il più fedele, il più amico.  Ma il principio di necessità che regola la storia travolse tutto. Finì “come è giusto e necessario” direbbe Gentiloni. Ed Eliot ce lo raccontò in ‘Assassinio nella cattedrale’.

8 thoughts on “Ieri la cerimonia di fine anno sembrava ‘Assassinio nella cattedrale’ GENTILONI E LA RESTAURAZIONE DELL’ABITO GRIGIO: MA E’ IL GRIGIO DELLO SMOG O QUELLO DELL’ACCIAIO? Mentre promette ossessivamente lealtà, tradisce uno stile che era la sostanza politica del renzismo

  1. Lorenzo

    Il dottissimo Francesco Merlo più lo leggo e più mi ricorda l’abate Cancellieri del poeta Belli, che “cominciava col caval di Troia e finia colle molle dei braghieri”.
    Cordiali saluti e un sereno Anno Nuovo.

  2. Nicola Martino

    In principio era il verbo è il verbo era Dio!Sobrio,attento,efficace,essenziale, Gentiloni non ha lasciato nulla al caso!Esperto della comunicazione, ha svolto in modo diligente il compito che si era assegnato e lo ha fatto come è nel suo stile,in modo pacato e lucido!Retorica e polemica,le due assenti e sconosciute per libera scelta tattica,ma a testa alta,schiena dritta e matura dignità ha consegnato al paese il messaggio x un’attività di servizio nel segno della continuità, di cui è orgoglioso e consapevole, lieto di passare il testimone in un perfetto e vincente gioco di squadra!Come l’albero di Natale illumina l’ambiente senza eccessi di luci,così Paolo Gentiloni ha illuminato la scena con acuti calibrati e rassicuranti!

  3. Tarantulio

    E qui arcobaleni di espressioni in lode al grigio.
    buon anno

    o.ps
    aggiungo che dopo il chiasso di renzi anche il silenzio nero porta speranza

  4. Luciano

    Ho notato che da sempre Merlo dopo l’apostrofo lascia uno spazio vuoto. Me ne sono accorto perché, salvando i suoi articoli in un mio file doc, il correttore automatico mi segna l’errore. Ma è un errore veniale per questo gigante del giornalismo. Per questo mi ricopio tutti i suoi articoli.

  5. gianni lecca

    “Per il pop-renzismo Gentiloni è un rinculare su Amedeo Nazzari”. A parte il fatto che solo a una penna ballerina ed ecclettica verrebbe di tirare in ballo “Il brigante Musolino” e “Il brigante di Tacca del Lupo” circa gli attuali colori delle successioni governative: mi piacerebbe sapere il significato preciso dell’accostamento. E’ un apprezzamento timbrico sui bassi e sobri decibel (chi non beve con me…) anche appannaggio dell’ora capo del governo , o è il malsano tentativo diffamatorio sulle presunte abitudini sessuali dell’attore, morto quasi quarant’anni fa e che ha rappresentato, in scena e nella vita, un esempio lampante ed esemplare di ineccepibile mascolinità. Di cui la Sardegna tutta, terra d’adozione, fa orgoglio e vanto.

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