Sequestro dei beni per l’ex commissario di Pompei che ha sperperato tutto anche se stesso MARCELLO FIORI DA LEGAMBIENTE AI CLUB “FORZA SILVIO” / LA PARABOLA DEL MANAGER CORROTTO DAL POTERE

QUELLA di Marcello Fiori è la paradigmatica storia italiana del promettente manager di Stato corrotto dalla politica, un destino di mala pianta pubblica maledettamente simile a Luca Odevaine, quello che “ancora adesso non riesco a crederci” disse Veltroni. Fiori e Odevaine hanno infatti la stessa bella origine da Legambiente. E fu capo di gabinetto di Veltroni l’Odevaine; e capo di gabinetto di Rutelli il Marcello Fiori. L’uno è finito in mafia capitale. L’altro è un rovinatore di rovine, ma con un grande rimpianto: a Pompei avrebbe voluto spendere di più: “È uno scandalo che l’insieme dei siti archeologi italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassa il Louvre”. Mannaggia!

Di sé dice, ed è vero: “Sono figlio di un muratore e di una mondina”. Ma è invece raccontato come la macchietta degli sprechi questo fondatore dei crepuscolari club “Forza Silvio”. Infatti la Finanza gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina perché secondo la Corte dei conti deve risarcire almeno 6 milioni di euro alla martoriata Pompei. Ma Fiori, per la verità, fa una vita modesta, non gli si conoscono lussi privati, né aragoste né club massaggi, ha sposato una segretaria e ha un figlio di 17 anni. Ed è vero che del suo maestro Bertolaso ha preso l’idea che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati perché “in Italia a volte ci vuole un’intelligenza militare”, come ripete. Ma di Bertolaso non ha la comicità di tutti quei giubbotti, scarponcini, cappellini da baseball, caschetti di plastica dura, insomma la muta dell’operaio di Junger, la divisa del milite della fatica. E dunque Fiori non ha rubato ma ha sicuramente sperperato i soldi. Ad esempio per cementificare il teatro di Pompei dove poi si esibì un virtuosissimo Riccardo Muti con la quinta sinfonia. E Fiori spese addirittura dieci milioni per gli impianti telefonici. E centomila euro per spostare 19 pali della luce. E 90mila per accogliere Berlusconi che neppure venne. Ancora centomila per cacciare 55 cani randagi “perché erano rabbiosi”. E diecimila per autocelebrarsi con un libro a tiratura limitata: 50 copie.

E ora “rifarei tutto” dice. La spavalderia è come si vede, quella del “pulisco Napoli in dieci giorni”, del “fatemi intervenire prima che ci scappi il morto”, e ancora “a Pompei sto facendo miracoli”. La stessa sbruffoneria appunto di Bertolaso che è “il modello della mia vita, il più grande e straordinario manager che l’Italia abbia mai avuto nella gestione della cosa pubblica, il servitore dello stato che ha unito efficienza, velocità e umanità”. E invece l’Italia ricorda Bertolaso come l’imperatore di tutti gli appalti sporchi, lo sciacallo della protezione incivile che imponeva costi maggiorati e senza controllo e si affidava a imprese che lucravano in nome della fretta e della furia. Un passo dietro lui, il mite e discreto Fiori ad ogni uscita si esibiva un po’ di più sulle macerie dell’Aquila mentre organizzavano il G8. Finché come Bertolaso si mise a parlare da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso: “Non ho paura dei tribunali. Venissero loro a lavorare”. Il diavolo piegava la testa e seguiva il suo comandante. Era un profilo, una sagoma, un esecutore d’ombra che diventava a poco a poco un altro uomo, un altro Bertolaso. Per 12 anni Fiori è rimasto alla Protezione civile dei Grandi Eventi e dei disastri, delle risate degli speculatori e dello strazio delle vittime, degli show sulla morte organizzati per Berlusconi. Finché un giorno Giovanni Minoli a Radio 24 gli chiese: qual è il difetto di Berlusconi? “È troppo buono” rispose lasciando allibiti quelli che lo avevano conosciuto da ragazzo.
Io stesso lo ricordo giovane cronista a Montecitorio, preciso e stimato collaboratore della Dire, l’agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer. Veniva da Legambiente appunto, nemico di quelle discariche di cui sarebbe diventato il Signore. Riccioluto, occhi chiari, belloccio, il suo intercalare in escalation romanesca era ed è ancora: “ciccio, ti dico che se fa così. Fidate!” Il mondo era quello di Mattioli e Scalia, Chicco Testa, Ermete Realacci, Enzo Tiezzi, Giovanna Melandri con Odevaine al seguito, Michele Anzaldi, Renata Ingrao. Qualcuno dice che aiutò Valerio Calzolaio a scrivere la legge sull’inquinamento acustico, di sicuro Renato Strada gli passava i documenti della commissione Ambiente. Fiori si occupava di consumatori. Ed era amico di Della Seta e di Francesco Ferrante.

Dunque nessuno si meravigliò quando il sindaco Rutelli gli chiese di aiutarlo nel restituire il “decoro urbano” a Roma. Tutti lo ricordano “informatissimo, sempre attivo, l’uomo dei dati, delle carte, delle leggi, della soluzione geniale ai problemi disperati”. Sul decoro urbano disse subito: “C’è un rapporto tra la bruttezza e il malaffare e l’indecenza estetica è la forza d’urto di interessi organizzati “. Poi si mise al lavoro e sfornò uno studio articolato di bonifica, quartiere per quartiere, piazza per piazza: insegne, bancarelle, marciapiedi. Quando fu eletto Sergio Mattarella, Rutelli, non solo per vanità, elencò i suoi ragazzi:, Renzi, Gentiloni, Giachetti, Franceschini, Filippo Sensi, Linda Lanzillotta… E poi: “Sono affezionato a Marcello Fiori che guida i club di Forza Italia”. Adesso infatti Fiori vuole rifondare il berlusconismo “nel nome di Einaudi, Benedetto Croce, John Stuart Mill, ma anche Borges, Vittorini, Calvino e Leopardi”. E ha lasciato il ruolo di dirigente dello Stato (5.600 euro al mese) per intrupparsi con gli irriducibili di Salò, come un Toti qualsiasi.

Dunque Fiori è lo Smeagol del Signore degli Anelli, un hobitt che, inserito nello Stato, anno dopo anno si è lasciato guastare dall’anello della Forza. E come nell’Epica di Tolkien, gli si annerivano i denti mentre contava i miliardi del Giubileo accanto a Roberto Giachetti che, – come nel caso di Odevaine, – “ancora non riesco a crederci”. Poi, mentre seguiva Bertolaso tra i disgraziati dell’Aquila, gli esplosero i ponfi e le pustole del potere. E ovviamente, prima di mostrificarsi definitivamente nel Gollom, passò per Sandro Bondi che lo spedì Commissario a Pompei, ma soprattutto divenne, anche lui, un cocco di Gianni Letta, come Bertolaso appunto, e come Scelli e Bisignani.

Letta è anche il referente politico della cricca, di Angelo Balducci ma è soprattutto il capo, anzi l’amico composto di quella brutta Italia che, come nel caso di Fiori, ogni tanto ancora viene fuori da quel Vaticano dei corridoi che è il mondo dei funzionari, dei dirigenti, dei soprintendenti e dei Commissari Supereroi con pieni poteri. C’è ancora in Italia un bertolasismo diffuso che pervade tutto, come un blob che attraversa le fessure e si impossessa dei grandi eventi, delle feste nazionali, delle ristrutturazioni, delle ricostruzioni, dei rifacimenti, degli ammodernamenti, da Pompei sino all’Expo. Abbiamo un commissario persino all’anticorruzione. Dunque quella di Fiori non è solo la storia drammatica di una grande speranza del management pubblico rovinata dalla politica. È anche il sintomo di una brutta infezione della democrazia italiana.

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