L’ISOLA DELLA LIBERTA’, L’OPEN SEA CHE MAI SI FARA’ ADDOMESTICARE Vince l’ Inghilterra di Nelson

Mia moglie è inglese e ho due figli che hanno votato remain “per non cacciare papà di casa”, che è la formula scherzosa che riassume bene l’idea del mare aperto, del bisogno d’Europa intesa però come mondo. E tuttavia mia moglie ha zie e cugini che hanno votato leave per la stessa identica ragione: “Perché l’Europa ci allontana dal mondo”. Non sono gli estremisti della paura, non sono i populisti, non sono i nativisti alla Nigel Farage né gli eccentrici alla Boris Johnson, ma sono persone colte e intelligenti che hanno vissuto in Svizzera, in Francia, in Nuova Zelanda. Gli uni e gli altri, quelli che hanno votato remain e quelli che hanno votato leave, credono nella a-europeità dell’open sea di Winston Churchill, nella sua difformità rispetto ai progetti, ai sogni e qualche volta anche ai deliri franco-tedeschi, perché credono – scrive Shakespeare nel Riccardo II – in “questa isola di maestà, questa dimora di Marte, questo nuovo Eden e Paradiso Terrestre … questa pietra preziosa incastonata nel mare d’argento che la difende contro l’invidia di paesi meno felici come un muro e un fossato difendono una casa”.
E’ questa l‘insularità degli inglesi che non sarà mai addomesticata né da un Parlamento sovranazionale e neppure da Internet. Ed è un’insularità tutta racchiusa nella sfumatura negativa con cui gli inglesi pronunziano l’aggettivo continental, una vaga ironia che esprime estraneità e commiserazione. Continental è il breakfast che non sa di niente, è il vino, è la terrazza, è lo snob pacchiano, è salutarsi baciandosi sulle guance, è la precedenza a destra, è parlare con le mani, è la lingua inglese inevitabilmente masticata, è il barocco di chi mette più di quel che serve: “the French are glad to die for love” (i francesi sono felici di morire per amore) cantava Marylin e subito aggiungeva che il baciamano è “quite continental”, molto continentale. Quando il 6 maggio del 1994 la Regina Elisabetta e il presidente Mitterrand inaugurarono l’eurotunnel sotto la Manica un titolo spiritoso del Times riassunse così la paura dell’omologazione: ”Mamma mia che puzza d’aglio”
Anche l’odore dell’isola –che è il luogo senza storia che dà origine alla storia – è speciale perché è unico. Ed è inutile contrapporre all’aglio del continente l’insularità fritta dei fish and chips mischiati al legno umido dei Piers, dei moli, e delle pietre bagnate da un mare sempre agitato. E c’è pure l’afrore di stalla dei garzoni che ravviva lo spirito di Lady Chatterley, l’odore del cavallo che è ancora l’odore tipico dell’Inghilterra, quello che diventa americano in Martin Eden, l’odore della fatica “dei bifolchi e dei facchini, dei sobborghi sozzi, puzza di verdure andate a male: quelle patate stanno marcendo, annusale, maledizione, annusale”.
La ur-Pflanze, la pianta originaria che Goethe cercava nelle isole, secondo gli inglesi è la rosa d’Inghilterra, “lo splendido odore” con cui si apre ‘Il ritratto di Dorian Gray’, la rosa bianca di York fusa con quella rossa di Lancaster, la rosa dei Tudor a cui si aggiunge “l’effluvio greve dei lillà e la fragranza più delicata dei cespugli dell’eglantina, i fiori del citiso, dorati e dolci come il miele … “. In realtà anche il giardino inglese è nato come una opt-out direbbe l’europeista con moderazione David Cameron, come un’opzione di uscita, qualche secolo prima che da Schenghen e dalla moneta unica, dall’eccesso di geometria dei giardini continentali all’italiana e alla francese: il prato rasato ma libero contro la burocrazia di Bruxelles che imprigiona la bellezza negli arabeschi cromatici.
Il punto è che l’Inghilterra deve, comunque, rimanere isola perché è il luogo che sta fuori dal tempo e dallo spazio, o forse è il punto in cui spazio e tempo si incontrano, un punto senza svolgimento dove tutto si conserva e dove le modificazioni, impercettibili, durano millenni. L’odore del giardino inglese di cui parla Oscar Wilde è in realtà una leggenda della botanica. E il Corgi, il famoso cane britannico che la regina alleva, protegge e seppellisce nel castello di Balmoral, il Pembroke Welsh Corgi che – scrisse spiritosamente il Guardian – “forse the Queen ama più del principe Filippo, dei suoi figli e dei suoi nipoti”, piccolo, goffo, gambe troppo corte e testa volpina, è così strano che forse davvero è l’ur-Hund, il cane originario, il quale somiglia a tutti i cani ma non è un cane. Nelle isole, e tanto più in Inghilterra che è l’isola che non è stata mai invasa, tutte le forme portano tracce di antichità, sono come le ombre della caverna di Platone, e anche gli uomini e le donne sono prototipi e stereotipi di razze dimenticate o superate, con quel tanto di selvatico che affascina i cercatori di sensazioni forti, profonde e sensuali, come quando si addenta una pork pie o come quando il corpo acerbo, forte e nudo di Lady Godiva cavalcava per le vie di Coventry accecando tutti i giovani (tutti i Tom) di Inghilterra. Nell’opera di Mascagni, Lady Godiva è una vittima, nei versi di Bukowski è invece la fonte di ogni ispirazione artistica:”una poesia è una città dove Dio cavalca nudo per le strade come Lady Godiva”.
Dunque il codice mentale dell’inglese è come il Corgi della regina, inattuale e perciò dirompente, sorprendente e scandaloso. Quella isolana è infatti un’umanità speciale perché anfibia: cool, calm and collected (fresca, calma, composta) come la terra saggia e buona del Kent, e al tempo stesso rough, stormy, unruly (agitata, tempestosa, e indomabile) come il mare sconfinato della Land’s End, la punta ovest della Cornovaglia. Aspettando il D-Day Churchill disse a De Gaulle: “Ogni volta che l’Inghilterra dovrà scegliere tra l’Europa e il mare aperto, sceglierà sempre the open sea. E ogni volta che io dovrò scegliere tra te e Roosevelt, io sempre sceglierò Roosevelt”.
E qui si capisce bene come l’insularità possa diventare, anche senza la demagogia di un referendum, libertà o reclusione, che sono gli opposti simbolici di ogni isola del mondo. Nel 1969 tutti i ragazzi della terra si radunarono e si riconobbero nell’isola di Wight, nel Sud dell’Inghilterra: la libertà dell’isola contro i doveri, gli obblighi e le convezioni del continente. Ma l’isola è anche la punizione dell’uomo: Napoleone morì a Sant’Elena; a Ventotene fu fiaccata la dignità di Giorgio Amendola, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Ernesto Rossi…; Paul Gauguin mise in salvo nelle isole Marchesi la fantasia e i colori aggrediti dal grigio fumo della nebbia e delle ciminiere dell’Ottocento europeo. Alcatraz è il contrario di Mikonos, Guantanamo è il contrario della Key West di Hemingway. E però sempre i contrari sono complici. Ed è infatti questa doppia faccia della separatezza insulare a rendere gli inglesi così aperti e al tempo stesso così chiusi: l’isola è il mondo, è il luogo di ogni utopia (Thomas More), ma è anche il piccolo posto segreto dove si conserva la ricchezza, l’altrove dei dobloni che confortano il grigio continente, ‘l’Isola del Tesoro’ come fierezza di essere diversi, necessari al mondo proprio perché unici e migliori , come vuole il paradosso di quel poeta veneziano, Mario Stefani, che scrisse un libro intitolato: “ Se Venezia non avesse il ponte, l’Europa sarebbe un’isola”.
Chiuso il referendum, stamani ogni inglese che si è guardato allo specchio si è comunque ritrovato più orgogliosamente inglese. Al di là del risultato, infatti, il rito del voto sull’identità ha rilanciato l’Inghilterra che celebra in se stessa l’isola-mare come il luogo della libertà e della civiltà occidentali, l’ unico spazio d’Europa davvero transnazionale, il fuori mano e l’eccezione assunte come forza. E’ l’Inghilterra che ogni anno a Portsmouth rende onore alla Victory di Nelson rispettata come una chiesa. Gli inglesi credono infatti nel mare aperto, che è la sostanza della loro storia, e hanno in Nelson il vero eroe nazionale, il piccolo ammiraglio il cui cadavere fu conservato dentro un barile di brandy, l’uomo con un braccio solo, cieco da un occhio, goffo sulla terra e bellissimo in acqua, maldestro, imbranato e isterico in porto, ma intelligentissimo sulla nave che è sempre inglese perché è l’isola che va per isole, governata da un comandate che ne traccia la rotta e non può mai abbandonarla. La nave, dove libertà e reclusione coincidono perfettamente, è il luogo in cui l’inglese si illude di sentirsi più vicino alla propria origine. Scrisse Stevenson: “Noi inglesi abbiamo la pretesa che il mare sia inglese. Anche sotto i cannoni e negli spazi più ostili delle nazioni straniere e lontane, sul mare siamo in patria. E’ il cimitero dove i nostri avi riposano aspettando le trombe del giudizio universale, il nostro accesso al mondo e il nostro baluardo”.
Ci voleva davvero un referendum, così terribile e appassionato, perché l’Inghilterra tornasse a proporsi come laboratorio dell’Occidente, lo scrigno dei suoi valori, la banca delle risorse del navigatore cosmico, dell’ isolano primordiale che è l’ uomo del futuro, dell’inglese come pirata d’Europa. E’infatti l’insularità che ha trasformato la pirateria in civiltà . Il pirata, senza l’isola che gli è solidale, non sarebbe mai esistito e mai potrebbe esistere. Il pirata e l’isola sono come l’astronauta e le stelle.

8 thoughts on “L’ISOLA DELLA LIBERTA’, L’OPEN SEA CHE MAI SI FARA’ ADDOMESTICARE Vince l’ Inghilterra di Nelson

  1. Tarantintino

    Si, non è male, ma serve troppo tempo per decifrare la semantica (e ammesso che ci si riesca).

    p.e.
    “Ogni volta che l’Inghilterra dovrà scegliere tra l’Europa e il mare aperto, sceglierà sempre the open sea. E ogni volta che io dovrò scegliere tra te e Roosevelt, io sempre sceglierò Roosevelt”

    Un Merlo senza parenti inglesi avrebbe fatto presente che l’open sea è oggi troppo affollato, e che oggi tocca scegliere Xi Jinping nonostante le preferenze (e nonostante l’ardua scelta fra Clinton e Trump).

  2. Wilma Giglini

    Remarquable, direbbero i francesi: lavoro, pensiero, esperienze (e scelte) di vita. D’ora in poi cercherò di seguire più attentamente il suo percorso professionale, nella vastità per tutti noi mai compiuta dell’ “Isola del Tesoro”. Congratulazioni, con un po’ di amichevole invidia
    Wilma Giglini, classe 1951

  3. Silvia

    Grande Merlo! Fine conoscitore del mondo anglosassone …Frequento la Gran Bretagna da una vita,ho amici inglesi da 30 anni e ancora mi stupiscono e mi lasciano interdetta. Come mi rispose una volta il mio carissimo amico JOHN alla domanda:”Ma insomma xche’non adottate il nostro sistema decimale, la nostra moneta..?”,”Well darling,we like to stay as we are…”

  4. antibaroccobarocchiano

    ”Well darling,we like to stay as we are…”
    …prego signore stia comodo, grazie.
    Lettura che non arriva al fondo della scrittura: barocco, barocchissimo, barocchiano.
    D’istinto mi viene da dire pacchiano.

  5. Bancor

    Articolo di un finissimo conoscitore del mondo anglosassone, che conoscevo soli come altrettanto fine conoscitore del mondo italico.
    Piacevole scoperta che, da buon conoscitore del mio mondo italico e davvero superficiale frequentatore del solo mondo inglese (e neppure britannico), mi induce a pormi una domanda: noi conosciamo bene le nostre manchevolezze, come popolo e come comunità, gli inglesi conoscono le loro, ma poi ne avranno di difetti pure loro?
    Certo che io sono un orecchiante della lingua, neppure la intendo bene per assenza di pratica e incosciente sordità, la parlo a fatica, la leggo con piacere, e voglio esprimere la mia ammirazione per aver reso così plasticamente gentile un termine, rough, che dizionari monolingue come l’Oxford, o ancor più il Collins, definiscono in modo assai più diretto e, se mi si consente, verosimile.
    Complimenti, comunque; è stata una lettura interessante che ha ampliato le mie percezioni del significato di essere britannico e isolano, costituendo quest’ultima appartenenza il 50% del mio materiale genetico.

  6. Bancor

    Mi scuso per alcuni errori di digitazione e dovuto a impropri interventi del correttore automatico. Spero che non incidano sul senso di quanto volevo esprimere.

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