== Il marketing della poltrona vuota == IL CONFORMISMO DI BOB DYLAN CHE FA SIA LA RITROSA E SIA LA CIVETTA COME UNA QUALSIASI LADY GAGA Non riesce a dire “no” ma nepppure “sì” . Si inchina al simbolo (“Sono onorato”) ma poi lo irride (“ho un altro impegno”)

C’è del brutto, deludente conformismo in questo “mi si nota di più … ” morettiano, nella banalità dell’assenza che il 10 dicembre a Stoccolma renderà Bob Dylan più presente dei presenti. Avesse rifiuto di andare per ragioni politiche (Sartre) culturali (Marlon Brando e l’Oscar) o per militanza nell’antipotere (Vargas Llosa e la presidenza dell’Istituto Cervantes, Ferlinghetti e il titolo di “Poeta della Patria”) Bob Dylan avrebbe aumentato innanzitutto il proprio prestigio perché, come scrisse Le Monde, rifiutare un premio significa prenderlo due volte. E avrebbe pure accresciuto il valore del Nobel perché i rifiuti onorano l’albo d’oro dei premi come accadde per esempio quando il matematico russo Grigorij Perelman rinunziò al milione di dollari del Clay Mathematics “perché non voglio essere uno scienziato da vetrina e troppi soldi generano violenza”.
E invece Bob Dylan non rinunzia, ma non va. Non contesta, ma ha altri impegni. Dunque non si inabissa, come Salinger e Thomas Pynchon, o come i nostri Mina e Lucio Battisti che non hanno sopportato il disagio del successo, spaventati dagli applausi e dalle foto. Lui si dà mentre si nega, si svela mente si vela. “Vorrei e non vorrei / mi trema un poco il cor” può cantarlo l’ingenua Zerlina e non il bardo Bob Dylan.
Anche la scienza del marketing – che non è mai da disprezzare e può persino essere un’arte – qui è tentennante, incerta, ambigua e respingente. Spiace dirlo, ma questa volta l’ antipatia di Bob Dylan non è più la magnifica risorsa del ribelle che, non solo nella nostra epoca, è stata una specie di lievito del progresso, della cultura e dell’arte. Anche Dante Alighieri, a quanto si tramanda nella novellistica, opponeva fra sé e gli altri il pathos dell’antipatia: “L’uovo crudo è la pietanza più buona” rispose con la sua nasuta alterigia ad un convivio di sapienti ghiottoni simili a quelli di Stoccolma. E un antipaticone fu l’adorato santo padre Pio che buttava fuori i fedeli penitenti e li faceva pure piangere: “Andate via, sepolcri imbiancati”. E quelli scappavano umiliati, ma fortificati nella fede.
Qui al contrario l’espediente del “sono onorato ma ho da fare” è roba da mezza porzione e dunque da mezza calzetta: c’è infatti l’inchino al simbolo ma subito dopo c’è il suo dileggio. E’ vero che la trovata di marketing ha già fatto riesplodere il nome di Bob Dylan nei social globalizzati. Ma non c’è né il lucido cinismo del Papa di Sorrentino che si assenta perché vuol farsi confondere con Gesù Cristo, né c’è la creatività alla Stendhal ( o alla Gadda, se volete) di Bansky e di Elena Ferrante che nel nascondimento esprimono il meglio della propria arte perché in loro lo pseudonimo è già romanzo.
Bob Dylan coltiva invece due pesanti retoriche opposte, quella di chi resta a bocca aperta per il dono ricevuto e quella di chi al contrario disprezza i parrucconi di Stoccolma. Davvero nessuno poteva immaginare che proprio lui avrebbe fatto al tempo stesso la civetta e la ritrosa, come una qualsiasi Lady Gaga o come Madonna.
E’ vero che nei concerti l’ambiguità è poesia. Quando infatti si mimetizza sotto un cappellaccio, smorza le luci, elimina lo schermo gigante, si nega ai primi piani, vieta le foto (e ovviamente il divieto scatena i fotografi) la famosa antipatia di Bob Dylan ci piace perché è appunto la grammatica di un’eversione generazionale, è l’acqua benedetta sullo zolfo del diavolo. Insomma c’è del genio in quel mettere i baffi a se stesso come Duchamp li mise alla Gioconda. E’ vita letteraria smontare il proprio mito e dunque sbobdylanizzarsi non più facendosi le canne con Mr. Tambourine Man ma cantando Full Moon e Autumn Leaves (Les feuilles mortes), capolavori da cantante confidenziale in una sera di “luna piena”.
Ci siamo riconosciuti nel Nobel al poeta dell’ anticonformismo, al musico che ha pizzicato le corde segrete di tre generazioni, ma la mezza gratitudine e il mezzo scherno – “ sono onorato ma ho altri impegni” – ci deludono proprio per conformismo, per mancanza di poesia, per banalità artistica. E’ infatti vero che Bob Dylan è riuscito sicuramente a farsi notare di più, come diceva Moretti. Ma il 10 dicembre, se quelli del Nobel praticassero l’etica del buonumore, accanto ai fisici David Thouless, Duncan Haldane e Michael Kosterlitz, ai chimici Jean-Pierre Sauvage, J. Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa , al presidente colombiano Juan Manuel Santos, e agli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström, potrebbero sistemare una bella poltrona vuota per sottolineare la presenza spettacolare dell’assente, il mezzo vuoto che sconforta, la banalità di un grande artista che non ha saputo dire né sì né no, un bel signor NéNé, come si diceva una volta. Quella poltrona vuota ricorderebbe al mondo che nella storia di ogni premio ci sono i ‘no’ che decorano le coscienze, e ci sono i ‘ni’ che al contrario le imbrattano.
(Pochi sanno che, molti anni dopo aver rifiutato il Nobel, Sartre, ricco ma squattrinato, chiese all’Accademia il danaro del premio. D’altra parte anche la squaw indiana che Marlon Brando aveva mandato a ritirare l’Oscar era in realtà un’attrice).

2 thoughts on “== Il marketing della poltrona vuota == IL CONFORMISMO DI BOB DYLAN CHE FA SIA LA RITROSA E SIA LA CIVETTA COME UNA QUALSIASI LADY GAGA Non riesce a dire “no” ma nepppure “sì” . Si inchina al simbolo (“Sono onorato”) ma poi lo irride (“ho un altro impegno”)

  1. Marco Ranoc

    Signor Merlo, con tutto il rispetto, io credo che lei non solo non abbia capito Dylan. Non intendo con ciò il valore artistico delle sue canzoni, ma i suoi atti “pubblici”, per così dire. Lei infatti si limita a sciorinare un elenco di motivazioni e possibili scappatoie che il cantautore avrebbe potuto escogitare per “riuscire efficace”, “accrescere il proprio prestigio” o entrare con un colpo più o meno basso nei dibattiti dell’intellighenzia mondiale. Proprio leggendo articoli come questo mi pare di capire, anzi, mi pare assolutamente evidente, che è proprio da posizioni come le sue che Dylan sta scappando da vari decenni. E questo comportamento è l’unico che riesca a evitargli l’elevazione a monumento di se stesso che gli sarebbe derivata tanto dalla sua accettazione incondizionata che da un rifiuto teatrale. Può non piacere, ma tutto fa credere che Dylan non voglia passare alla storia né come ribelle né come poeta laureato, e nemmeno come rockstar; al massimo, i suoi riferimenti se mai sono gli anonimi cantastorie che suonavano nelle bettole di un secolo fa, magari insopportabili, alcolizzati, spesso coinvolti in risse, ma quelli. E quelli non andavano a Stoccolma e nessuno chiedeva la loro opinione. Si può essere d’accordo o meno, si può anche dire che non è stato all’altezza, ma se non si riesce a vedere in questi atti una (per quanto discutibile) coerenza, a mio modestissimo avviso, non si è capito Dylan.

  2. Alberto

    Caro Marco Ranoc, se solo Dylan avesse contestualmente rifiutato il premio in denaro avrei collimato con la tua analisi. Purtroppo non mi pare che sia andata così ! Io sono stato un “adoratore” di Dylan in gioventù ed ho creduto fermamente nel suo messaggio rivoluzionario. Poi ho cominciato a scavare nella storia della musica folk americana risalendo a Woody Guthry ed a tutta la beat genereation degli anni 40 e 50; quella che viaggiava “on the road” sui treni. Purtroppo per Dylan ho capito che non aveva fatto altro che riproporre cose già vissute. Per carità, non voglio togliere alcun merito al nostro Bob che ha saputo fare un ottimo “marketing” . Ho anche gioito per il suo nobel alla letteratura che credo meritatissimo…….ma la sua arroganza, consentimi, è insopportabile ! …… ed anche puerile.

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