La politica ha guastato la lingua ma la lingua italiana ha salvato la politica COME DIRE L’INDICIBILE: DALLE CONVERGENZE PARALLELE AL VAFFA E DA TRASFORMISMO A ROTTAMARE

INTERVENTO del 20 novembre 2014 ALL’XI CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE PER LA STORIA DELLA LINGUA ITALIANA (Napoli)
Non sono uno storico della lingua e neppure della politica ma sono un giornalista anziano e dunque, a modo mio, sono un archivio di linguaggio politico. Perciò, in maniera disorganica, offrirò alla vostra riflessione e alla vostra sapienza alcune delle tante parole magiche nelle quali mi sono imbattuto, io che ho cominciato giovanissimo a raccontare il progetto politico delle convergenze parallele e ora sto qui a raccontare il progetto politico del vaffa, e vi dico subito che tra queste due bizzarrie italiane c’è più che continuità, c’è la somiglianza che hanno tutti i progetti politici impossibili. Moro e Grillo, direte, nulla di più diverso, nulla di più lontano. Certo, ma convergenze parallele e vaffa esprimono, in modi opposti, una stessa tensione italiana verso l’impossibile, danno nome ad una cosa buia. Moro spingeva l’idea del compromesso sino al paradosso di far convergere le parallele, di mettere insieme nello stesso governo – nel punto di fuga dove sembrano convergere le parallele – la Dc e il Pci, il cattolicesimo e il comunismo, il diavolo e l’acqua santa, il Papa e Carlo Marx. E Grillo spinge l’idea del ‘no ai compromessi’, del ‘no alla casta’, del ‘no alla politica’ sino al punto di fuga del governo contro i governi. Si può portare al governo l’odio per ogni governo? Pensate: il vaffa alle istituzioni è molto comprensibile – è la rabbia italiana – ma le istituzioni del vaffa cosa sono? Si certo, se si scava un po’ si trovano le profezie delfiche dell’ideologo Roberto Casaleggio, la sua descrizione con linguaggio infiammato del nuovo ordine mondiale, chiamato Gaia, “il governo planetario che sarà eletto dalla Rete il 14 agosto 2054, dopo la terza guerra mondiale quando gli uomini sulla Terra saranno ridotti a un miliardo, la fine delle religioni, delle ideologie e dei partiti …”. Parodizza – credo inconsapevolmente – Tommaso Campanella, il mito di Atlantide e Walt Disney e, nel riassumere il cammino del mondo verso Gaia e la sua “Intelligenza Collettiva”, Casaleggio insieme all’impero romano, al cristianesimo, alla rivoluzione francese fa del vaffa di Grillo una cosmogonia. In questi labirinti si capisce bene che il potere del vaffa che diventa vaffa al potere è come le parallele che convergono, un adunaton. E il linguaggio, in entrambi i casi, è oscuro. E forse bisognerebbe fare la storia delle parole che esprimono e riassumono gli uomini politici come si fa la storia delle idee e delle nazioni e dunque studiare il momento in cui Moro diventò le convergenze parallele, un’ espressione che non pronunziò mai. Eppure ‘convergenze parallele’ è tutto quello che la gente comune ricorda di Aldo Moro, oltre naturalmente al martirio per mano delle Brigate rosse che forse però era già prefigurato in quella espressione di impossibilità, di progetto politico che si affaccia sul nulla. C’era infatti una grandiosità cupa nel far convergere le parallele, Andreotti e Berlinguer, la tangente e l’oro di Mosca, la corruzione e la questione morale, la politica collusa con la mafia e l’antimafia , il bacio a Totò Riina e Falcone e Borsellino.
Ero giovane, ma del Moro prima di via Fani ricordo molto bene l’evasività, la circospezione, il linguaggio costruito sulle sfumature, il famoso dire per non dire e non dire per dire, con i suoi se, i suoi ma, i suoi eventualmente, le ipotesi subordinate e i discorsi interminabili. Quello di apertura dell’ottavo congresso democristiano, scrissero i giornali, durò otto ore, e nessuno capì cosa in realtà Moro avesse detto. Ebbene oggi di tutte quelle parole sono rimaste solo quelle che non disse, ‘le convergenze parallele’, che è l’inspiegabile, la politica come mistero accessibile solo agli iniziati.
Ma quando Moro diventò quell’espressione che non pronunziò?
“Moro era convinto – scrisse Indro Montanelli – che, per la Democrazia e i suoi valori liberali, la partita fosse persa, e che l’unica cosa da fare era associare al potere i comunisti lasciando che il potere li corrompesse come aveva fatto con i democristiani”. Credo che ci siano le convergenze parallele anche nelle lettere di Moro dal carcere delle Brigate Rosse dove non fu solo la paura a spingere l’ uomo di Stato, l’uomo che più di tutti incarnava lo Stato, a indurre lo Stato ad una trattativa con i terroristi, a far convergere ancora una volta le parallele: lo Stato e l’antistato. Non so come finirà la vicenda politica di Grillo, ma sospetto che, fra qualche anno, non so quanti, scopriremo che la parola vaffa contiene anche la fine della storia, come le convergenze parallele contenevano sia il delitto di via Fani sia la fine della Democrazia cristiana per mano di Mino Martinazzoli, un altro leader del quale non dimenticherò mai il linguaggio perché, al contrario di quello di Aldo Moro, era fatto di brevi frasi piene e rare e poi di silenzio. Mi ricordo un’intervista che gli feci in piazza del Gesù. Rispondeva con suoni gutturali che somigliavano a benevoli grugniti, mezzi sorrisi, monosillabi di circostanza. Quando l’intervista uscì sul giornale mi disse: “Tutto era verosimile”. Pronunziava frasi come la seguente, una frase che appartiene anche al suo amico e suo simile Sergio Mattarella, un altro importante protagonista del mutismo italiano: “So quanto sia impervia la strada, suggerita dal Tommaseo, che incrocia la concisione con la precisione. E ammetto che la concisione è agevole, almeno per chi non ama gli sprechi…”. Pensate: la parola come spreco. Forse perché veniva da Orzinuovi, un paese di contadini ricchi del Bresciano, uomini e donne che hanno dietro le spalle generazioni di mutismo. Prendo sempre da quella intervista: “Dire niente in maniera incomprensibile è probabilmente un esercizio troppo diffuso. Ma riesce difficile accettare l’ antidoto del dire niente per essere compresi”. Dunque la Dc dei discorsi interminabili venne seppellita da un taciturno che aveva la passione della politica. Anche Leonardo Sciascia parlava pochissimo. E anche Enzo Sellerio e suo figlio Antonio, benché nella collana il Divano, che è parola araba, diwain, il luogo della seduzione eloquiale, Sellerio pubblichi ‘L’arte di tacere’ dell’ Abate Dinouart, ma forse ci vorrebbe un libro,oltre che sulle parole della politica, anche sul silenzio di tanti grandi italiani non solo della politica, (il sardo Berlinguer e il bresciano Martinazzoli, il siciliano Sergio Mattarella, e poi Enrico Cuccia, e prima Luigi Einaudi, Sciascia e Manzoni, e pensate a De Gasperi che a Jader Jacobeli dsse: “Io so che non sono un oratore, che ho una pronunzia bastarda, che sono disadorno, arido, ma la gente che mi ascolta capisce che non sono le parole che contano. Io dico male le cose in cui credo”. Nel grande elenco del silenzio italiano ci metterei anche Totò, Lucio Battisti, Mina e poi ‘taci il nemico ti ascolta’, l’omertà, l’incomunicabilità di Antonioni.
Ma torno a Martinazzoli che voleva “ripulire l’oscura lingua della Dc – diceva – con ironia e con pietà “. Come disse lui stesso: “Nella politica italiana va in onda, in prima mondiale, la quadratura del cerchio”.
Ecco, io non so se la politica, se il tentativo di quadrare il cerchio abbia guastato anche la lingua italiana, ma sono convinto che la lingua italiana ha salvato la politica perché l’ha saputa raccontare, ha saputo dire l’indicibile, a partire forse dal 1876 che è l’anno di nascita del Corriere del Sera, e dunque del giornalismo italiano, ma è anche l’anno della Sinistra storica al governo e dunque del ‘Trasformismo’, la più vecchia delle parole strambe della politica, quella che però ne continua ad acchiappare, ancora oggi, la sostanza. Il fatto politico fu, come tutti sanno, il passaggio di una parte della Destra di Minghetti con la sinistra di Depretis realizzando il primo ribaltone che è parola più antica di trasformismo perché deriva da ribaltare, ma che assumerà il significato di rovesciamento del governo attraverso una congiura di palazzo solo nel 1994. Prima di diventare trasformismo, questa consolidata maniera di fare politica, con i suoi corollari di clientelismo e corruzione, fu chiamata “assimilanza”, che è una parola che non ha fatto carriera. Trasformismo è invece la sintesi dell’autodifesa che Depretis fece alla Camera dei deputati: “Se qualcuno vuole entrare nelle nostre file, se qualcuno vuole ‘trasformarsi’ e diventare progressista come posso respingerlo?”. Scrisse Benedetto Croce: “… poco di poi seguì la parola che dava la coscienza della dissoluzione avvenuta, una parola che parve brutta o addirittura vergognosa, e col senso di pudore e di ribrezzo correva per le labbra di tutti: trasformismo. Con le elezioni dell’80 si era costituito il centro sinistro; con quelle dell’82 si ebbe la nova maggioranza del Depretis, quella appunto del “trasformismo” che egli chiamava ‘il grande nuovo partito nazionale’”. L’inventore del trasformismo era “Uomo indeciso e irresoluto” secondo Cavour, che pure gli affidò i primi incarichi. I giornali dell’epoca, che pure erano paludati, lo chiamarono “Il divo Budda”, “Caino”, “il clown”, “l’ affondatore”. E leggo a firma Petruccelli della Gattina (“I ricordi di un ex deputato”) che era “affabile, piaggiatore, familiare con tutti, promette sempre, promette tutto” e concludeva: “La sua vocazione è creare dissensi, scompigliare partiti, gualcire caratteri. Egli è nato malfattore politico come si nasce poeti o ladri”. Mentre Silvio Spaventa lo paragonava addirittura a “un cesso che resta pulito, sebbene ogni immondezza vi passi”.
E voglio adesso dire che la coincidenza anagrafica della nascita del Corriere e del trasformismo come metodo ma anche come antropologia italiana sta all’origine della sapidità tutta speciale del nostro migliore giornalismo politico che ha affiancato alla prosa paludata e corriva, moralistica e compiacente anche quella divertita, la polemica fulminante e l’ironia tagliente che lo resero ricco e piacevole con le cronache parlamentari come canovaccio del trasformismo, dai Ribaltoni di De Pretis- Minghetti sino quelli più recenti di D’Alema Bossi, Berlusconi, Prodi, Enrico Letta, Renzi, sempre in nome della “governabilità”, che è un’altra parola magica. In fondo il ribaltone è una variante del vecchio storico “giro di valzer” della prima guerra mondiale e, alla fine della seconda, della famosa telefonata del sottotenente Alberto Sordi che, l’ otto settembre, non capendo perché i nazisti gli sparavano contro, chiamò il comando e comunicò la novità : “Signor colonnello, è successa una cosa terribile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”.
Il genio dell’imbroglio che è genio italiano, ha mille nomi. C’è un momento in cui il trasformismo divenne ‘nominalismo’: cambiare nome per non cambiare. Al nominalismo è ricorso Berlusconi, da Forza Italia a Popolo delle libertà. E Occhetto, D’Alema e Veltroni, cambiando nome al proprio partito, da “La Cosa” sino a Partito democratico e ora Renzi è tentato da Partito della nazione: accanendosi a denominarsi, alla fine, questi leader che cambiano nome “sono” i loro mille nomi, come Casanova che solo cambiando letto restava Casanova.
Quando ho cominciato a fare il cronista politico, i governi per non ribaltare rimpastavano, e il rimpasto ogni tanto era rimpasto lampo e qualche volta rimpastino, e c’è stata pure la staffetta, e ovviamente quella parola straordinaria che è interim, provvisoriamente ‘al posto di’, ‘fare le veci nel frattempo’: del ministro degli esteri o dell’economia, o dell’agricoltura. E c’è stato in Italia l’interim lungo, vale a dire la pausa che non finisce, il vuoto pieno, l’interim a fuoco lento: “un interim- polemizzò Carlo Azeglio Ciampi – non può oltrepassare le due ore”. “L’interim non si misura con l’ orologio” gli rispose Silvio Berlusconi. L’interim in Italia è il precariato, nella scuola è supplenza, negli uffici c’ è la sostituzione ferie, nel calcio è la melina, nel ciclismo su pista l’ interim si chiamava surplace, è interim aspettare Godot ,ed è interim il mal di vivere, il mettersi tra parentesi. E’ interim lo struscio nel corso del paese, è interim la virtù dei deboli e dei mafiosi: calati juncu ca passa la china. E’ interim l’ attendismo, è interim l’ assenza di vento, che è la bonaccia contro cui impreca il marinaio. E’ interim il caldo paralizzante dell’ ora meridiana nell’interminabile estate italiana, hora diaboli, la sospensione della vita. E’ ad interim l’alluvione che ogni anno, e non solo a Genova, torna ad uccidere in perenne attesa dei lavori di contenimento dei torrenti e dei fiumi, interim è la parola strozzata, la pavidità cautelosa, è interim il coitus interruptus, persino “il cornuto” è un marito ad interim. E capita spesso che si governi ad interim. L’annuncite di Renzi per esempio. Il governo diventa il tempo e lo spazio degli annunci, i quali a loro volta sono l’ interim dei fatti: le grandi riforme, l’abolizione delle province e del Senato, l’abbassamento delle tasse, la buona scuola, l’annuncite è governo virtuale e, dunque, ad interim, perché l’ interim è il posto occupato da qualcosa che si sostituisce alla cosa. La pubblicità è un interim, le foto truccate sono l’ interim del viso.
In passato in Italia “ti cambio i connotati” era una delle peggiori minacce, perché significa renderti estraneo a te stesso, persino peggio del ‘ti taglio la faccia’ che era la condanna alla deformazione permanente inflitta dall’inquisizione e oggi è sentenza mafiosa. Ebbene nel ventennio berlusconiano il trasformismo sostituì la chirurgia ideologica con la chirurgia estetica, la bandana che nascondeva i segni del chirurgo divenne più importante del viaggio di Gianfranco Fini, l’ex fascista, in Israele; e la convalescenza a Porto Rotondo dell’allora presidente del Consiglio, il rifacimento degli occhi e delle guance furono revisioni che si imposero più del revisionismo storico. Il trasformismo con Berlusconi divenne travestitismo,cerone, maquillage, il rialzo dei tacchi, la calza sulla telecamera, il trucco, la buona politica divenne buona apparenza, ogni ruga truffata valeva più del calo di un punto del pil. Le borse sebacee erano più importanti della Borsa di Milano e forse perché erano queste le nuove ossessioni degli italiani: il benessere fisico, la cura di sé, la palestra la cosmesi, il sesso. Il vecchio peccato, così amato dagli italiani, divenne vizio, e la lingua italiana registra la nuova politica con parole inaudite, mignottocrazia, per esempio, e quel Papi che è, al tempo stesso, Gozzano e Freud, la tenerezza e la pedofilia, il ‘sugar daddy’ degli inglesi. Il giornalismo compone il Berlusconi-Satyricon, più Fellini che Petronio, anche se nessuno di noi riuscì a narrare il Berlusconi-Satyricon con quel candor, quella simplicitas e quella non tristis gratia che stanno a fondamento del famoso realismo di Petronio. Eppure, anche la nostra lingua si sporcò e dunque si arricchì come accadde a quel latino. Lì c’ è il greco parodiato e qui c’ è l’ inglese maccheronico, il lessico del comprare e del vendere applicato al sesso, “briffare” che deforma il to brief inglese: istruire per dominare. Ci vorrebbero le competenza di Concetto Marchesi nel latino e di Mario Praz nell’ inglese e nell’ italiano per un confronto tra le invenzioni di Petronio e quelle che Mediaset e Publitalia introdussero nella politica. Limitandoci all’ ironia comparata, notiamo che Petronio inventa mixcix (fare le cose a metà) e alla corte di Berlusconi dicono random, non fare il randomico, non fare le cose a caso. Petronio crea burdubasta, caldicerebrius, percolopoe questi altri lanciarono flagare (far di qualcosa una bandiera), e “sono in charge” significa ‘tocca a me’ … , la lingua della politica divenne un pastiche arcitaliano, un carnevale esagerato nervoso e paratattico, entrano il lodo, quello Ciarrapico,quello Mondadori, il lodo Schifani, il lodo Alfano…: la parola lodo divenne un abracadabra, la sublimazione del mito nazionalpopolare del condono che agli italiani è servito ad aggiustare la cantinetta e la soffitta , il lodo divenne la casamatta dell´illegalità. E ancora: la legge ad personam, ma anche il priapismo. La “bandana” è in politica la bandiera del giovanilismo senile. E la “barzelletta” è il salvagente, l´estremo rifugio dell´inadeguato, le corna e il cucù, la simpatia come politica estera, la gaffe su “Obama abbronzato” è entrata nei manuali di politica internazionale. E ancora il Bunga bunga come indefinibile pratica orgiastica e le escort, le veline, “fonderò Forza Gnocca” disse Berlusconi e una sua deputata cantò in radio “E forza gnocca / perché siamo tantissime». E poi il Topolanek, la parte per il tutto, l’utilizzatore finale, che è l’apoteosi dell’eufemismo, e la patonza – “la patonza deve girare” è la frase complet – la patonza come contante, la patonza come buca keynesiana, come arte di durare,come nuova politica dei due forni, la patonza al posto della gobba di Andreotti.
E siamo all’italiano come lingua di Belzebù che, per sua natura, è sempre biforcuta. In Italia gli aforismi di Andreotti suonano oggi come la sigla di Carosello anche se esprimono non la leggerezza ma l’ impenetrabilità della nostra storia politica nel dopoguerra. E va detto che non è vero che erano aforismi da grande pensatore del novecento. “Il potere logora chi non ce l’ha” è solo un’ intelligente stupidaggine alla Catalano e non una profondità alla Junger, perché è ovvio che il potere fa bene alla salute e chi può non si logora, mentre al contrario stanno male quelli che non possono. Dello stesso genere è “non basta avere ragione, bisogna che ci sia qualcuno disposto a dartela”. Eppure l’Italia rideva. Sull’aereo per Palermo, una volta dissi con gentilezza ad Andreotti che non riuscivo a ridere delle sue battute “forse perché non sono andreottiano”. E lui: “Neppure io”. Poi ascoltammo insieme la canzone di Francesco Baccini: “Chi ha mangiato la torta? Chi ha sbagliato la manovra? Chi c’è dietro a piovra?” .E ogni volta il coro rispondeva: “Andreotti”. Ricordo bene come i suoi occhiali da presbite rendevano grandi quegli occhi naturalmente piccoli: “Mi piace. Sembra scritta da me. Ha messo in musica quello che io penso di me stesso e cioè che a parte le guerre puniche, perché ero troppo giovane, mi viene attribuito di tutto”. Ecco, con Andreotti la lingua della politica divenne la lingua dell’ammiccamento, esprimeva sempre ambiguità, complicità e complessità, evidenti ma imprendibili. E infatti Andreotti ridacchiava. Perché ogni volta che confezionava una delle sue famose frasi si compiaceva di commettere un reato intellettuale: “Il generale Dalla Chiesa cambiava spesso programma. Era abituato, forse per mestiere, a non fare quello che diceva”. La disse, questa frase, commemorando in un’intervista il suo grande amico Franco Evangelisti, quando appunto l’onorevole ‘a fra’ che te serve?’ era appena morto, e ovviamente era morto anche il generale. E tutti in coro risero, di allegria e di tenerezza, come hanno poi riso alle barzellette di Berlusconi. Risero perché “è serva l’Italia, di risata ostello”. Ma pensate a quanto ruminare c’era in quella frase sul generale Dalla Chiesa, quanta innocenza e al tempo stesso quanta colpevolezza conteneva, e quanto ammiccava alle polemiche, alle denunzie, al mistero mai risolto dell’omicidio Dalla Chiesa.
Giuseppe Alessi, storico e pulitissimo fondatore della Dc siciliana, il solo che non fu mai coinvolto e neppure sospettato di contiguità con la mafia, mi disse in un’intervista: “Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il paese ai comunisti di Stalin”. Ebbene, per commentare questa terribile e rassegnata denunzia di Alessi, che partiva dalla guerra fredda e arrivava al processo di Palermo, Andreotti, che non perdeva mai il controllo di sé, si alzò in piedi: “Non credo che Alessi si sia espresso davvero in questo modo, ma sicuramente la storia d’Italia non è andata così. Anche perché così si coprono con la politica le eventuali responsabilità delle singole persone. La politica diventerebbe una specie di scudo stellare e la storia della Sicilia la notte in cui tutte le vacche sono nere”. Di quella innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, dell’innervatura dell’una nell’altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, Andreotti diceva: “Ho cercato di approfondire quelle insinuazioni che sono state fatte. E non ho trovato mai nulla, nemmeno un indizio. Io mi sono sempre affidato al tempo. Ci creda anche lei: il tempo è galantuomo sul serio. E con il tempo, chi solleva polveroni vedrà la polvere ricadergli addosso”. Poi però, il suo realismo comico lo richiamava in servizio: “Non bisogna lasciare tracce”.Una volta Oscar Luigi Scalfaro disse: “Le battute di Andreotti sono tutte accuratamente preparate. La sua genialità consiste nello spenderle al momento giusto”. Chissà se era vero. Gli archivi dei giornali sono pieni di andreottate , quel linguaggio che aggirava il problema grazie ad un umorismo che ti lasciava soddisfatto solo in apparenza, allusioni, elusioni e di nuovo battute: “Ci son due tipi di matti, i matti matti e quelli che vogliono risanare le ferrovie”. Quando smettevi di sorridere, ti accorgevi che Andreotti non aveva detto nulla, ma che il senso era comunque e sempre sgradevole:”Bisogna sempre tenere un diario. Ed è bene che qualcuno lo sappia”. Ebbene : oltre a questo linguaggio, cosa ha lasciato Andreotti? C’ è qui dentro qualche studioso che possa seriamente citare uno dei tanti libri di Andreotti o una legge che ci abbia cambiati, o una vittoria sociale, o una significativa opera pubblica, una reale gloria politica, una riforma, un orfanotrofio, un grattacielo, una nave? O non è stato invece un pretesto per costruire un vuoto chiacchiericcio, quella lingua sbrindellata della politica italiana dove “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina” . A questa lingua si deve il successo del dito medio di Bossi che fu, come si sa, l’uomo nuovo del nativismo settentrionale, lo straniero camusiano che piacque ai cronisti e agli intellettuali proprio perché contrappose a un linguaggio ammiccante, oscuro, tutto rituali e funzioni, un linguaggio autentico, sanguigno, come le sue camicie incredibili, i colletti alati, le cravatte in opposizione ideologica. In Tv Bossi liquidava De Mita dicendogli in milanese “attaccati al tram” e per gli italiani era un sollievo perché la battuta volgare sembrava un’uscita collettiva dal soffocamento, l’illusione dell’ossigeno tra odori stagnanti e irrespirabili, una specie di catarsi della lingua della politica. De Mita infatti incarnava, suo malgrado, l’arzigogolio del meridionale, l’imbonimento, la sordità, era il punto finale del linguaggio della Dc di cui abbiamo detto, l’intellettuale della Magna Grecia. Ebbene “attaccati al tram” era l’invito che tutta l’Italia voleva rivolgere a quel mondo bloccato negli abiti di gessato istituzionale. Non solo. Bossi prometteva “pallottole”. Per lui Mario Segni era “una lumaca bavosa” e con i giornalisti voleva fare a pugni “visto che non abbiamo soldi per comprarvi”, con la bandiera tricolore si puliva il c… , e “la lega c’è l’ha duro”. E dunque gli avversari politici bisognava impiccarli, ai meridionali voleva mettere l’anello al naso, gli immigrati andavano schedati con le impronte della dita dei piedi. La lingua di Bossi, come ora quella di Grillo, è un repertorio infinito, che alimenta la parte peggiore del nostro cattivo umore, la tracimazione rancorosa, il razzismo, i vaffa.. Ricordo Bossi che sbatteva il suo pugno sul tavolo di legno :” va a cagà i padrun, va a cagà i terun”. Cominciò con la difesa del dialetto veneto e lombardo, cominciò dunque con pulsioni pasoliniane e, lanciando slogan che sono oggi patrimonio nazionale, come ‘Roma ladrona’, che può non piacere ma rende bene l’idea, arrivò al razzismo.
Diciamo la verità è la lingua che in Italia laurea un leader ed è la lingua che lo boccia. “Siamo primi ma non abbiamo vinto” disse Bersani subito dopo le elezioni politiche non sapendo cosa farsene dello 0,4 in più alla Camera e dei due seggi in più al Senato. Gli scogli da asciugare, le bambole da pettinare, i giaguari da smacchiare, e tutte le sue metafore sapevano d’artificio al cospetto dei “vaffanculo” che prometteva Grillo, del “siete circondate, arrendetevi”. Prima delle urne, fu la lingua a segnalare la debolezza di Bersani.
E invece che, in questo 2014, dopo 20 anni, sia finalmente nato un altro leader lo certifica infatti la quantità dei soprannomi di Matteo Renzi, davvero tanti in un anno, che in Italia sbeffeggiano ma appunto proteggono la leadership, la riconoscono irridendola: dal Mascellone a Belzebù, dal Mortadella al Caimano e alle sue mille varianti Cainano, Banano, Ottavo nano, Cavalier Pompetta, Cavalier Patonza, Al Tappone O Buscone, Berluskaz … il dileggio della denominazione ha sempre segnato la dominazione e i nomignoli, diceva Pirandello, “non sono falsi nomi ma altri nomi, e dunque nessun nome, perché non sa di nomi la vita”. E forse il vero vademecum della politica è proprio “Uno, nessun e centomila”, quel libro è la Costituzione del nostro stato confusionale, il manuale del trasformismo, la favola poetica e il ballo in maschera dell’identità italiana.
I nomi di Renzi, dunque. Già all’esordio è sbertucciato ‘il Boy’ perché vuol fare il Tony Blair, ma senza essere passato per Oxford e portando in eredità alla sinistra non il liberismo di ferro della Thatcher, ma quello di plastica di Berlusconi. Infatti al cav. lo assimilano i soprannomi ‘il Piazzista’ e ‘il Venditore di pentole’, succedanei del ‘Berluschino’. Finché i due diventano una sola persona – ‘Renzusconi’ – con il patto del Nazareno, l’accordo, non si sa se virtuoso o scellerato, tra ‘il Pregiudicato’ e ‘lo Spregiudicato’. E non c’è solo la sinistra che riprova a diventare Occidente nel ‘Cinghialino’, che fa di Renzi un surrogato di Craxi il ‘Cinghialone’. C’è la bestiaccia senza grazia che giustamente ha aggredito l’articolo 18 ma poi, governando tutti tranne se stesso, alla Leopolda non ha abbracciato neppure un disoccupato, così restituendo senso alla Cgil che aveva perso senso. Ed ecco ’l’ Ebetino’, storpiatura di ‘abatino’, che era il piccolo calciatore italiano (Rivera) vincente proprio perché debole. Qui l’insulto diventa calunnia abbreviata e individua il punto di forza di Renzi nella fragilità politico intellettuale: il cretino di successo. E poi ‘il Bomba’ perché le spara grosse;’Bimbaccio’, ‘Giocagiò’ e ‘Giamburrasca’ perché la sua politica è dispettosa e infantile. E, quando a Roma incontrò Obama, l’autorevole giornale americano “Politico” (www.Politico.com), lo raccontò come un “eager puppy”, un cagnolino sempre scodinzolante che in Italia è ‘Renzie’, il soprannome che lo inchioda al gibutto e ai pantaloni a chiodo, al fighettissmo appunto scodinzolante del Fonzie televisivo che per sentirsi ‘cool’ dice ‘hey!’. Nell’agitazione entusiasta da ‘eager puppy’, Renzie esprime, secondo il linguaggio sguaiato di Grillo, “invidia penis”.
In modo goliardico e sottomesso l’Italia ha così cercato di catturare la sostanza del suo nuovo capo, il tratto entelechiale direbbe Sciascia, quel carisma che nel mondo è oggetto di studi scientifici e qui di culto della personalità e di lessico gregario. Di sicuro nell’antologia dello scherno c’è la storia di una leadership, più ancora che nei 53 libri con Renzi nel titolo, pubblicati nel 2104. Ed è una storia di provincia, che è la cuccia del sentimento e della lingua italiana, la particella di dio della politica da Einaudi (Carrù) a De Mita (Nusco) sino al nostro Renzi. Dal Duce (Predappio) al Cavaliere che, pur nato a Milano sarà per sempre il cummenda brianzolo, il bosone che dà massa all’Italia e al suo linguaggio è il paese, la valle, la campagna. Più che a Firenze è a Rignano e a Pontassieve che Renzi custodisce la sua idea di nazione. Così, nell’abuso dei simboli della modernità, dal twitter all’iPhone, e nell’ambizione esibita come peccato mortale nella patria dei falsi modesti c’è anche in Renzi la ricchezza del complesso di inferiorità della provincia, la foga eccessiva del malessere come risorsa. E il suo inglese ‘sparlato’ è la lingua basica, associativa e fisiologica dei provinciali, quanto basta per rimorchiare a Londra: fonemi e sorrisi che ammiccano e riproducono suoni, scimmiottano il mondo che gli viene a tiro.
Nelle guerre annunziate da Renzi, vere o demagogiche che siano, ai burokrati, agli enti inutili, alla giungla legislativa, ai privilegi che la Cgil spaccia per conquiste sindacali, alla Province, al Senato, a quel bunker del potere malandrino che è la Rai, ai professori, c’è la lingua dei campi,della ferrovia, dei sassi bianchi dell’Arno, del ponte sul Sieve, del castello medievale, dell’Italia piccola e feroce che spaventava Metello in fuga verso Firenze, la terra madre dei Renzi appunto, il sottosuolo economico da impresa che sempre sogna di sfuggire ai piccoli destini: il papà Tiziano, lo zio materno Nicola, l’azienda di strillonaggio con il camioncino e la vincita di 30 milioni di lire alla Ruota della Fortuna, la lingua degli omini di burro di Collodi, gli umori della provincia che nell’epoca post ideologica avevano già prodotto leader come Berlusconi e Bossi, senza cultura politica, ma con uno straordinario radar invisibile al posto del cervello.
E’ il radar di tutti i Giacomo d’Italia che, appollaiati sulla collina del proprio borgo selvaggio, cercano l’Infinto e trovano la provinciale SS76, la strada che da Recanati va a Macerata, alla prosa di Firenze, di Roma, di Palazzo Chigi….. E’ la forza oscura del Gramsci di Ales che si impose a Torino, del Giolitti di Mondovì e del Crispi di Ribera, del Mussolini di Predappio, del De Gasperi di Pieve Tesino, del Berlingur di Sassari, del Bossi di Cascina Magnago,… E’ ancora la furia del marginale che spinse Renzi a tradire Letta con lo scandaloso ‘#Enrico stai sereno’: e pensate alla lunga storia della lingua usata come manganello, da Togliatti che voleva cacciare a pedate nel sedere con gli scarponi chiodati De Gasperi e “i forchettoni” e “i magna cucchi” al grido di “addavenì baffone”, a Renzi che si è messo a “rottamare”, che è una parola terribile, e non perché rimanda alla ferraglia, ai cimiteri delle macchine ,ma perché contiene, e non sto facendo filologia, dentro di sé, la bellezza della rotta e del mare.

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