Il siciliano muto che si affretta lento MATTARELLA E’ “IL MARTIRELLO” CHE VEDE IL NERO ANCHE NEL SOLE Così nemico degli eccessi, potrebbe essere il presidente che libera il Quirinale e lo trasforma in un museo

Vedovo, dolente e creativo, è facile immaginarlo perduto nell’immensità soffocante del Quirinale come Casimiro, il triste Vicerè di Sicilia, che viveva in una sola stanza “a sognare e a temere il crollo della luna” e tutto il resto del Palazzo “gli era terra straniera”. Soprattutto da quando è morta la sua Marisa, Sergio Mattarella cerca la compagnia del “caro paralume” che Massimo Severo Giannini consigliava ai suoi allievi. E quel paralume , “meglio se verde”, è per Mattarella la metafora della lettura ma anche della solitudine e della malinconia che nella sua rara Sicilia “dolorista” è il contrario dei carretti colorati e del bacio, rituale del comparaggio sia nella forma del vasa vasa pubblico di Totò Cuffaro sia in quella del bacio segreto che Andreotti (non) diede a Totò Riina.
E sto dicendo che nel compromesso e nella mediazione, il siciliano schivo, coperto e cauto, non trova mai la festa ma sempre quel tormento, che il più dolorista di tutti, Aldo Moro, chiamava “senso della storia”, e che lo spinse sino alle geniali e mostruose invenzioni del Mattarellum. All’inizio, da siciliano tragico e superbo che brancatianamente vede il nero anche nel sole, lo umiliava che “Mattarellum” fosse entrato nel vocabolario come sinonimo di pastrocchio e di inciucio. Credeva davvero che potesse passare alla storia con gli strambi nomi di ‘scorporo’ e di ‘doppio turno di coalizione’ quel suo raffinato ossimoro che è il maggioritario proporzionale, traduzione italiana del mito anglosassone, della civiltà dell’ alternanza e della stabilità.
Quando, ai tempi della Bicamerale, lo avevano visto uscire dalla casa di Gianni Letta dove aveva cenato con Berlusconi e Fini, così Mattarella si giustificò con l’allora cronista dell’Unità Rosanna Lampugnani: “Davvero credete che nel 1947 non ci fossero cene e incontri riservati? L’articolo 7, per esempio. Pensate che si sarebbe potuto scrivere senza contatti riservati tra Togliatti, De Gasperi e il Vaticano?”. Mattarella è insomma convinto che cenare in casa del diavolo sia una pesante necessità morale, un tipico dovere da padri della patria, non una gioia maligna come nell’andreottismo, o un’avidità allegra come nei socialisti, o una superbia elitaria come nei comunisti, meno che mai un arraffa arraffa come nel berlusconismo.
“E’ dolorismo siciliano” concludeva il suo amico Rino Nicolosi che, evocando l’antica eresia cristiana, aveva soprannominato Sergio “il Martirello”. E non solo perché era fratello di un eroe martire dell’ antimafia ma anche perché viveva la politica, alla quale aveva cercato fortemente di resistere, con la sofferenza tipica appunto del moroteismo e in più quel tocco speciale di antropologia dei siciliani sciasciani “di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio” come sta scritto nella dedica di ‘Morte dell’inquisitore’ che racconta di Diego La Matina, l’eretico racalmutese arso sul rogo di Palermo nel 1658. E come Sciascia, Mattarella è un siciliano muto, di quelli che coltivano l’utopia del Tommaseo che sognava di coniugare la concisione con la precisione. Ama così tanto la parola da considerarla uno spreco. Un taciturno palermitano con il tormento della politica, dunque, venuto a fare l’ originale a Roma, dove aveva studiato da ragazzo quando il padre Bernardo era ministro di Aldo Moro. Anche Sergio Mattarella – come Sciascia, Sellerio, Bufalino, Consolo -, imponeva il suo silenzio ai commensali, sempre quelli, che si portava dietro, tutti con gli occhi perduti dentro il piatto. Ne cercava la compagnia per mostrare la sua solitudine, che è quella della Sicilia terragna, Sicilia di scoglio diceva ancora Sciascia e non di mare aperto, mai di avventura. Di nuovo come Sciascia, che non fece mai in tutta la vita un solo bagno al mare, Mattarella non sa nuotare, ha bisogno del ‘ciambellum’ nonostante la bella casa di Scopello dove la famiglia andava in villeggiatura. Sono così i siciliani muti, nodosi, solitari, sobri, schivi e diffidenti, insomma i tanti siciliani fuori genere : il mare per loro è ancora il pericolo, non più dell’invasione ma dell’allegra follia, del puro capriccio dell’amore o di una pugnalata e della felicità sanguigna. Capita anche che questi siciliani d’altra razza abbiano dettagli fisici in dissonanza, i riccioli d’oro di Vincenzo Bellini, l’altezza dinoccolata di Bufalino, il rosso dei capelli di Antonio Sellerio, la bellezza nordica di Ludovico Corrao, la voce rauca da jazzista nero di Mario Biondi, il volto sufi di Battiato, i dolci colori di Stefania Prestigiacomo, gli occhi grigi di Anna Finocchiaro, e gli occhi di Sergio Mattarella che non solo sono celesti ma sono ipercontrollati, più di quelli di un piemontese. Al contrario di Calogero Sedara che istintivamente si passa una mano sugli occhi e cambia lo sguardo, mai il sentimento di Mattarella arriva sino a lì. “Guardalo – diceva Marcello Pera a Silvio Berlusconi – sembra uscito da un racconto curiale “. A Palermo il professor Virga, che gli fu maestro, riferiva a lui un famoso e dotto aforisma: “Sergio si affretta sempre, ma lentamente”. E Calogero Mannino: “E’ tenacissimo e insistente come la goccia che cade e poi ricade, ricade, ricade…”. E non è vero che sia il grigio il suo colore. In Sicilia il grigio non esiste. Il suo colore è il celeste degli occhi controllati e controllori, che può essere raccontato come un blu stinto,un blu indebolito, il gozzaniano “azzurro di stoviglia” oppure come il cielo; ed è vaniglia la sua personalità: dolciastra indecisione o sobrietà e festa di nuances?
E chissà come sarà, a partire da oggi, il suo Quirinale nella notte che per il Vicerè Casimiro “era l’ora delle ombre, delle apparenze, di fumose e sbieche riflessioni: ed ecco le Regine tiranne, i Cancellieri subdoli, i Ministri ladri, i violenti Donatori d’abbazie, i Vescovi impietosi…”. In fondo sa molto di Sicilia lo sfarzo inutile e inappropriato del Quirinale che forse Mattarella, nemico di ogni eccesso estetico, umbratile e sensibile siciliano fenicio che non perdona, potrebbe finalmente liberare dall’ingombro della presidenza e trasformare in un museo.
“Per un cristiano la politica è insieme doverosa e impossibile” dicevano sia Mattarella e sia Martinazzoli che era bresciano e, somigliando ai Cristoni scalpellati e con pochi capelli della sua terra abitata dai santoni, si meravigliava che il Cristo di Mattarella non somigliasse alla Sicilia dei carretti e non fosse dunque colorato e sanguinate come nelle processioni di Palermo, quelle con le sette spade che trafiggono il petto dell’Addolorata, ma fosse invece di filigrana sottile, il Cristo con il sorriso dolce e amaro di una vita che è stata investita dalla tragedia.
Ma non bisogna credere che sia stata tutta così la sinistra democristiana perché, per esempio, allegrone e bon vivant era Marcora, e c’è pure De Mita che è stata tutta un’altra faccenda. “Io – mi disse una volta Mattarella – ho l’orgoglio della storia migliore della Dc che è un momento importante della storia migliore del Paese”. E non è vero che rientra dalla porta del Quirinale il partito torrido e fronzuto che, via Palermo, era stato espulso dall’Italia. Sergio Mattarella, proprio grazie alla tragica Sicilia mafiosa e antimafiosa a cui appartiene, fu infatti la faccia drammatica dell’altra Dc, quella che dentro la Dc svolgeva il ruolo dell’anti Dc, quella che appunto già allora si ‘scorporava’ da sé, dal padre Bernardo, che fu un notabile palermitano , ma anche dal fratello Piersanti che era il suo opposto, il siciliano allegro, chiacchierone e spavaldo, l’hidalgo di quella Sicilia “che è più Spagna della Spagna”. Fu infatti Sergio che diede vita alla primavera palermitana di Orlando, Sergio che cacciò le clientele ereditate dal padre, Sergio che ora non ha clero, non ha uomini nelle commissioni, negli enti locali, in Parlamento e neppure fa paura ai giornali. Non esiste il mattarellismo perché Sergio fu la Dc che in nome della Dc avvelenò i pozzi di casa. “Sergio diceva anche nei comizi – racconta oggi Vito Riggio – che la sua, la nostra, era la Dc come doveva essere, e non com’era”. Da vicesegretario di Forlani apertamente criticava Forlani che reagiva così: “Sospetto che il mio vice faccia in realtà le veci di qualcun altro, ma non ho capito di chi”. E Andreotti, di cui fu ministro della Pubblica istruzione: “Quel Mattarella che rilascia dichiarazioni contro il governo dev’essere un omonimo del ministro che sta nel mio governo”. Ecco, Mattarella fu il sabotatore della casa, l’invenzione più riuscita della demo cristianità siciliana: quella che l’ avvelenò per purificarla. Adesso, quando ormai non ci pensava più, il siciliano più testone d’Italia la riporta nel Palazzo del viceré Casimiro dove” si scrostano gli ori, crepano i cuoi,si scollano gli affreschi, le portantine crocchiano, s’ affumicano i topazi, bruniscono gli argenti, muffiscono le sete, fioriscono d’arsenico i bronzi e gli oricalchi”.

16 thoughts on “Il siciliano muto che si affretta lento MATTARELLA E’ “IL MARTIRELLO” CHE VEDE IL NERO ANCHE NEL SOLE Così nemico degli eccessi, potrebbe essere il presidente che libera il Quirinale e lo trasforma in un museo

  1. manuela mori

    Vorrei sapere da quale opera è tratta la citazione su “Casimiro il triste Vicere di Sicilia che si era ristretto a vivere in una stanza sola”.
    Grazie.

      1. manuela mori

        Grazie per la sollecitudine. E non si preoccupi, l’indicazione è sufficiente per approfondire, mi sembra un argomento affascinante. A presto rileggerla, con il piacere di sempre.

  2. salvo scibilia

    Sul tema Mattarella non leggerò altri articoli che sforzano di rendere un colore: già lo so che nel migliore dei casi mi mancherebbe il celeste, ne avrei nostalgia. Per giocare con i colori bisogna saper dipingere e non è unai scontato che venga fuori un gran quadro. Hai scritto un gran pezzo, un caro saluto.

  3. Giuseppe Manzionna

    Un bellissimo articolo che delinea in modo chiaro la personalitá del nuovo presidente, che almeno per me era sconosciuta e/o influenzata “negativamente” per le sue origini democristiane. Il mio giudizio si fa piú ottimista dopo la lettura, sempre piacevole, del suo articolo.

  4. dino cavalieri

    caro merlo, nell’legante retorica del momento, troppi paragoni concilianti fra mattarella e sciascia, che non credo amasse ciò che lui rappresentava e chi lui appoggiava….

  5. Gianni Lecca

    L’affresco è visibilmente suggestivo. Ingegnoso il pennello. Giocando in casa, traspare tutto l’uzzolo pittorico di salutare il conterraneo presidente con il miglior armamentario letterario della Sicilia profonda. Dolorismo, taciturnità, tenacità, svelta lentezza, cromatismo oculare. Non come prerogative caratteriali e fisiche di facile riscontro in molti. Il nuovo inquilino del Quirinale si presenta, non come un Riccardo qualsiasi che da solo gioca al biliardo, ma come un Viceré che vivrà il nuovo palazzo, fatalmente, come ermo Colle. Politica e tristezza, insomma. Ascetismo e frugalità di parole (già assaporata, del resto, con quel suo “de hoc satis” alla prima stringata uscita su speranza e dolore italico). Fino agli ingredienti di quella Sicilia terragna, di scoglio, sconosciuta, credo, a molti e che d’ora in poi ci piacerebbe riuscire a indovinare ogni qualvolta ci imbattiamo in un figlio di Trinacria. Ho visto un po’ anche gli altri, ma questo è sicuramente il quadro più stuzzicante che un siciliano, in cerca di trovata fortuna giornalistica altrove, sia riuscito a dipingere. Speriamo, speriamo davvero però che qualche pennellata plumbea, e anche al più presto, sia smentita. Che, per esempio, questo ascetismo a tutto tondo sia intercalato ogni tanto da sprazzi di invereconda ironia, una spezie che sta bene in ogni piatto, anche su quelli dove i commensali perdono gli occhi, e che molti siciliani possiedono in dose niente affatto modica. Non vorremo cioè che questo quadro, per niente riduttivo, sia però anche quello definitivo: un triste Presidente, un Casimiro (che già inculca approfondimenti storiografici) redivivo e che aleggia nel colle più alto solo come figura letteraria, solo come affascinante convergenza parallela. Quando invece ha tutta l’aria di una insolita buona trovata uscita finalmente dal cilindro della politica.

    P.S. : posso chiedere all’autore i tempi di stesura? Uscito il 31, la mattina, quando non ancora si aveva la certezza dell’elezione, anche se ce n’erano tutti i presupposti, il pezzo sembrerebbe redatto il giorno prima. Ma è talmente armonioso, ricco di riferimenti, di virgolettati e di così piacevole lettura che, agli occhi del semplice lettore, anche la performance del giorno prima sembra incredibile. Non sarà che, addetto ai lavori e previgente come sibilla, questo pezzo, sorta di “coccodrillo” ad vivum, l’abbia redatto un po’ prima? Una futile curiosità: me la esaudisce?

    1. carmelo

      Caro Francesco Merlo per leggerla come tanti lettori è un vero piacere della mente , io sono un vecchio lettore di Repubblica e per molti aspetti tranne le dovute differenze mi ricorda il grande Beniamino Placido , un grande meridionale di cultura e cuore universale.
      Quello che vorrei dirle a proposito del discorso di insediamento del Presidente Mattarella dove molto si sono cimentati, ma quello che si nota da distanza anche siderale è il discorso della beatitudini della montagna del vangelo ( beati i poveri…ecc). Forse qualcuno l’avrà notato. Se così non importa. Un caro saluto

  6. Pippo

    Complimenti a Merlo, un pezzo di rara bellezza, che coglie l’aspetto apparentemente più contraddittorio: di un “dolorismo siciliano”, cioè, che ha avuto tenacia combattente in uno dei periodi di difficili della vita pubblica siciliana – mentre il dolorismo richiamato del viceré, per quanto anch’esso molto siciliano, è di segno opposto, inerme ed estetizzante.
    Inoltre, profilo del nuovo Presidente – com’è stato giustamente già detto – rievoca quello di un non-siciliano, Aldo Moro, altro personaggio grande e tragico della nostra storia. Scomparso nel tentativo di risolvere un nodo fondamentale della nostra storia e il cui esito abbiamo pagato parte del nostro ritardo storico a essere un Paese moderno. Dopo un secolo, tanto sembra passato, l’erede di quella tradizione viene, ci auguriamo, a aiutare un “Paese spaesato” e con un’idea evanescente di futuro e aiutarlo a essere più adeguato e moderno, mantenendo il meglio del passato.

  7. Angelo Libranti

    L’articolo, certamente preparato prima dell’elezione, restava valido anche in caso di non elezione, come a dire: cosa avete perso!

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