Il reportage. AMATRICE, COSI’ L’AMORE DIVENTA “IL BENE RIFUGIO”: GINO,RITA E LA MELA DELLA SPERANZA

Mi sento come un ladro che rapina il dolore degli altri quando arrivo ad Amatrice e vedo, negli occhi offesi di Serenella, l’umanità e la civiltà che sono state sgretolate in poche ore come le tegole e i mattoni, la calce e i sassi che ora, sotto i nostri piedi, sono un tappeto di dossi e collinette. Serenella Giustiniani, che è famosa perché aveva un negozio di frutta al vicolo della Moretta, nel cuore di Roma, cerca i corpi della madre, del padre e del fratello. Le hanno dato il numero 53 ed è in fila per entrare nella tenda dei morti senza nome. Il signor Valori vi ha appena riconosciuto la mamma “ma dalla medaglietta che portava al collo, perché il viso gonfio e tumefatto poteva essere quello di chiunque”.
C’è in loro la sofferenza che acquista fascino e dignità di poesia, ma proprio la prosa accesa e le belle foto, le elegie e i video intensi, sono la tentazione a cui il cronista deve resistere: l’estetica wagneriana della tragedia, “l’opera d’arte totale” disse Stockhausen a proposito dell’ 11 settembre. Sicuramente è questa l’estetica di piazza Antonio Serva dove c’è la chiesa scoperchiata dal terremoto che qualcuno vorrebbe mantenere scoperchiata come l’abbazia di San Galgano – quella della spada nella roccia – a cui il fulmine portò via il soffitto, ed è diventata una bellissima rovina, un’opera d’arte totale appunto.
In questa piazza ci sono due case in attesa di demolizione, a cui il terremoto ha strappato le mura esterne e così dalla strada si viola l’intimità postuma. Dal basso si vede il gabinetto senza tavoletta, più in là una poltrona quasi sospesa, e poi i quadri sulla parete del soggiorno, il letto disfatto con il suo crocifisso ancora al chiodo, gli indumenti stesi, lo spazzolino, il bicchiere, una gondola sopra la tv: è la vita di tutti i giorni, non perduta ma spezzata. Vi aleggia ancora lo spirito degli abitanti che ti fa sentire un voyeur. Hai persino l’impressione di poterci infilare le mani come in una maquette, un modellino per bambole.
La ragazza che lavorava nel supermercato di fronte dice che al secondo piano stava una bella signora che veniva solo d’estate ,”ha fatto una parte nel film i “Cesaroni”, la moglie del fratello di Amendola; al primo piano, invece, c’era un ragazzo pelato che tutti chiamavano ‘teschio’”.
Ad Amatrice non si andava in vacanza, ma si veniva in villeggiatura, non turisti spaesati ma compaesani ritrovati. E invece ora, attorno alla piazza, non ci sono nemmeno le strade perché i detriti le hanno ricoperte e l’architettura è tornata natura: non c’è più ordine né orientamento urbano. E infatti Serenella non riconosce la casa di famiglia proprio come quel figlio non ha riconosciuto il volto tumefatto della madre. Anche le città hanno un volto: le strade sono rughe, le finestre occhi, i tetti sono come i cappelli… Finalmente, nella distruzione, si capiscono le metafore umanistiche del Rinascimento italiano: mura come braccia, il castello è la testa, la piazza è il cuore. Smarrita, Serenella cerca un segno, un portone di legno, un battente, ma non lo trova: il mondo ha perso i connotati.
E’ così difficile guardare negli occhi di Serenella che penso che non vorrei esserci, proprio io che, quarantotto anni fa, pur di esserci, ancora studente scappai di casa e mi arrampicai sulle rovine del Belice terremotato. E’ vero che qui c’è un’esplosione di tecnologia: droni, telefoni, parabole… che sono i nuovi fiutatori di rovine. Ma la verità è che il terremoto, quando l’hai visto una volta, lo hai visto per sempre e per sempre hai capito che la fine del mondo eccita anche la logorroica, moralistica e scombinata vena di chi racconta, dei sopravvissuti che hanno visto, di noi giornalisti, degli scrittori in cerca dell’Uomo.
Accompagno Serenella al Cimitero e cerchiamo insieme i loculi – “i due fornetti” – dove riposano suo compare e sua comare: “Adesso, dopo tanti anni, forse le loro ossa si possono ricomporre per fare spazio a papà e mamma. Questo cimitero era già più abitato del paese: i morti erano molti più dei vivi”. Il prete, che si chiama don Savino, dice che non ha perduto solo la chiesa “ma anche i miei parrocchiani”. Sta qui da trenta anni e solo da un mese ha preso come aiuto don Michelin, un giovanissimo sacerdote di colore che ha il fisico di un calciatore, parla poco l’italiano, sorride a tutti e accoglie gli altri preti che arrivano “perché c’è tanto lavoro anche per noi”. C’è pure don Cesare da Roma: “Venivo qui un mese all’anno a fare la villeggiatura, ora porto il mio sollievo alle anime”. C’è persino il vescovo, monsignor Domenico Pomili: “Mi ha telefonato Francesco e mi ha invitato a non aver paura”.
Ma il terremoto non fa sconti neppure a Dio: don Savino ha qualche parente in meno e anche lui ha l’aria smemorata. Qui nessuno sa chi ha perso, cosa ha perso e dove l’ha perso. A tutti gira ancora la testa. Persino i volontari della Croce Rossa di Amatrice “sono esonerati per tragedia”. Come si sa, anche la caserma dei carabinieri è inagibile ma il comandante generale dell’Arma non è qui per questo. E’ il capo che vuol stare vicino ai suoi uomini. E infatti, quando i vigili del fuoco tirano finalmente fuori dalle macerie la moglie al quarto mese di gravidanza del ‘carabiniere scelto’ Ivan Centofanti, che si trovava a Roma per servizio, il dolore diventa rito e la morte sacrificio.
Sempre nelle macerie vengono fuori uomini che hanno capacità di coordinamento, personaggi energici, personalità di prestigio che si fanno strada in mezzo a ciarlatani, trascinatori di folle, sciacalli e speculatori. E il sisma non distrugge soltanto, ma crea opportunità, scombina il passato, capovolge le classi sociali e anche Amatrice sta per diventare un cantiere che sveglia i talenti finanziari e imprenditoriali mentre distrugge famiglie e mestieri.
Giancarlo Colangeli, che dirigeva il supermercato Simply, 450 mq di merci, non sa che cosa sarà di lui, come si reinventerà: “In aprile avevamo investito 500 mila euro. Guardi cosa è rimasto”. Il pavimento è una spianata di cibi esplosi, succhi di frutta, zuppe, cipolle, uova, “attento a non scivolare”, scatolette, sughi, nutrimento per animali, saponi, detersivi, pasta, corn flakes. È il vero junk food, il minestrone della modernità sottosopra, la puzza stratificata della fine del mondo, esaltata dal caldo di agosto, fuori dai frigo che tengono a bada e rallentano la decomposizione di tutto ciò che è deperibile. E’ un’apocalisse postumana alla Mad Max, il film di George Miller, l’ordine sovvertito delle merci refrigerate, schedate e archiviate.
Qui, nel cuore della pericolante “zona rossa”, mentre giriamo con Giancarlo , Elisa, Maria, Antonietta e Serenella, nuove scosse ci ricordano che anche le professionalità speciali, le squadre speciali e gli esperti speciali antidisastro davanti al terremoto scappano a gambe levate come i bimbi che piangono a dirotto: qualcuno grida, ci spingono verso il centro della strada, cadono cornicioni che erano rimasti in bilico. Siamo tutti imbambolati perché la terra sta tremando ancora e la violenza naturale non si è calmata. Depositi vischiosi e chiari si addensano sui nostri abiti, sotto le unghie, sui capelli, persino dentro la bocca.
Più tardi, nel viale alberato, arriva un gruppo di harleysti con le moto rombanti: borchie, cuoio, capelli lunghi e giubbotti, baffoni e ottoni lucenti. Ci sono pure gli alternativi no-tutto, vestiti con i pantaloni mimetici e le scarpe chiodate, e ancora i giovanissimi che cercano il rito di passaggio. Tutti vogliono vedere, esserci, dare una mano, anche i ciclisti che pedalano dietro le colonne della Protezione civile. I colori sono il giallo degli elmetti, l’arancio delle giacchette rifrangenti, il rosso delle scavatrici, il blu delle sirene e delle ambulanze. Le tavolozze dei terremoti sono fatte di pochi colori primari che scintillano sul grigio della polvere e delle macerie.
Ci sono anche, fanatici e instancabili, i ragazzi di Casa Pound con la loro estetica da sfondamento: capelli rasati e tatuaggi esoterici. Cercano anche loro di reclutare anime, fanno concorrenza ai preti che nel pomeriggio dicono messa all’aperto, “un momento di preghiera collettiva”, una grande voglia frustrata di miracoli. Questa è zona di Madonne, statuine bianche, ed è la città di Cola dell’Amatrice, grande architetto e artista che, sodale degli urbinati poi romanizzati Bramante e Raffaello, ha dipinto pale d’altare manieriste ad Ascoli, a L’Aquila, a Norcia, ad Arquata del Tronto …, nei paesi degli epicentri insomma, dove il beffardo terremoto ora ha distrutto pure la sua statua.
E’ il terremoto che qui forma i caratteri, come in Sicilia e in Calabria. I terremoti disegnano infatti i paesaggi naturali ma anche i paesaggi d’anime. Chi ha letto il racconto di Gaetano Salvemini, che si salvò dal terremoto di Messina del 1908 appendendosi a un davanzale, sa che sismi e tragedie sono alimenti intellettuali. Anche Benedetto Croce subì il terremoto e, secondo Borges, “dal buio della sepoltura cercò la luce nella filosofia”.Le catastrofi rendono inquiete e radicali le menti perché terremotano i progetti, sovvertono le regole, mischiano i confini.
E infatti questa è terra di confini intrecciati. Elisa è nata ad Amatrice ma vive ad Antrodoco, manda i figli a scuola a Rieti e ha partorito ad Ascoli Piceno. I confini intrecciati sono il segno dell’Italia centrale. Se al nord c’è il Po che fa da diga sicura per le distanze, al Centro tutto s’ingarbuglia nei grovigli delle lotte fra comuni e signorie.

Nel 2006, all’estremo delle Marche, sei comuni della Val Marecchia sono passati con un referendum alla Romagna, vale a dire dai Montefeltro ai Malatesta. Anche ad Amatrice avevano lanciato un referendum per trasmigrare dalla provincia di Rieti a quella di Ascoli Piceno, e non per motivi balcanici o da piccola patria leghista. Più semplicemente perché da sempre l’ospedale, le scuole e il consorzio agrario più vicini sono quelli ascolani.
Alle 15 i vigili del fuoco e gli uomini della Protezione civile trovano due corpi, li tirano fuori dalle macerie, li avvolgono nei lenzuoli bianchi e li adagiano sulle barelle. A una ragazza che li guarda in lacrime consegnano una scatoletta con le collane e gli anelli della morta. La folla assiste in silenzio, non si sentono telefoni squillare, i cameramen sono disciplinati e commossi, più che dalla morte siamo tutti attratti dalla vita.
E infatti in tanti ci giriamo a guardare Gino e Rita che, accanto a un’ambulanza, si tengono per mano e mangiano a morsi una stessa mela. Mi raccontano la loro storia: sono entrambi soli, i genitori di Gino sono morti, quelli di Rita sono dispersi. Stamattina hanno deciso di sposarsi.
Racconto loro che le statistiche dimostrano che in Irpinia, in Sicilia, in Friuli… il terremoto ha incrementato i matrimoni, come già registravano gli storici del settecento. Scriveva infatti Francesco Mario Pagano che “dopo i tremuoti i paesi sembrano convertiti nell’isola di Cipro e de’ Taiti: Venere ivi pare che abbia trasferito la sua reggia e il suo trono, la licenza, il piacere, la dissolutezza scorre per le capanne”. Con Gino e Rita sorridiamo pensando al sesso, alla natalità, al matrimonio e, più in generale al sentimento come “beni rifugio”.
Saltando di nuovo i varchi della zona rossa, i due ragazzi mi portano a vedere cosa rimane delle case dei loro genitori. La via Leopardi, dove si passava con le auto, è diventata una montagna di detriti. Secondo loro “qui sotto c’è ancora il vigile urbano con tutta la sua famiglia”. Lo dicono piangendo ma mi raccontano che “insieme allo sciacallaggio e alla rapina il terremoto ha acceso la pietà italiana e ha risvegliato la solidarietà di un popolo che nella disgrazia si scopre appunto popolo e dà il meglio di sé”. Come ? “Allontanando per esempio gli speculatori”.
Secondo loro il terremoto non divide ma unisce l’Italia perché azzera le differenze tra la lava siciliana ,la terra rossa dell’Umbria, la terra grassa della Toscana, la terra carsica, le coste: “la convivenza con i terremoti lega la Sicilia alla Calabria, la Puglia all’Abruzzo e alle Marche, passando per la Romagna sino al Friuli”.
I morti sono 250, ad Amatrice il mondo è finito, ma Gino e Rita si scambiano un bacio d’amore.

6 thoughts on “Il reportage. AMATRICE, COSI’ L’AMORE DIVENTA “IL BENE RIFUGIO”: GINO,RITA E LA MELA DELLA SPERANZA

  1. costanza

    La tragedia non va venduta, va raccontata.
    Ed è quello che lei ha fatto in questo pezzo meraviglioso: un affresco in mezzo a tanti volantini con le offerte del sottocosto.
    Grazie per il garbo e l’educazione. Grazie per il rispetto. Grazie per la verità che ci ha messo dentro.
    Grazie per averci raccontato della Vita, di Gino, di Rita e di quella mela.

    Grazie, perché attraverso le sue parole ho potuto guardare fin là senza sentirmi una “voyeur”.
    C.

  2. Michela

    Meraviglioso pezzo di giornalismo che emoziona davvero.
    Ho sempre immaginato storie di vita dietro una finestra illuminata…stasera non c’erano né luci né finestre…ma solo tante storie senza confini e piene di luce . Grazie

  3. Alessandro Mastrogiuseppe

    Nella tragica vicenda umana che chiama a raccolta le più intime riflessioni esistenziali, il suo articolo mi colpisce al cuore, sventra ulteriormente la zona più profonda del pensiero. Mi fa vivere per alcuni istanti tra quelle macerie grigie. Mi catapulta nel dolore vivo e messo a nudo di quella gente a cui la terribile e imprevedibile natura ha tolto tutto lasciando come unica possibilità di riscatto, la dignità. Grazie Francesco. Lei, in questi giorni luttuosi, infonde speranza e con la sola forza delle parole, concede il lusso di trovare il senso salvifico delle relazioni umane. Apre brecce e spiragli di luce impensabili. Aiuta a sopravvivere laddove la natura ha reciso legami vitali. Mi sento di abbracciarla con infinita stima e infinito affetto.

  4. Iride Peis

    Grazie per avermi fatta sentire parte integrante di un paese che in silenzio riprende a respirare, con fatica è vero! ma con la speranza che si può e si deve ricominciare a costruire. Una mela condivisa, questo è amore. Grazie.

  5. Tarantintino

    D’accordissimo. Stiamo morendo. È una vita che sto dicendo che ci vorrebbe un grande evento catastrofico per scuotere gli intelletti sopiti e nel virtuale smarriti.

    p.s.
    Di buon umore mi sono installato Pokemon (lì non ci sono terremoti). Incuriositi, ben predisposti, io e la mia trittacippologa ci siamo messi a capire i mostriciatoli ed i nessi. Nulla da fare. Ci siamo arresi dopo 10 min. Avanti gioventù — il mondo è vostro !

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