Nelle Moschee non c’è solo preghiera A CACCIA DI DEMONI NEL SOTTOSUOLO DI ROMA

Tra un versetto del Corano e un “Subhana Rabbiya al-‘Adhim, gloria al mio Signore l’Immenso” mi indicano con il dito “il tunisino”, e poi “l’albanese”, ma pure “il pita” che in arabo sarebbe “il pagnotta”. Mi mostrano gli estremisti, insomma, che qui a Roma qualche volta hanno la barba ma sempre hanno un soprannome. “E non è detto che l’ironia li renda meno pericolosi o solo meno minacciosi” mi dice un autorevole poliziotto che conosce bene la Roma mussulmana. E dunque Alì, che sta inginocchiato al mio fianco e fa il commesso al supermercato arabo di Centocelle, mi assicura che “quello lo chiamano ‘il binloden’, perché è un intransigente che d’inverno indossa un cappottaccio verde “.
A caccia di demoni prego dunque con i mussulmani nel sottosuolo di Roma, accovacciato su vecchi tappeti stinti in piazza Vittorio, in angusti locali senza finestre, tetti bassi e odori forti di povertà speziata che i ventilatori aggravano: sudore, piedi nudi e jalabbie colorate. E mi sono inginocchiato a Centocelle, alla Magliana e a Torpignattara sempre davanti a un muro nudo, ma con la testa rivolta verso la città santa perché la Mecca è una parete sbrecciata in queste brutte banlieue che sono sempre più arabe, africane, asiatiche e indiane, pur rimanendo romane. Qualche volta in queste moschee di quartiere c’è la nicchia triangolare che non ha però funzione di altare ma di segnaletica stradale, e c’è sempre almeno un orologio mondiale che indica, in tutti i fusi del pianeta, l’ora esatta dell’appuntamento con Allah.
“Come sentito tu, dopo preghiera?” mi chiede un sudanese, enorme, scuro e sorridente. Gli vorrei chiedere dei dervisci, ma lascio perdere perché mi sembrerebbe di far parte di quella nuova sapienzialità orientalista italiana che, dopo avere letto due libri e fatto tre viaggi (due virtuali sul web) esibisce un insaccato misto di esotismo. E nei talk show e sui fogli estremisti, tra islamofobi e islamofili, è tutto un darsi dell’ignorante, tutto un bue che dice cornuto all’asino, straparlando e qualche volta stracantando di Sufi e Wahabiti e Yazidi… e appunto dervisci.
Ieri era venerdì, il giorno della festa comandata, e da mezzogiorno all’una la preghiera verso l’orizzonte del muro nudo è diventata una parata antiterrorista soprattutto nella Grande Moschea, la più grande d’Europa, che la perfida intelligenza di Andreotti volle al confine del quartiere Parioli in perfetta sintonia con l’arguta ambiguità della politica filoaraba di quel tempo democristiano e socialista: la fecero con i soldi stranieri, soprattutto dell’Arabia Saudita, ma non visibile dal Vaticano e soprattutto difficilmente raggiungibile . Disegnata dall’architetto del postmoderno, quel Paolo Portoghesi che disse “il post moderno in Italia è Craxi”, la Moschea è una specie di astronave che vuole sintetizzare nientemeno il barocco romano e le curve dell’ Oriente, Borromini e Maometto. Dunque è brutta e spesso anche vuota:”per i musulmani di Roma è più lontana della Mecca” mi dice Omar che mi spiega perché, a parte il venerdì, la Grande Moschea è poco frequentata: “Noi mussulmani preghiamo cinque volte al giorno. Ebbene, un immigrato che abita in periferia, dovrebbe prendere almeno tre autobus o il treno per venire a pregare ai Parioli”. Il segretario di questa Grande Moschea, il marocchino Abdellah Redouane, ammette che “anche per questo nascono le moschee di quartiere. Negli ultimi quattro anni sono salite da 18 a 50”. Chi le controlla? “ Ciascuno per sé. Provi ad andare a Tor Pignattara, dove ci sono 4 moschee. Sembra di essere a Kandahar. Lì la comunità islamica è soprattutto del Blangadesh. Ebbene, chi capisce cosa dicono nel sermone del venerdì che è pronunziato in bengalese?”.
Il venerdì della Grande Moschea si consuma con una condanna del terrorismo pronunziata in arabo da un professore della scuola saudita di Roma che fa funzione di Imam in attesa che l’università del Cairo nomini il titolare. Almeno quindici moschee hanno concordato lo stesso sermone: il tema della misericordia come omaggio al giubileo, e la condanna del terrorismo appunto, breve ma netta. La sala si riempie lentamente. Le donne, poche, stanno nelle navate laterali. C’è qualche bambino, ma sempre con il padre e mai con la madre. Tante Mercedes nere con i vetri scuri scaricano gli ambasciatori e i funzionari dei tanti Corpi Diplomatici. L’estetica è il famoso kitsch arabo, non sfoggio indecente ma voglia di ritrovarsi senza regole. Nella Grande Moschea come a piazza Vittorio e a Centocelle gli occhi scuri rivelano la famosa infelicità araba sulla quale hanno scritto in tanti, da Robert Lewis a Samir Kassir, la nostalgia come bisogno di riappropriarsi di un destino.
Prima di pregare, i fedeli si lavano il viso, le braccia e i piedi. Sul tappeto c’è un tipo con la jalabba bianca che si lava i denti con uno spazzolino elettrico. Gli chiedo perché. “Per purificarmi” mi risponde guardandomi male. Nella Grande Moschea le pareti sono fitte di mosaici marocchini, ornamenti ad intarsio di pieni e di vuoti, le grandi colonne barocche sono a capitello rotondo, i lampadari sono grandi cerchi di ferro e i tappeti di Damasco. In italiano la condanna del terrorismo viene letta da Mustafà, un pediatria egiziano. Per noi che guardiamo non c’è ostilità ma neppure calore. Quando invece arrivo a Tor Pignattara, che ai tempi di Pasolini i romani chiamavano Topigna e ora chiamano Banglatown, mi accolgono con più diffidenza e mi invitano a cercare i mitra sotto i tappeti. Poi racconto di conoscere alcune insegnanti della Carlo Pisacane, la scuola rovesciata dove l’Italia è l’altro mondo, tanto che diversi genitori italiani ritirarono i propri figli per mandarli nelle scuole dei quartieri vicini. Alla fine beviamo un the di pace. In tre giorni me ne hanno proposto almeno trenta tipi, diversissimi sapori che ogni volta e per trenta volte sono “il vero the”, un numero comunque minore delle autentiche interpretazioni dell’Islam che, anch’esso, ogni volta, “è il vero Islam, uno solo”, come il the.
Ne ho la prova mettendo a confronto Omar Camiletti, che della Grande Moschea è una specie di portavoce laico, con Ben Mohamed Mohamed che è il presidente della Moschea di Centocelle, un tunisino del partito islamista Ennahdha, la Rinascita: esegesi che spaccano in quattro i quattro capelli di ogni versetto, la vita del Profeta, le metafore celesti … E le donne? Ho la conferma che Omar non picchierebbe mai sua moglie. Anche il tunisino non picchia, ma capisce,distingue, spiega …: può mai essere giusto picchiare la propria moglie? Ben Mohamed ha un grande seguito e da tutti viene trattato da sapiente: “Io non avrei esitazione a denunziare alla polizia un eventuale estremista che venisse qui a fare propaganda per quelli dello Stato islamico. Ma la rabbia dei musulmani ha delle buone ragioni e voi giornalisti siete bravissimi a fabbricare mostri da esibire in tv”. Quanti mostri potrei “fabbricare” nella sua Moschea? “Molti. Parlano malissimo l’italiano, basta isolare un’idea aggressiva, una rabbia …”.
Rabbia mussulmana? Sono stato due volte nella stessa moschea e ogni volta c’era un bel ragazzo bruno evidentemente drogato che durante la preghiera vacillava senza mai cadere né da un lato né dell’altro. Questo ragazzo mi dice: “Che sei venuto a fare? Vuoi condannare qualcuno? Devi perdonare”. Anche quelli che ammazzano? “Sì, soprattutto loro”. Gli altri mi dicono: “Guarda che quello è italiano”. Le moschee di quartiere sono rifugi, templi per credenti ma anche alberghi per sbandati. C’è un vecchio del Bangladesh con la barba che gli arriva in fondo la collo. Non parla italiano, e neppure inglese o francese. La moschea è la sua patria, il luogo d’Italia più vicino a casa sua, più dell’aeroporto.
Mi aveva detto il poliziotto: “Forse dopo le moschee potresti fare un giro nei bar, che a volte sono scuole coraniche improvvisate, come gli ospedali da campo”. E infatti in un bar di Centocelle ritrovo “il pita, il pagnotta”, che fatica un po’ a lasciarsi andare. E’ tunisino di madre ed egiziano di padre e dice di odiare l’Occidente che “si spaccia per libero e democratico ma prima ha armato e poi ammazzato i peggiori dittatori del mondo arabo, Gheddafi, Saddam Hussein, Assad e quel mafioso di Ben Ali…” . E’ questa la rabbia di cui parlava Ben Mohamed Mohamed? “E’ questa” mi dice Omar ,che mi porta al fast food musulmano a mangiare la carbonara con il tacchino al posto del guanciale. Poi, sazio, si slaccia la cintura e, in arabo, dice al padrone: “Sto scoppiando …, scappate”. E quando gli chiedo perché i mussulmani vanno a tagliarsi i capelli solo dai barbieri mussulmani, al punto che a Centocelle c’è un salone pure dentro la moschea, mi si avvicina all’orecchio e mi dice in gran segreto: “ Noi li tagliamo senza anestesia”.

7 thoughts on “Nelle Moschee non c’è solo preghiera A CACCIA DI DEMONI NEL SOTTOSUOLO DI ROMA

  1. Aldo Nicosia

    Bravo Francesco,
    splendida cronaca, ottimo giornalismo, che tuttavia descrive e definisce una grande distanza sociale, culturale e civile. Ne riparliamo dopo aver letto l’opera futura di un Voltaire d’oriente.

  2. Paolaspera

    Articolo interessantissimo ma non ho capito i “capelli tagliati senza anestesia” . Vorei la spiegazione. Grazie. Paola

  3. angelo libranti

    Questi non si integrano e non si vogliono integrare. Ci disprezzano ma vengono qui, mica vanno in Arabia Saudita, dove pure ci sarebbe ampio spazio per loro, per cui è lecita la teoria che vuole i musulmani alla conquista dell’occidente.
    Saggezza imporrebbe l’allontanamento di tutti quelli che non hanno fissa dimora, un lavoro riconosciuto e che non conoscono l’italiano, ma siamo un popolo libero e accogliamo tutti senza renderci conto che offrendo la mano si finisce col perdere il braccio e tutto il corpo.
    Nella tiepida dimostrazione a piazza SS.Apostoli abbiamo ascoltato frasi fatte, luoghi comuni; nessuno si accende di fronte alle barbarie dei terroristi e nessuno ha cantato la marsigliese in segno di profonda solidarietà.
    Merlo qualcosa ha capito e ci fa la cronaca di quello che ha visto, probabilmente si pone le stesse domande
    che si pongono i realisti a prescindere del partito di appartenenza.

  4. Marco Sostegni

    Caro Merlo,
    ma negli anni passati c’è stato una sorta di “controllo “? o si è lasciato perdere?
    Mi interessa la risposta “Come sentito tu, dopo preghiera?”
    Sempre complimenti

  5. Ernesto marra

    Gentile sig. Merlo, mi è capitato oggi di ritrovare tra le mie cose una fotocopia del suo articolo del 17 febbraio 2010 dal titolo “il festival della finzione” … Un articolo che riguarda il settore in cui lavoro da anni.,. Ri leggerlo mi ha ricordato il motivo per cui lo avevo conservato . Complimenti. Un grande

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