1945-2015 La Città che visse due volte HIROSHIMA 70 ANNI DOPO LA BOMBA: “SIAMO IL MONDO DOPO LA FINE DEL MONDO”

HIROSHIMA
Nell’ospedale dei sopravvissuti alla bomba, nel ricovero degli hibakusha, ne vedo trecento in una volta: la più vecchia ha 103 anni, il più giovane 79. Sono quasi tutte donne, con le facce bellissime e i corpi segnati. Mai tra di loro parlano della bomba che li unisce. “Sono i soli vecchi del mondo che nella vecchiaia si nascondono” dice il professore Mikada che li cura.
Gli hibakusha, spiega il vecchissimo Tazuko, “non hanno permesso che dalle vittime nascessero sempre e solo altre vittime”, che “la bomba continuasse ad esplodere il 6 agosto di ogni anno” finché un giorno, dopo settant’anni, “la gente si sarebbe annoiata di questo deserto senza vita dove la più alta sapienza dell’umanità aveva messo in scena la prova generale della fine del mondo”. Era infatti questa la profezia: ‘Per almeno 75 anni a Hiroshima e a Nagasaki non crescerà niente, nemmeno l’erba’.
E invece è bella Hiroshima perché non somiglia a Hiroshima. E’ bella perché anche gli occhi di Tazuko, che ancora piangono il neonato che sua moglie “mise al mondo coperto di lividi e senza braccia”, non si limitano più a srotolare il tempo a ritroso: “Guardo i posteri che mi camminano accanto e mi piacciono i figli di nuovo felici di Hiroshima. So che hanno superato il milione e non hanno più l’ossessione di contare i leucociti. Non tengono più sotto sorveglianza i globuli bianchi come il pentolino di latte che scalda al fuoco. Forse abbiamo restituito a Hiroshima il diritto di morire per cause naturali. Forse”.
E però proprio qui, in questa bella Hiroshima che non somiglia a Hiroshima, il 6 agosto il Giappone tornerà a somigliare al Giappone. Dopo settanta anni, il primo ministro Shinzo Abe verrà a celebrare la pace preparando la guerra. Verrà a dire, nella Città della Pace, che il Giappone non è più “pacifista passivo”, ma è “pacifista attivo”, che l’ esercito non sarà più inoffensivo e guai a chi ci prova, a partire dalla Cina e dalla Corea del Nord. Abe verrà a commemorare le vittime e per la settantesima volta chiederà scusa al mondo per i crimini di guerra, ma per la prima volta avrà accanto i generali di un esercito con il diritto di combattere, se ce ne fosse bisogno, anche fuori dai confini nazionali. La morte della Costituzione pacifista, che fu imposta dagli americani al Giappone sconfitto, rende davvero speciali i riti del 6 agosto di Hiroshima. Tanto più che Abe, il quale vorrebbe che il Giappone tornasse fiero del proprio passato, è anche il più strenuo sostenitore del rapporto con l’America che su Hiroshima sganciò la bomba. Ecco: poiché la Storia mai sceglie a caso il tempo e lo spazio dei suoi momenti fatali è Hiroshima che bisogna capire per provare a spiegare il momento fatale.
Akiko, un altro dei sopravvissuti, dice che “quel cumulo di rovine e quella terra bruciata erano ancora Hiroshima, ma ora mi succede di non ritrovarmi , mi sembra di non essere dove sono”. Akiko, che ha visto “centinaia di uomini gettarsi nel fiume e morire bruciati perché l’acqua li accendeva invece di spegnerli” un giorno si è seduto a prendere il caffè in un angolo del Boulevard della Pace: ”Questa è la strada dove siamo scappati, lì sono inciampato in un cadavere. E ora guardo la gente camminare contenta, i giovani chiacchierano e i vecchi avanzano sicuri, i bambini scappano dalle mani dei genitori, e poi le vetrine, i grattacieli che sembrano le nuove divinità dell’aria: dove sono finito? Davvero è successo qui? O sono diventato un’ombra anche io, l’ombra del me stesso che la bomba ha distrutto?”.
Le ombre – ombre vere – sono esposte al Museo della Pace: “Il calore fu tale che sparirono i corpi e rimasero le ombre: questa è l’ombra di una mano su un vetro, questi sono il bacino e le gambe di un uomo che stava seduto”. Me le mostra Mari Shimura, la bella signora giovane ed esperta che da più di venti anni raccoglie gli oggetti delle vittime, scrive la loro storia e li espone: uno zaino bianco macchiato dalla pioggia nera, unghie che ancora trattengono la terra alla quale si aggrapparono, una camicetta sbrindellata, i ciuffi di capelli che ‘il mostro’ staccava dalle teste, i famosi origami della piccola Sadako, un thermos, il triciclo di un bimbo di tre anni che il padre aveva sepolto insieme al corpicino, un cancello divelto, l’infradito di Miako e l’orologio di Kengo fermo alle 8,35, l’ora in cui Paul Tibetts, il disgraziato carnefice americano di 29 anni che pilotava il B29, sganciò l’ atomica, il ‘little boy’ :”Ce li portano i familiari, è tutto quel che hanno di quei morti, vogliono farli vedere al mondo e vogliono spaventare il mondo”. Ma davvero una divisa di scuola riassume la vita di una ragazza? E come possono la foto di un viso e il ricordo di un gesto trasmettere il senso di una persona? “Non possono. Gli oggetti rimangono oggetti, ma permettono di dare alla morte un nome e un cognome. Le famiglie cercano di impedire che i morti siano numeri, segmenti di un diagramma. Soprattutto vogliono fermare le altre bombe. Lo Spirito di Hiroshima è facile da sintetizzare: mai più un’altra Hiroshima”.
Perché ci sono solo cinque fotografie di quel giorno? “E’ difficile dirlo. C’erano le macchine fotografiche, ma nessuno le usò. E intervenne pure un fotoreporter. Ma scattò solo cinque foto. Disse che non se l’era sentita, che l’orrore non era ‘fotografabile’“. Dov’è adesso? “E’ morto”.
Più che un museo è un’enciclopedia di lapidi, un sacrario. Certo, non c’è. il diluvio atomico nella riproduzione del lampo e del fuoco. E non c’è la morte, in un solo giorno, di 150000 persone nel plastico dei cadaveri che galleggiano nel fiume. E somigliano a reperti dell’antichità i marmi, i cancelli e i parapetti dei ponti divelti che schizzarono in aria come palloni. E cos’è quel bottone esposto come una reliquia? Leggo la storia di Kotaro che d’istinto si gettò tra le braccia del padre che bruciava. Un attimo prima di bruciare con lui, Kotaro perse un bottone che molti mesi dopo la madre riconobbe. Ecco: immaginando Kotaro che si gira di scatto, quel bottone cessa di essere un simulacro e diventa davvero l’ ultimo istante della vita.
Ci sono tutte le sapienze del nonsense in quel migliaio di aghi da cucito fusi in un solo indecifrabile ammasso e in quella bottiglia di vetro deformata e annodato dal calore. Forse avevano ragione i memorialisti russi che volevano leggere la storia mondiale raccogliendo tutto quel che si trova sui marciapiedi della terra, i geroglifici sulla superficie del mondo. Forse, per capire Hiroshima, non c’è nulla di meglio del cestino per il pranzo del piccolo Toshio con dentro il riso carbonizzato. E forse, come nelle sale di un museo egizio, le ombre sono anime imprigionate. ”No, l’ombra è il riposo dello spirito” mi replica Mari Shimura. Per noi danteschi l’ombra è l’anima in pena, per Borges è il grigio della vecchiaia felice, per i giapponesi l’ombra è quella lodata da Tanizaki, “il contrario della luce occidentale che uccide”.
Compensate i familiari che vi cedono queste memorie? “Assolutamente no. Qui non c’è commercio. Anche il biglietto costa pochissimo”. In quale università d’arte insegnano a conservare le ombre? “In nessuna”. E Mari Shimura ammette: “Ci fu un grande dibattito a Hiroshima su come colmare l’abisso che divide chi ha vissuto l’Olocausto dell’atomica dal resto del mondo. Ancora oggi c’è chi non sopporta di diventare un simbolo o una metafora e vorrebbe il silenzio, vorrebbe che nessuno si appropriasse dei luoghi e dei ricordi”. Questo Museo , al contrario, crede nella memoria. “Mi sono laureata in arte all’università di Osaka, ma è qui che sono nata e già da ragazzina mi appassionava l’idea di proteggere le ombre di Hiroshima”. Con quale tecnica? “Calore, umidità, scienza e…passione”. Una passione speciale? “A Hiroshima tutto è speciale”.
Eccola di nuovo, la bellezza di Hiroshima: un capolavoro di natura e di umanità restaurate, che quanto più esprimono la vita tanto più mettono in risalto l’enormità della tragedia, come gli oleandri che tornarono a sbocciare già nel 1945. Anche quei petali rossi irritarono e offesero alcuni degli hibakusha: “mi ricordavano le fiamme” dice Naija che ancora adesso ad ogni estate si ammala di niente.E’ la stessa storia della zia Yaeko , resa famosa dal racconto di Daisaku Ikeda (‘Il quaderno di Hiroshima’): “Quando arriva questa stagione, anche se non ho la febbre, sento come un flusso di sangue alla testa”. Ikeda è il leader della setta buddista Soka Gakkai, anti nuclearista e pacifista ma alleata del governo neo militarista, dodici milioni di adepti (che diventano 8 milioni di elettori), un enorme patrimonio in danaro difficilmente valutabile: questi religiosi al potere, con il loro strano Budda pacifista di destra, sono un altro scherzo del tempo e del luogo. Anche perché, tra i pochi miracoli di quel 6 agosto 1945, c’è un Budda di legno che rimase intatto in mezzo al fuoco e che ora viene onorato in una teca tra le preziosità botaniche del parco di Shukkeien tutto rifatto. Ma c’è anche il ritratto dell’imperatore,”che fu ‘salvato’ e portato al fiume, in mezzo ai morti e ai feriti che gli fecero spazio”. E poi ci sono gli alberi, i famosi ‘gingko’ che sopravvissero alla bomba. Catherine Deneuve riuscì a farne piantare uno in piazza dell’Alma a Parigi. Il gingko è la pianta virile della tenacia e del coraggio. Per i giapponesi è il simbolo di Tokio, per noi italiani è il nome dell’ispettore che non si stanca mai di sfidare l’invincibile Diabolik.
Hibakusha è una delle tante parole che, come gli oleandri, nacquero qui ad Hiroshima, una parola per non dire ‘superstiti’, ‘sopravvissuti’, ‘scampati’. Hibakusha sono coloro – è il significato letterale – ‘che non morirono, ma furono esposti alle conseguenza della bomba, non necessariamente fisiche’. Sono “coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo” ha scritto il premio Nobel Kenzaburō Ōe. Settant’anni fa non tutti gli hibakusha odiarono gli oleandri. A molti di loro gli oleandri insegnarono a riprendersi la vita.”Avrei preferito suicidarmi pur di non diventare un rubinetto stanco dal quale ininterrottamente cola giù un filo d’acqua” racconta Shozo che spesso è immobilizzato a letto e aveva tredici anni quando perse la famiglia. Della madre non ha mai detto “è morta” ma sempre “si è perduta”. Vide invece il padre ritornare a casa con la pelle che gli cadeva a pezzi anche dal viso: si gettò a terra dicendo che aveva freddo e sete e morì sei ore dopo. Shozo, singhiozzando, gli strofinava cetrioli sulla testa infuocata.
Ma non usava i cetrioli perché era un bambino inesperto che si improvvisava infermiere. “Con il cetriolo i medici ‘curarono’ le prime vittime” mi spiega il famoso professore Kamada, lo scienziato che dirige gli ospedali degli hibakusha: “Usarono anche un’erbetta che somiglia al té. Non capivano le ferite, non sapevano dell’atomo. Prima della bomba c’erano 292 dottori su 350.000 abitanti. Ma il 90 per cento morì. Gli altri fecero quel che potevano, cioè niente. Con i corpi dolenti i loro malati si sdraiavano per terra mormorando:’Sto male, ma l’ho scampata bella’. E tutti si congratulavano con loro perché erano sopravvissuti. Poi il corpo si riempiva di macchie e di pustole, i capelli cadevano… E morivano ”.
Il professore Kamada, 80 anni, ha passato la vita a studiare il sangue degli hibakusha. Lo incontro nell’ospedale appunto, a una ventina di chilometri da Hiroshima, nel paese di Kurakake. L’ospedale sta in un giardino grasso, un paesaggio che l’umidità trasforma in un acquario conradiano. La mensa è pulitissima, quattro ospiti per stanza, un bagno ogni due stanze, moquette, pantofole, paraventi. E’ la tipica città dolente degli anziani. Ogni tanto qualcuno dei trecento ricoverati parla per accenni, metafore del tipo “e la vita poi deragliò” ma non sono sicuro che voglia dire l’indicibile. I trecento vecchi mi permettono di portare vie le foto , ma cancellano nomi e cognomi. Una signora mi tiene la mano: ”Quando uno rimbambisce mica se ne accorge”. Le rispondo che “quando se ne accorge vuol dire che non rimbambisce”.
Il professore Kamada, che a Hiroshima chiamano senza ironia ‘il grande scienziato’, mi spiega che il 25 per cento degli hibakusha ”non parlano di quello che hanno visto e subito. Neppure ai propri familiari, neppure ai figli. Poi c’è un 45 per cento che ha parlato due o tre volte in tutta la vita”. E però noi giornalisti troviamo ancora testimonianze. “ C’è un trenta per cento che parla, e tra loro c’è un gruppo che parla tanto”. Hanno subito l’atomo, spiega il professore,” e sanno che i loro acidi non sono i normali umori del disfacimento. Perciò da vecchi vengono qui, anche quelli che hanno i soldi per ricoveri di lusso. Vengono per stare insieme, per attraversare insieme l’ ultimo vecchio ponte”. Nessuno si lamenta. “Quello che non lei troverà mai è il pianto, la sofferenza gridata, al massimo qualche lacrima soffocata”. Trovo invece la protesta contro il governo che non si occupa di loro: “Ora si paga il cibo. Sino a dieci anni fa era tutto gratis”.
Il professore racconta di avere capito che l’atomo modificava i cromosomi già nel 1960 “ ma non potevo dirlo, e non solo perché la censura americana controllava tutto, ma anche perché non volevo terrorizzare nessuno”. La leucemia, i rischi per la seconda generazione? “All’inizio aumentò la natalità perché, nelle catastrofi, riprodursi è un ‘bene rifugio’ ma poi, guardi il diagramma, la natalità diminuì sempre di più”. Perché? “Perché la gente aveva capito quel che i medici non capivano, e cioè che le conseguenze della bomba arrivavano ai figli” .Come l’avevano capito? “Alcuni bambini nacquero malati o deformi, con i cheloidi sulla pelle, privi di arti…”.
Il professore non è di Hiroshima, ma venne qui, quindici anni dopo la bomba: “A Hiroshima mi sono laureato, poi ho studiato a San Francisco e quindi sono tornato. Ho avuto la fortuna di restare. Solo a Hiromisha un medico poteva studiare e capire… “.
E finalmente scopro che il professore si è innamorato di Hiroshima perché ha sposato una hibakusha. Come andò? “Studiavo e non avevo tempo per nulla. Allora il mio capo mi cercò moglie. Si rivolse a sua nonna che mi presentò una signorina che lavorava come segretaria alla Mazda”. Cosa aveva visto il 6 agosto del 1945? “ Aveva tre anni e vide tutto quello che c’era da vedere. Era con la famiglia, a due chilometri e trecento metri dall’esplosione”. E’ una di quelle che parlano? “No. E’ una di quelle che hanno parlato due sole volte, e mai ai nostri figli.” Non parla neache con lei? “Con me sì. Ma io, prima di essere il marito, sono un medico”. E poi con chi ha parlato? “Una sola volta in pubblico, ma all’estero”. Dove? “Non credo che mia moglie approverebbe se glielo dicessi”. E i suoi suoceri? “Hanno vissuto con me. Ma sono morti entrambi: a lui è esplosa una vena, lei è morta di mal di cuore”. C’entra qualcosa la bomba? “Quando morirono pensavo di no. Adesso penso di sì”. Quanti figli avete? “ Due figli e quattro nipoti”. E stanno bene? “Sì, stanno bene. Sono la famosa ‘seconda generazione’“. Hiroshima diventerà mai una città con gli stessi rischi di tutte le altre città del mondo? “Mai. Le radiazioni sono nei limiti. Ma sulle conseguenze per le generazioni ne sappiamo ancora poco. Io le sto studiando e tra poco pubblicherò i risultati delle mie ricerche”. Nessuno controlla clinicamente i figli e i figli dei figli? “ Non più. Lo abbiamo fatto per 40 anni. Oggi non sappiamo nemmeno quanti sono esattamente i sopravvissuti, perché si sono sparsi per il mondo, come atomi. La stima approssimativa è 190.000. Nel 2040 saranno 500”.
Al Museo di arte contemporanea c’è la foto di un pezzo di palato con tre denti ancora attaccati. ”Questo museo – mi dice Takeshi Matsuoka, il curatore delle grande mostra sulla bomba inaugurata in questi giorni – nacque per raccogliere tutta l’arte che all’atomica si ispirava”. Hiroshima non è stata solo un laboratorio per scienziati, ma anche per artisti, letterati, attivisti… “Tanti, direi troppi, si precipitarono come cavallette sul grano. E con loro i cacciatori di anime, i politici…Persino le carovane della solidarietà non furono sempre positive. Hiroshima ci ha messo del tempo a capirlo e a tenere fuori gli sciacalli, i riorganizzatori delle coscienze attratti dal mito della catastrofe che disvelerebbe il vero uomo”.
Lo ‘Yomiuri Shimbun’ che è il quotidiano più letto del Giappone e del mondo ha scritto che “dopo settant’anni un completo dizionario della bomba di Hiroshima non è stato pubblicato: solo glossari incompleti. La bomba ha cambiato anche la lingua giapponese”. Per molti anni a Hiroshima i radicali antagonisti del linguaggio dichiararono guerra anche alla parola guerra: ‘bei tempi, tempi pacifici quando c’erano ancora le guerre!’ fu lo slogan del filosofo Günther Anders, il marito di Hannah Arendt, che è finito pure su una t-shirt. Volevano sostituirla con la parola ‘catastrofe’. Scrivevano ministero della catastrofe, strategia della catastrofe, la catastrofe santa, la catastrofe giusta, persino il servizio militare obbligatorio divenne servizio catastrofico obbligatorio. Insomma, nell’era atomica, l’alternativa non sarebbe stata più tra guerra e pace, ma tra catastrofe e pace . Del resto i più accesi contestano anche l’espressione arma atomica, preferiscono “ordigno”, meglio ancora “mostro”, come quello di Fukushima, che è stato un incubo in tempo di pace, ma non un incubo nuovo. E nella foga, ogni tanto, nel Pantheon della pace, accanto ad Einstein finisce il più guerriero dei guerriglieri, magari romantico ma non certo pacifista, Che Guevara che scrisse alla figlia: “Se vuoi lottare per la pace devi vedere Hiroshima”.
Si chiama “uso tattico della sintassi” ha spiegato il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui che non ha ancora detto nulla sulla nuova legge che restituisce la forza aggressiva all’esercito di pace. Il sindaco è fiero di Hiroshima: “Noi – ha detto – non abbiamo mai esagerato né esibito la sciagura, soprattutto non abbiamo mai trattato come risorsa economica l’ abominio che la città ha subito. Non abbiamo voluto nient’altro che rinascere e diventare la città della pace. E ci siamo riusciti. Oggi lo spirito di Hiroshima è il codice etico dell’era atomica che cominciò qui con i nostri 350mila morti”.
E infatti, oggi, circondata per tre lati dalle montagne e nel quarto bagnata dall’oceano, proprio allo scoccare dei settanta anni, questa città del mondo è un capolavoro, non del rifacimento ‘così com’era’, ma del nuovo inizio tutto diverso, “che pure fu un’ idea perdente dell’architettura perché così le città risultavano senza anima” mi dice il più autorevole urbanista di Hiroshima, Norioki Ishimaru . ”Questa è invece una vitalissima metropoli asiatica e occidentale, più simile a una piccola Los Angeles che a una piccola Shanghai anche se non si può negare che l’America turbi ancora il popolo di Hiroshima più che il resto del Giappone”. La domanda è ancora quella che nel 1978 si pose Robert S. Ozaki nel suo “The Japanese – A cultural portrait”, un classico che racconta la bomba come ‘esperimento sociale’ : “Come è possibile che dopo uno choc simile un popolo intero adotti la cultura del Paese che fino al giorno prima era il suo nemico?”. Com’è noto l’estrema destra, guidata dal famoso Shintaro Ishihara (idolo della pittoresca fascisteria italiana), allievo di Mishima ed ex governatore di Tokio, sostiene che le bombe furono sganciate in Giappone e non in Germania per un pregiudizio razziale. “La verità è che la gran parte di noi – insiste Norioki Ishimaru – è sincera nel condannare la guerra e non l’America “. E però, racconta Atoishi, che lavora in un ristorante, “anche mia nonna, che era una hibakusha ,diceva di non avere pregiudizi verso l’America, e per dimostrarlo beveva la Coca Cola e studiava l’inglese. Perciò fu contenta quando le dissi che avevo invitato a casa uno studente americano. Poi però quando glielo presentai, si girò dall’altra parte per non guardarlo”. E la curatrice del Museo della Pace mi racconta che “quando andammo in America alcuni ci avevano chiesto indietro gli oggetti dei loro morti. Non volevano che fossero esposti lì. Alla fine li abbiamo convinti “. E, ancora, quando il famoso artista nippo americano Isamo Noguchi vinse il concorso per costruire l’Arco della Pace, Hiroshima insorse contro quel sangue misto di madre americana. Ci furono persino disordini e scontri con la polizia. Alla fine gli tolsero il lavoro, ma l’architetto Kenzo Tange, che aveva progettato il Museo e il Parco della Pace, si appropriò del disegno di Nogouchi e lo eseguì tale e quale, con la propria firma però.
Se si esclude la Cupola, che è l’immagine di Hiroshima, un edificio che è stato conservato così come la bomba lo aveva ridotto, la città del mondo non è stata modellata sulla città che fu distrutta, bruciata e raschiata via il 6 agosto del 1945. Quando infatti si accorsero che quella tabula rasa era pur sempre spazio, i suoi indomabili abitanti, eroi della modernità, che oggi superano appunto il milione, “rivollero la città, ma attorno a un’anima: la memoria della bomba, la distruzione della distruzione come mappa del territorio, la pace come culto”. E dunque: grattacieli, il verde, forme moderne ma non strambe….
Già dall’oblò dell’areo si riconosce il ponte a forma di T – Aioi si chiama – che fu il bersaglio nel mirino di Paul Tibetts, il quale – detto per inciso – è morto nel 2007 nell’Ohio dopo aver diretto una compagnia di jet e avere fatto il conferenziere a beneficio di reazionari guerrafondai di ogni genere, alla fine sostenendo pure che di bombe l’America di oggi dovrebbe sganciarne ancora. Negli ultimi anni, come il più malinconico dei Buffalo Bill, si era ridotto a vendere via Internet modellini in scala della sua bomba ornata da una placca d’argento con il suo autografo : 500 dollari.
Il Ponte a T nella parte orizzontale unisce le rive del fiume Hon, che in quel punto si divide in due, e nella parte verticale sormonta il delta che lì sotto si è formato. Il vento sollevato dalla bomba, che non raggiunse il bersaglio perché esplose in aria, spostò di un metro i basamenti del ponte, che allora era, stranamente, in pietra e cemento. Malconcio e barcollante, rimase in piedi. I parapetti crollarono. I giapponesi sono abituati ai disastri, dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti e al vento che rispettano sempre, pure quello dei tifoni, e infatti, come tutti sappiamo, kamikaze vuol dire ‘vento di Dio’. Mai però accetteranno il vento atomico, quello di Hiroshima in tempo di guerra, e quello di Fukushima in tempo di pace.
Susan Sontag, di ritorno da Hiroshima, parlò di ‘estetica della catastrofe’ e scelse come simbolo l’immagine di Godzilla. Inventato in Giappone nel 1954 è uno dei più famosi mostri del cinema, un dinosauro ibernato al Polo Nord che si risveglia a causa di un’esplosione atomica e arriva sino a New York. Nel film anche il fungo ha la testa del mostro animale che esibisci i denti famelici. I colori e le suggestioni sono da cosmologia poetica.
Il nostro vecchio Tazuko che guardò con la bocca spalancata il vero Mostro, dice che “nessuno di noi lo ha visto allo stesso modo”. E non perché gli hibakusha hanno fatto , anche loro, gli esercizi di stile raccontando la stessa storia in 99 modi diversi: “Non furono diversi i nostri punti di vista, è proprio la vista che fu diversa”. Lui per esempio ricorda ”un lampo blu e una nuvola a forma di polipo o di medusa”. E invece sua moglie “vide almeno tre colori, il rosso, il bianco e il giallo, e poi il fumo di un vulcano che ribolliva verso l’alto”. Altri “hanno visto il verde e poi un mostro gassoso che emetteva scrosci di pioggia nera. Per un certo tempo qualche hibakusha rivendicò la verità del proprio mostro contro i mostri degli altri, poi bastò dire ‘il fungo’ “. Tazuko si spazientisce: “Quando capirete che la bomba non si può raccontare”?
Come si sa, nessuno è sopravvissuto a un raggio di 1 km dall’esplosione. Un po’ più in là, Tazuko ce l’ha fatta perché era protetto da pareti di calcestruzzo molto spesse. Lungo le rive furono ammonticchiati i cadaveri. Quel ponte, rifatto nel 1983, oggi confina con il parco del Museo , dove i turisti non somigliano ai soliti turisti che Fruttero e Lucentini chiamavano ” truppe votate al macello culinario”. Insomma, per una volta non sembrano turisti in cerca di aborigeni pittoreschi anche quando vanno a caccia di hibakusha. Ma forse sono loro, gli hibakusha appunto, che non permettono ai turisti di essere turisti: no peddling, no fund-raising, no selling… Eppure, negli altri luoghi della stessa Hiroshima, il turismo ritrova subito il suo destino di patacca. E infatti persino attorno ai templi Shinto, anche a quello piantato sull’acqua come una palifitta, e all’uscita del Castello che “distrutto dalla bomba fu rifatto esattamente com’era, alla maniera di Monteccasino”, ci sono i finti samurai che propongono ai turisti la foto con i guerrieri dell’antico Giappone e salutano gridando “Mori”, che era il nome della famiglia che qui fu padrona di tutto. Peggio che al Colosseo.
“Hiroshima ha cambiato anche l’edilizia” mi dice la signora Nakao, ingegnere che lavorò da apprendista con Kenzo Tange e ora lavora a Singapore, “l’isola laboratorio, un altro rifacimento che però è meno riuscito, proprio perché non c’erano le tragiche e vitali ragioni della bomba”. Nakao, che se non avesse fatto l’ingegnere avrebbe fatto la regista, dice che i film su Hiroshima quando lei era ragazza “immaginavano una città di rovine pietrificate, esibite e commercializzate. E all’inizio davvero i sopravvissuti più poveri vendevano agli americani i souvenir della bomba”. Come Pompei? “Peggio di Pompei, perché la violenza della natura può diventare cartolina postale, ma non la violenza dell’uomo sull’uomo”. Quei film su Hiroshima – oltre a Kurosawa e a Stranamore ci sono più di cento titoli – “immaginavano che i turisti avrebbero comprato ‘ossa atomiche’. Come può vedere, non è accaduto”. Perché? “Perché gli hibakusha, dopo i primi cedimenti, lo hanno impedito. Ma forse, direi meglio, è Hiroshima che non l’ha permesso. Ci sono luoghi che hanno diritto di veto “.
La ricostruzione cominciò nel 1949, quando Kenzo Tange vinse il concorso e dunque oggi, come nel mito della creazione, Hiroshima “è così città del mondo che ai giapponesi che vengono da Tokio sembra di arrivare in un paese straniero”. E torno dall’urbanista Norioki Ishimaru, che alla storia della ricostruzione ha dedicato la vita e ora cura il libro dei 70 anni, che uscirà nel 2016. Ishimaru parla di “un lavoro ben fatto”: gli ospedali modello, l’aeroporto internazionale e la stazione tutta bianca, l’ università, le industrie, i boulevard ordinatissimi, i parchi, i negozi, un incredibile numero di bar, le vie calde di saké, di shōchū e di vizio, le periferie dure della mafia, e la famosa squadra di baseball dei Red Carp (le carpe rosse)….”. E mi mostra i 34 progetti che furono selezionati tra centinaia di progetti grandiosi e strampalati. ”Si cominciò con il portare la terra dalla montagna. Invece di scavare ed eliminare detriti, rovine e cadaveri si alzò il livello della terra di un metro. Per questo i cittadini di Hiroshima passando da qui rivolgono un pensiero d’amore o una preghiera al cimitero che calpestano”. E dove vivevano i senza casa? “Costruivano baracche dappertutto e spesso la polizia era costretta a farli sgombrare. Intanto prosperava il mercato nero della mafia, la famosa Yakuza: gioco d’azzardo, scippi, lotte tra bande rivali, edilizia. Criminali di ogni genere arrivavano da tutto il Giappone come nelle città dell’oro del West americano”. Chi diresse la ricostruzione? “Il sindaco di allora che, a parte una pausa di quattro anni, governò dal 1947 al 1967. Si chiamava Shinzau Hamai, per tutti era ‘ il sindaco della bomba’. Era un uomo gentile, pratico e modesto. La sua memoria è oggi venerata come quella di un eroe. A lui si devono anche le case popolari che solo negli anni 70 rimpiazzarono tutti gli slums, anche quelli di Motomachi City, la periferia più dura. Furono ridisegnati i boulevard e portati a 30 metri di larghezza con l’eccezione del Boulevard della Pace che è stato fatto di ben cento metri…”. E la Cupola che sembra fare la guardia al fiume e al Museo? “La Cupola, che una linea diritta porta al centro del Museo passando per l’Arco della Pace, per la Fiamma sempre accesa e per il Monumento dei Bambini, è opera di Kenzo Tange che accettò, all’inizio di malavoglia, il consiglio dei consulenti americani e australiani. Il punto è che gli architetti giapponesi ‘fanno’ e non ‘rifanno’, mentre gli altri, e quelli italiani in particolare, ‘rifanno’ e non ‘fanno’“. La Cupola è un esperimento riuscito, è un’altra reliquia, come quelle del museo. Ma Kenzo Tange ci mise molto tempo a convincersi: “Allora infatti non si era diffuso il pacifismo e la città non aveva capito che per ritrovarsi e reagire a quella bomba bisognava combattere tutte le bombe. Lo so che oggi il mondo è un bazar atomico e farsi la propria bombetta sarà presto facile. Ma qui, nel luogo dove è avvenuto l’inconcepibile, quello scheletro di acciaio con la forma di una Cupola spiega al Mondo che cosa sono la distruzione, la resistenza alla distruzione, e la ricostruzione. La vecchia cupola funziona perché la città attorno ad essa è completamente nuova”.
Solo la Cupola resistette? “Parzialmente i palazzi di ferro e cemento che il Giappone aveva cominciato a costruire dopo il terremoto di Tokio del 1922”. E infatti resistette la banca, che fu poi acquistata dal proprietario del panificio-pasticceria Andersen. “Lui nel 1965 andò a Milano e rimase impressionato dall’edificio della Motta, dietro il Duomo, che era antico di fuori e moderno di dentro. Tornò e riprodusse il modello a Hiroshima”. Ed è l’edificio moderno, ma con la facciata antica, nel quale siamo ora seduti a parlare. Ma forse alla Motta il pasticciere giapponese cercava anche le forme delle paste italiane.”Proprio così , ma il principio è lo stesso: impreziosire il gusto del moderno col sapore dell’antico. Architetti e pasticcieri si somigliano”.
Ishimaru dice che mai dibattito fu più incandescente: “Partecipai ad Osaka ad un convegno su Hiroshima e rimasi di sasso quando udì un mio vecchio compagno di scuola prendere gli applausi denunciando la ricostruzione come ‘falsificazione della falsificazione’“. L’ idea degli estremisti era che “le case nuove cambiano quel che è successo, perché tutto diventa atemporale come se fosse esistito da sempre. Dicevano che così si suggerisce un passato irreale e si maschera e si nasconde il passato reale. Fortunatamente li abbiamo battuti”.
Anche lei si è innamorato di Hiroshima? “Ci arrivai per insegnare all’università. Ho 75 anni e ho dedicato la mia vita alla sua storia. Certo la bomba fu la dannazione di questa città e del mondo intero, ma il popolo di Hiroshima ha fatto ora una città che sarebbe generica se non fosse, da settanta anni, l’università di tutte le discipline scientifiche e umanistiche della terra, la fortezza della gente che non si rassegna neppure alla leucemia, la vittoria della memoria sul turismo che pietrifica le rovine esibendole in un recinto di pietà pacifista a due dollari al biglietto. Hiroshima è città del mondo perché è il mondo dopo la fine del mondo”.

4 thoughts on “1945-2015 La Città che visse due volte HIROSHIMA 70 ANNI DOPO LA BOMBA: “SIAMO IL MONDO DOPO LA FINE DEL MONDO”

  1. Raffaella Venturi

    Grazie, Merlo, per questo toccante reportage su una delle tante fini del mondo. Anche Fukushima ha avuto la sua fine del mondo, quattro anni fa. Adesso nascono margherite con due corolle, che sono anche belle, e bambini e animali deformi. La storia non insegna niente.
    “Che razza di mondo è questo se è un pazzo che vi dice che bisogna vergognarsi?”, urla il “pazzo”, mentre si dà fuoco, in “Nostalghia” di Tarkovsky.
    Grazie, inoltre, per la storia di Kotaro e del bottone. Quella storia lì, insegna.
    Raffaella Venturi

  2. Paolo Pomi

    Grazie per un articolo che vangando nell’animo del lettore, riporta in superficie quel che lì dovrebbe sempre restare.
    Grazie.

  3. Fiorenza Rossetto

    grazie per questa sua testimonianza, per la possibilità di riflettere su questa storia del genere umano così inconcepibile, di là da qualsiasi forma di realtà.

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