In viaggio nella valle del terremoto “NOI CHE VIVIAMO NELLA PAURA E CHIAMIAMO LE SCOSSE SCHICCHERE E SARDELLE”

CAMERINO – Sono così abituati alle scosse che le chiamano schicchere.”Ma anche sardelle” mi dice la signora Maria Cappa, 72 anni e cento terremoti scolpiti in faccia. Il suo viso popolare e a tinte forti, più Courbet che Caravaggio, prova che la paura produce anche saggezza e misericordia. Schicchera è infatti il clic del dito medio sul pollice, e sardella è lo scappellotto, è la botta. Sono diminutivi e vezzeggiativi, piccole difese linguistiche per truffare appunto la paura, per dominare il rischio sismico che non significa soltanto convivere con le crepe, ma soprattutto non credere pienamente nel futuro: “A che vale lo sforzo di ricostruire se la terra ti balla sotto i piedi?”.
La prima volta fu nel 1972 ” l’anno del mio matrimonio”, poi nel 1979 “quando ero incinta di Francesco”. Quello memorabile arrivò nel 1997, “ma il peggiore è adesso”. Fa una pausa la signora Maria e prende fiato:”Forse è vero che il peggiore è sempre l’ultimo”.
La paura infatti fa ogni volta tabula rasa. Ed è per questo che non si impara mai a raccontarla. All’alba di mercoledì, quando sono arrivato a Visso, la paura appannava i vetri delle auto, era il fiato della famiglia Franconi che dormiva nella Ford Focus. La paura è anche un’intimità collettiva d’emergenza. Erano infatti moltissime le auto abitate e riscaldate con il calore umano. Ed erano parcheggiate in fila indiana come tante villette a schiera, ma lontane dal pietrame e dal calcare che ingombrava soprattutto le vie più anguste. Le case erano invece vuote, ma per sospensione della vita che, di nuovo, non è altro che paura.
Non erano insomma come le case di Amatrice dove la vita era spezzata perché il terremoto aveva strappato le mura esterne e così dalla strada si violava l’intimità postuma di gabinetti, di soggiorni e di camere da letto. “Il terremoto come minaccia fa molta più paura del terremoto vissuto che è invece dolore, disperazione, ma anche ripartenza, fosse pure quella di Sisifo condannato a ricominciare in eterno”.
” La paura non è solo i capelli che si drizzano” mi spiega Marcello Fratini, un giovane avvocato che è nato a Ussita, “e non è solo la gola che si strozza, gli occhi che si velano e le gambe che si piegano”. La paura “è anche comunità”. A Visso, a Ussita, a Pieve Torina, a Castelsantangelo sul Nera, a Muccia, a Camerino, da quando martedì sera la terra ha ricominciato a tremare, la gente si è rifugiata e si è ritrovata in strada poprio come in passato si riuniva in chiesa: “la paura del terremoto non ferma il tempo, lo rovescia”.
E al bivio tra Visso e Ussita, mentre i vigili del fuoco con i caschi neri, manovrando la ruspa e i bobcat demoliscono una casa “che, per beffa del destino, era stata appena venduta a una famiglia napoletana”, tra la gente che si è svegliata e ora è in strada come fosse in mensa consumando caffé e cornetti, si è aperto un dibattito – nientemeno – sulle doppie faglie e sugli sciami sismici. C’è sempre il geologo che, inascoltato, aveva previsto tutto; e c’è sempre il fatalista che considera incontrollabile l’anarchia della natura. Dunque pare che il geologo di Camerino Emanuele Tondi avesse profetizzato, con tanto di articolo su www.cronachemaceratesi.it una scossa con epicentro a Preci. Ma “con la stessa logica io posso prevedere una scossa con epicentro a Loro Piceno o ad Ancona” replica Bernardino, che di profesione fa il meccanico, è in pensione e ieri ha perso la casa nella frazione di Sasso. Ed ecco dunque che la paura, che mescola tutto e tutti, legittima sia l’ignorante che parla come uno scienziato sia lo scienziato che parla come un ignorante.
Intanto gli anziani ricordano terremoti di intensità maggiore. E sono ricordi che scavalcano più di una generazione quelli del muratore Bruno che ora ha perso i capelli e due denti davanti, ma a Tempori, “dove d’inverno c’è il sole”, si è fatto la casa antisisimica “con le mie mani”. La sua casa ha retto perfettamente, mentre è gravemente danneggiata con profonde fessure “l’imponente supervillona antisismica di calcare bianco di Alfio Caccamo, un costruttore di origini siciliane, tra i più ricchi della valle”. La paura ha un lato beffardo, da lotta di classe sismica?
Adesso si ride nella strada più abitata delle Marche. E tutti fanno ironia perché i giornali e i siti hanno raccontato che “a Roma oscillavano i lampadari e tremavano i bicchieri: niente di più. Poveri romani. Hanno persino evacuato la Farnesina”. Una ragazza di nome Alessandra, di professione segretaria d’azienda, nota che “a Roma c’è sempre un’aria da 8 settembre, un bisogno irresisitibile di svignarsela”.
Ma non ci sono archivi e memorie che possano ridurre l’angoscia quando alle 10 del mattino ci guardiamo in faccia e ci chiediamo se quella che arriva è una schicchera, è una sardella. Acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire, la paura ora ci tende come corde: “le corde del macellaio – scriveva Federico De Roberto nel racconta ‘La Paura’ – che trascinano le vittime al macello”.
Dunque il dibattito si blocca di botto perché di fronte alle macerie ancora fresche della chiesa di Villa Sant’Antonio, che aveva un bellissimo portale rinascimentale, ora la terra trema e la nipotina della signora Cappa si mette a piangere, mentre il cane, che nessuno aveva notato, comincia ad abbaiare. E bisogna trovare il coraggio di restare fermi mentre cade un cornicione e si mettono a correre i cuori degli anziani.
A Tolentino un vecchio signore è morto di infarto per la paura. Ma la paura ha protetto la vita di tutti quelli che dopo la prima scossa sono fuggiti dalle case e non sono tornati indietro: quando è arrivata la seconda scossa, non c’erano.
A Camerino l’arcivescovo Brugnaro, una faccia tonda e allegra, “forse perché vengo del Veneto felice”, mi mostra i molti danni che ha subito il palazzo vescovile e mi parla delle pecorelle smarrite che adesso la paura gli restituirà. “La paura risveglia i bisogni primari: l’amore, la natalità, la spiritualità, la religione”. Gli racconto allora la storia che ho sentito a Muccia: le sorelle Varnelli, ricche e famose produttrici del Mistrà, liquore a base di anice, una specie di Pernod, durante il terremoto del 1997 furono soccorse da un coraggioso vigile del fuoco. Ebbene, la leggenda popolare vuole che una delle tre abbia sposato il suo salvatore. A riprova che il terremoto, come scrisse Augusto Placanica nel suo formadibile ‘Il filosofo e la catastrofe’, è ” morte e trasfigurazione di tutto: monti e mari, palazzi e capanne,individui e collettività, paesaggio agrario e stati d’animo, ricchezza e miseria, vizi e virtù”.
Ma facilmente la paura torna a essere lo sguardo tremulo, le labbra pallide, le vene che si svuotano. “Abbiamo trasportato di peso – racconta l’arcivescovo – quattro vecchi sacerdoti malati, di cui due totalmente disabili. Io stesso me li sono caricati in braccio mentre i calcinacci ancora cadevano e gli stucchi penzolavano”. E anche gli ospiti di ben sette case di riposo – circa duecento – che sono stati trasferiti all’ospedale di Camerino erano intontiti, allampanati, sconnessi. L’arcivescovo racconta invece l’evacuazione del carcere: “I detenuti non sembravano i dannati di Caron dimonio, ma al contrario sembravano contenti”. Ne parlo con un carabiniere di Camerino, che è amico di infanzia del mio amico Manuel, il quale mi fa da guida in queste valli tremanti dei Monti Sibillini che Leopardi chiamava Monti Azzurri. Il carabiniere dice di non avere mai visto facce così stranamente euforiche, espressioni così impetuose e tuttavia dolenti: “Il terremoto può sventrare le prigioni, squarciare i muri, spalancare le gabbie. E’ come un colpo di Stato. Sicuramente meglio di un carnevale. Per loro era un’inaspettata evasione dagli esiti imprevedbili”. Allegri e disperati come i folli della nave di Bosch “sono stati portati a Rebibbia dove, nel trambusto, tre albanesi che lì erano già reclusi sono scappati con tanto di lenzuola e corde, come nelle barzellette”. E’ la prova che il terremoto non è la fine del mondo, ma il suo sottosopra.
E sono sottosopra anche le facce degli abitanti di Camerino. Per tutta la giornata si sente sull’acciotolato il rumore dei trolley degli studenti universitari che se ne tornano a casa, soprattutto in Abruzzo e in Puglia…: “vorremmo restare ma non sappiamo se sarà possibile”. Si sentono traditi, hanno facce da sfollati perché il centro storico è tutto zona rossa e dunque non possono né frequentare l’università né tornare nelle loro camere. Per la verità la via Roma e il Corso Vittorio non sono ricoperte di detriti e l’architettura non è tornata natura come ad Amatrice, ma c’è qualche palazzo lesionato, ci sono crepe a x e fessure a dardo. Qui l’apparato della ricostruzione si è già messo in moto, ma la gente dormirà in macchina ancora per qualche notte. Martina Palmieri, giovane farmacista, racconta di avere ospitato “nella mia auto a tre stelle” ben tre amiche “mentre mamma e papà sono rimasti in casa, ma sulla soglia, pronti a venir via”.
La paura attribuisce signficati ai rumori e ai movimenti e Martina ha un sussulto quando, all’ingresso dell’ospedale, qualcuno apre la porta scorrevole: “una scossa?”, un’altra schicchera?
A Visso la famiglia Cappa al gran completo, una tribù che gestisce il più famoso laboratorio di salumi, il forno, il bar e la tabaccheria, mi aveva spiegato i rumori del terremoto: “i vetri che si rompono, le saracinesche che rimbombano, una specie di boato che sale dalla valle, il tonfo delle pietre: percepisci i suoni più immediati e minacciosi del movimento”. La gente degli Appennini ha un repertorio di rumori depositato nella memoria collettiva: “a volte per un niente noi sobbalziamo”. Gli Appennini sono “lo dosso d’Italia” diceva Dante che credeva addirittura che in un remoto passato “l’alpestro monte” arrivasse sin dentro la Sicilia, spina dorsale di un unico territorio sconquassato poi dai terremoti che, fra le altre cose, staccarono il Peloro. Fu così che irruppe nel mezzo del mare e ora, come tutti sanno, in attesa del Ponte, “Scilla tiene il lato destro, e il sinistro l’implacata Cariddi”. Alla fine, mi dice la signora Cappa, “il nostro paesaggio ha la forma di un terremoto”. Ma forse anche le facce dei terremotati italiani, come gli Appennini, sembrano disegnati da Peter Eisenman, quel famoso architetto americano che costruisce forme già terremotate. Lo dico alla signora Cappa che mi squadra malfidata contraendo il viso. Ma forse le sue sono contrazioni telluriche.

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