UMBERTO ECO, FUNERALI DI PIAZZA E DI GOVERNO

MILANO – L’ingresso era a inviti. I posti ambitissimi, a numero chiuso, erano stati assegnati da un cerimoniale di piazza e di governo: vigilantes e corazzieri, allegria e sussiego. Umberto Eco conosceva e sorrideva dell’Italia della buonanima che celebra il morto per rubargli la vita: “Nanifica il defunto che magnifica” diceva. Aveva immaginato per sé “un funerale sobrio e veloce”, ma sapeva che è impossibile fermare la strategia vampiresca, laica o cattolica che sia, di annettersi le spoglie, il tentativo di rubare al caro estinto un po’ della sua grandezza.
Nessun dovrebbe mai sostituirsi ai morti ma io mi prendo la responsabilità di dire che avrebbe ascoltato con fastidio le parole impettite del ministro Franceschini, “grazie maestro per avere guardato tutta la vita fuori da quella finestra per tutti noi”, e del ministro Giannini, “carissimo professore, questo non è un addio, abbiamo perso un maestro e un amico ma non la sua lezione”. Fissandoli con indulgenza con quei suoi occhi scuri che lanciavano sguardi sulfurei di sotto in su, il professore di Semiotica li avrebbe bocciati, ma forse anche perdonati. E con loro anche i vigili urbani, la municipalità che pure solitamente non è così retorica: “sei stato e sarai – ha declamato Pisapia – il grande orgoglio per l’Italia intera e noi vogliamo tenerti stretto perché ci mancherai”.
Si sarebbe invece allegramente commosso, Umberto Eco, per l’atteggiamento scanzonato e composto della folla che ieri, al Castello Sforzesco, si accostava e si ritraeva rispettosamente, offrendo alla cerimonia un carattere di gioco di piazza, proprio sotto casa sua: i post it “addio prof”; i cinesi in fila che, aspettando il varco, leggevano il Nome della Rosa; tante belle facce di adolescenti, come il nipote Emanuele, 15 anni, che l’ha salutato così: “Grazie per le parole crociate che abbiamo fatto insieme”. Un anziano mi dice: “Noi vecchi, grazie a questo funerale, per oggi non siamo andati al parco”. Molti per entrare dichiarano il falso: “Siamo compaesani di Eco, veniamo da Alessandria”. Qualcuno mostra il tesserino da invalido: “La prego, mi fa male il piede”, e il vigilantes: “Vuole anche la sedia?”.
Eco avrebbe riservato le sue battute irriverenti a questa folla amica e non ai politici vampiri, perché, come Mangiafuoco starnutiva per non piangere, così lui truffava l’emozione con il riso. Tra tutti i grandi che hanno scritto sul riso, dal disperato Pirandello al triste Bergson al maledetto Baudelaire, Eco era l’unico che lo praticava pure. Quando vidi per la prima volta sua moglie e gli dissi che era bellissima, una ottantenne leggera come una fata celtica, cercò la battuta, il contravveleno che per una volta non trovò: “Se la cava, siamo sposati da più di cinquant’anni”. Dei due solo lei aveva i lineamenti dell’intellettuale: “Io porto la barba per cercare di nascondere la faccia”.
Sicuramente il professore avrebbe promosso gli amici che l’hanno ricordato con festosità: Furio Colombo, che giustamente è stato il più applaudito; il jazzista Gianni Coscia, che piangendo gli veniva da ridere; Moni Ovadia, che ha raccontato una barzelletta troppo yiddish e troppo lunga ma ha azzeccato il saluto: “Ti benedica Dio che sopporta i credenti e ama noi atei”.
Di loro, degli amici carissimi, Eco diceva: “Stanno sempre tra i piedi, non riesco mai a mandarli via”. Ancora oggi sono una specie di clan, una sorta di “massoneria econis” con un codice segreto per comunicarsi le notizie che lo riguardano, segnalarsi l’un l’altro le sue mosse e i suoi spostamenti. Hanno
una liturgia che Eco accettava con grazia selvatica e con amore. Tra loro, Roberto Benigni è stato il più notato e non solo perché morettianamente non è intervenuto. A Repubblica Tv ha detto: “Ci volevamo bene, quando compariva lui era un luccichio, come un vento che faceva bene al mondo”. E poi (attenti a queste parole): “Non aveva niente di speciale se non che, quando arrivava lui, era tutto speciale”.
Nella casa di campagna dove Eco si ritirava, nel paese di Monte Cerignone, una specie di Alcatraz marchigiana, sotto il portico dove l’attenta donna che lo accudiva, la signora Teresa, metteva in tavola i cappelletti in brodo e le frittelle di cavolfiori e le polpette, si apre una finestra costruita come un palcoscenico per le marionette. E
tra quei burattini ho visto un Wojtyla, un Occhetto e un Bin Laden. Eco infilava la mano dentro un corvo con bastone e cappello di paglia e accennava il motivo di ‘Winchester Cathedral’. Raccontava: “In genere il teatro dei pupi lo facciamo, io e mia moglie, per un pubblico di bambini. Ma lo abbiamo fatto
anche per i grandi, con i contadini. E a volte con le luci di Gae Aulenti, e con Roberto Benigni che è speciale perché quando arriva (ndr.: attenti alle parole che sono l’amicizia allo specchio) rende tutto speciale”.
“I comici – diceva ancora – sono i soli da cui gli italiani prendono lezioni di morale. La politica infatti non ci riesce più. Altan è uno dei più grandi moralisti italiani. E anche Giannelli. Infatti Renzi ha molta più paura di Crozza che di Salvini”. Ma soprattutto Benigni, che sfida le cattedre dei cosiddetti grandi pensatori, gli pareva un formidabile caso italiano, ben difficile da spiegare agli stranieri, persino agli americani che pure hanno avuto Reagan: “E infatti in America le cose che dice Woody Allen sono di meno effetto delle cose che dice Obama. Benigni è a metà tra i Fioretti di San Francesco e Bertoldo Bertoldino e Cacasenno”. Concludeva che oggi “le Brigate Rosse non rapirebbero Aldo Moro ma Benigni”. Ed era più che una battuta, era uno dei suoi pensieri spettinati, così veloci e pieni di intelligenza, con il fascino dell’enciclopedico gioioso, dell’erudito popolare che privilegia la conversazione alla conferenza.
I sacerdoti di questo funerale, dove non c’era religione ma tanta religiosità, sono stati Mario Andreose ed Elisabetta Sgarbi. Lui è il custode della parola di Eco, lei ne incarna l’idea di editore, “un mestiere che non si impara”. Nell’Italia della buonanima c’è ora chi racconta inediti che nessuno potrà smentire, chi pubblica interviste postume, dichiarazioni incontrollabili. Facebook è il tempio di queste amicizie in esposizione, delle relazioni e delle memorie presunte. Ebbene, in questa spesso volgare esibizione di confidenza con il morto, Elisabetta Sgarbi non concede nulla all’aneddotica. Promette che la Nave di Teseo ce la farà anche senza di lui: “Eco mi diceva: è fondata da me, ma non su di me”.
Il giorno in cui salpò, da casa Sgarbi, la nuova casa editrice tirai Eco per il cappotto per costringerlo a mettersi in posa in quella foto di gruppo che è l’immagine scolastica di un bellissimo momento italiano. Era già malato ma non intristito, il bastone non era solo di fatica ma anche di comando. “Invecchiare è bellissimo” mi disse: nessun cedimento, nessuna concessione al declino, nessun accenno di rimpianto. Avevamo fatto un’intervista sul “morire dal ridere”, sulla risata di Dio: “Ridere non salva l’uomo dalla morte, ma lo aiuta”. E avevamo ricordato quando conferì la laurea in goliardia a Renzo Arbore nell’aula magna di Bologna. “Il suo clarinetto – cominciò Eco – è un classico del doppio senso”. E Arbore: “Anche il suo pendolo, che va di qua e di là perché non ce la fa”. Poi Eco fece ad Arbore una domanda di italiano: “Che tempo è “sarebbe stato perduto”?”. Esitazione, trambusto, e quindi la risposta giusta: “Preservativo passato”. Ecco: c’è un po’ di Eco in Arbore come c’è un po’ di Croce in Eco: l’alto e il basso nella storia d’Italia.
Anche al Cimitero Monumentale, dove lo porteranno, riposano l’alto e il basso, Manzoni, Toscanini e Quasimodo accanto a Gaber e Jannacci, vicno a Crepax: l’accademia e il pop che l’inquietudine di Eco aveva maritato.
Archiviato il funerale bisognerebbe cominciare a studiare, oltre i suoi libri, anche quella sua inquietudine. E, perché no? pure la sua vita così mossa.

3 thoughts on “UMBERTO ECO, FUNERALI DI PIAZZA E DI GOVERNO

  1. Giovanni Galli

    Caro Merlo,
    ho sempre apprezzato i suoi articoli, sia per il contenuto che per lo stile. Mi dispiace che nell’articolo odierno sui funerali di Umberto Eco anche lei sia caduto nel tranello dei vigilantes e dei murales, plurali spagnoli usati al singolare commettendo due errori in un colpo solo, dal momento che, come scrivono i testi di grammatica, in italiano le parole straniere non si usano al plurale ma solo al singolare…
    Grazie comunque per il suo impegno.
    Giovanni Galli

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