L’ ITALIA DELLA MUSICA, CHE AMA I TROMBONI, FA SCAPPARE I MAESTRI L’addio di Muti all’Opera di Roma violentata da sindacati, sindaco, sovrintendente, ministro…

La fuga di Riccardo Muti dall’Opera di Roma arretra l’Italia come le sconfitte della Ferrari, il fallimento dell’Alitalia, il tramonto della Fiat. E a Matteo Renzi dovrebbe stare più a cuore della mozzarella di Eataly e del gelato di Grom, anche perché nel trionfo del grottesco mobbing sindacale degli orchestrali più pagati del mondo contro la bacchetta più geniale (e più fragile) c’è l’articolo 18 suonato nel Golfo mistico. C’è per, parlare con Renzi, “la coperta di Linus della sinistra” e “la vecchia guardia” di Cgil e autonomi che spacciano il privilegio per diritto. E la clientela e il comparaggio travestono di cultura, quella dei “lavoratori dello spettacolo” per dirla in sindacalese da bacheca.
I dispiaceri, gli ohibò, i caspita e i mizzica del sindaco Marino, del sovrintendente Fuortes e del ministro Franceschini sono il nuovo manierismo romano della decadenza. Non più il “ma che ce frega, ma che ce ‘mporta” dei Magnaccioni, ma il dare la colpa agli altri: “alla dissennata gestione che ci ha preceduti”, che è lo scaricabile; “al sistema musicale”, che è il legno storto dell’umanità; alla “conflittualità interna” che, per la verità, ha avuto per protagonisti anche Marino, Fuortes e Franceschini che ora disbrigano la ‘rogna’ Muti come le buche sulla Laurentina, l’infruibilità della Domus Aurea, le bottigliate nelle strade della movida.
Certo, è vero che ovunque la musica va in distorsione. A Genova per un’ ipotesi di corruzione di 50 milioni. A Milano per il conflitto di interessi del sovrintendente Pereiera che ha comprato per sé da se stesso: “parla di sé, tra sé e sé” cantava Gaber. A Torino perché l’artista Noseda è stato messo in fuga dal politico Vergnano. Il San Carlo di Napoli è commissariato. I teatri di Palermo e di Firenze sono appena usciti dal commissariamento. Il Comunale di Bologna ha una vita ‘povera e nuda’. Sino all’Orchestra Sinfonica Siciliana assegnata da Crocetta a una brava amministratrice di palestre, Valeria Grasso, per meriti …antimafia, come ha notato Gioacchino Lanza Tomasi.
Ma è con Roma che si arriva al collasso dell’ orchestra-Italia profetizzato da Fellini. E’ a Roma che il fallimento brucia di più, perché Muti è unico e perché finalmente la capitale sembrava avere un teatro all’altezza dell’antica storia dei Gavazzeni e dei Von Karajan.
Va sottolineato che Muti fugge da Roma com’era fuggito dalla Scala nel 2005. Allora il maestro, cittadino del mondo e musicista con il diavolo in corpo, per salvare il proprio passato si rese invisibile eliminando fisicamente tutte le foto e le immagini di sé che stavano scolpite negli annali, nella pubblicità, nel sito Internet. Ora se n’è andato con un fax da Chicago, dove dirige una delle ‘big five’, e forse ha fatto una breve telefonata, ‘una frase, un rigo appena’, e mentre gli abbonamenti sono in corso. Non dirigerà l’Aida né ‘Le nozze di Figaro’.
In sei anni, con la testardaggine del carisma (“alla peggio muovo le braccia e qualcosa sempre succede”) Muti era riuscito a trasformare il teatro peggiore del mondo, una specie di Armata Brancaleone di legno e ottoni, in un gioiello di fossa. Certo, l’uomo è vezzoso, non tollera le critiche ma, a parte la caduta di stile del ‘tengo famiglia’ con la regia di Manon Lescault alla figlia Chiara, l’età lo ha reso più sobrio e forse la morte di Abbado gli ha affidato una malinconica saggezza e magari pure qualche rimpianto (rimorso ?) per quel passato di “bollenti spiriti” e “giovanile ardore” , quando l’ Italia, invece di andar fiera dei suoi due grandissimi direttori, si divideva in mutiani e abbadiani, facendo partiti del talento che non ha partito.
Di sicuro nel 2011 il bis del Nabucco “per la cultura italiana lontana e perduta”, cliccato su youtube più di Pavarotti e Bocelli, rese mitica un’orchestra di 8 sigle sindacali e 7 note musicali. E il Macbeth purificò la giungla dei patti integrativi. Poi la vecchiaia del Simon Boccanegra sublimò l’anzianità degli straordinari crescenti. E la forza dell’Attila acquietò la piccole barbarie dell’orario: su 180 giorni, ogni primo strumento ne passa la metà in legittimo riposo contrattuale: “notte e giorno faticar/ mangiar male e mai dormir”. Pensate che solo per spostarsi dall’Opera a Caracalla gli orchestrali godono di un’ indennità: il quarto d’ora a piedi più pagato del mondo, esteso anche a chi non si sposta ( gli amministrativi) perché qui i fermi si muovono.
Eppure un giorno, dodici dei primi strumenti, tutti Cgil o Fials, irruppero come furie nel camerino di Muti. E invece delle prove si riunivano in assemblea. In venti si sono poi ‘ammalati’ per non andare in tournée. Al Lago dei cigni non si presentarono, ma una registrazione li sostituì. Ogni volta che la direzione toccava a Muti le minacce di sciopero andavano in crescendo per costringerlo a mediare. E lui si prestava: “sopire e tacere”.. Sino allo sciopero per la Boheme, eseguita a Caracalla con il solo pianoforte.
Ma non si può dare tutta la colpa agli orchestrali sindacalizzati e assolvere il sindaco, il sovrintendente, il ministro e magari anche quel solito alto (altissimo) funzionario, Salvo Nastasi, a cui tutti da almeno dieci danno colpa e merito di tutto. La verità è che l’Italia predilige i Tromboni e fa scappare i Maestri, affida le istituzioni culturali alle clientele e al pascolo della retorica ma non regge la bellezza e la grandezza. E dell’artista asseconda soltanto i capricci.

2 thoughts on “L’ ITALIA DELLA MUSICA, CHE AMA I TROMBONI, FA SCAPPARE I MAESTRI L’addio di Muti all’Opera di Roma violentata da sindacati, sindaco, sovrintendente, ministro…

  1. walter

    Ho letto con interesse e condivido la sua implacabile fotografia. Ma nella lunga disanima dei teatri lirici italiani manca la foto di quello cagliaritano che ha una gustosa e interessante storia da raccontare. Anche questa tutta dentro la realtà quotidiana di antichi vezzi e costumi d’Italia.

  2. Renata Moro

    Caro Francesco Merlo,
    mi ha sorpreso la sua veemente difesa degli orchestrali del Teatro dell’Opera di Roma. Se è vero quanto scritto sul suo giornale, non vedo francamente come si possano far passare come vittime, risultano effettivamente appartenere a una cerchia di privilegiati che ha passato la misura. Certo non sono loro l’unico problema della gestione deficitaria del teatro dell’opera, ma per quanto loro compete ne rappresentano una parte significativa. Mi chiedo se tutti gli altri teatri nel mondo che lei ha citato, con musicisti a tempo indeterminato, avrebbero mai tollerato le prove di forza messe in atto dagli orchestrali dell’Opera di Roma. L’Italia è divisa tra chi può godere di una qualche tutela, fino ad arrivare al privilegio, e una grande massa di genete che invece ne ha di minime o nessuna. Mi colpisce la totale mancanza di empatia tra queste isole e isolotti di privilegiati (penso anche ai minacciati ricorsi dei dipendenti delle Camere) con il resto del Paese che non ha mezzi sufficienti per la sopravvivenza. Secondo lei, cosa dovrebbe pensare chi vive con 5oo€ (o meno) al mese (il 50% dei pensionati, leggo su Repubblica Economia), o chi non riceve i 400€ dell’assegno di accompagnamento perché ha ‘solo’ un’invalidità al 100% ma può ancora camminare? O quel 44% di giovani senza lavoro? Suona demagogico ma a me sembra simbolico: l’Italia è ancora un paese di corporazioni piccole e grandi . Lei giustamente cita l’articolo 18, ma se da una parte la tutela dall’arbitrio è sacrosanta, dall’altra è anche vero che l’Italia è un paese dove non si può essere licenziati neanche quando si viene sorpresi a rubare. Io credo che la più grande rivoluzione sarebbe proprio quella di avere una legislazione del lavoro che rispecchiasse la realtà del mercato, che si regge su un liberismo senza controllo (finte PI, contratti a progetto impropri, ecc), garantire
    giusti dirittigiusti a tutti ed educare gli italiani in questo senso. Le sembra utopico? Volendo nulla lo è, credo anzi sia inevitabile per uscire dalla nostra arretratezza.
    La ringrazio per l’attenzione
    Renata Moro
    Traduttrice
    Roma

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