PERCHE’ DIFENDIAMO ERRI DE LUCA E LA LIBERTA’ DI (CATTIVO) PENSIERO “Io, scrittore No Tav in aula per battermi anche se alla fine mi condanneranno”

Pochissimi ne parlano: dopo tanti anni in Italia c’è di nuovo uno scrittore sotto processo. Il reato è d’opinione e dunque Erri De Luca va difeso a prescindere. E però, quando con la sua Audi blu mi accompagna alla metropolitana e mi dice “vedrai che mi condanneranno”, gli rispondo che non gli faranno quest’altro favore. “Favore? Se vuoi ti elenco le grane in cui mi hanno messo. E i rischi penali che corro”. E devi pagare anche gli avvocati.

Lì, la grana è che non vogliono farsi pagare”. Gli dico pure che, da quel poco che so di procure, il nuovo capo di Torino non l’avrebbe neppure incriminato. “Non credo che io possa piacere ad Armando Spataro”. Non saprei, ma non c’entra nulla. “Certo, lui è quello che ha tenuto testa agli americani”. No, è che mettere sotto processo le parole di uno scrittore è il medioevo del diritto, una manna per i violenti antimoderni che, protetti dalla sigla No Tav, hanno trasformato la Val di Susa in un centro sociale a cielo aperto e ora spacciano gli incendi e gli assalti per reati d’opinione. Come se fossero tutti scrittori con la lingua sciolta. Per la procura di Torino è terrorismo. Non ti senti prigioniero dei No Tav? “Ma no. Loro sono solidali e basta, non mi domandano nulla, organizzano letture pubbliche dei miei libri, sono vicini come sempre, sono anni che manifesto con loro. Sono ribelli civili, certamente non terroristi”.

Malinconico ma sorridente, estremista triste ma ironico, De Luca sa che il tribunale è il tempio dove tutti gli artisti sognano di essere santificati: “A gennaio, nel processo, mi comporterò da parte lesa”. Insomma la procura di Torino, incriminandolo per istigazione a delinquere, lo ha promosso a diavolo dello spirito, come Marinetti, Guareschi e Pasolini, Moravia e Testori, Bianciardi, Tondelli e per ultimo Aldo Busi, che si presentò in aula vestito di bianco e poi telefonò alla mamma: “È andata male. Mi hanno assolto”.
Perché mai, chiedo, dovrebbero invece condannare te che hai detto qualche brutta castroneria contro i treni veloci? “Io non sono contro i treni. Sono contro “quel” treno veloce, perché “quella” montagna è velenosa. Bucarla significa liberare amianto…”. So che i No Tav si arrabbieranno ma, pazienza, a questo punto ci fermiamo: “Lo so, non sei qui per fare un dibattito sulle ottime ragioni dei No Tav”. La scienza e l’ermeneutica del movimento mi ricordano l’opuscoleria rivoluzionaria degli anni settanta che spiegava il mondo in trenta pagine e permetteva di citare il valore-lavoro saltando la lettura di Marx, manuali del pensiero veloce che oggi, via web, mettono i “rivoluzionari” in confidenza con la geologia, l’economia, l’ecologia, l’ingegneria…

E però come è arrivato a fare l’elogio del sabotaggio lo scrittore più prolifico d’Italia? “Non so quanti libri ho pubblicato. Credo più di 60″. E sono romanzi e racconti asciutti, misurati e poetici. Certamente è uno degli autori più letti e più amati, non solo a sinistra. “Per fortuna vanno bene. Cominciai a scrivere a sei anni: la storia di un pesce che si ribellava alle favole di Esopo. Oggi Feltrinelli non riesce a starmi dietro. E ogni tanto pubblico, gratis, per piccoli editori”.

Il viso è scavato, la biografia è quella del vagabondo inquieto: “Sono scappato di casa a 18 anni: da Napoli a Roma, un letto in una camera ammobiliata in via Palestro”. Perché ti chiami Erri? “Mia nonna era americana. Ma scrivo Henry come l’hanno sempre pronunziato: Erri”. Piace ai suoi lettori romantici che sia stato muratore, operaio, camionista e autista nella Belgrado bombardata. Non cammina ma incede, con lo zainetto di libri.

È stato “responsabile del servizio d’ordine romano di quella Lotta continua che il gruppo dirigente non avrebbe dovuto sciogliere”. Ha lavorato in Africa, “dove mi sono ammalato di ameba e malaria, e forse per questo sono rimasto così magro”. Da quando i libri gli hanno dato l’agiatezza – “mai stato così bene anche se io mi costo pochissimo” – scala le montagne: “In onore di mio padre alpino imparo a fare i conti con me stesso e con la mia fatica”. Le pareti di roccia sono come i testi sacri che, ormai da anni, studia e traduce: “Un altro modo per arrivare in alto”.

Vive vicino a Bracciano: una vita mite, da poeta, “in mezzo agli alberi” che pianta “per pagare il mio debito alla natura”. Da solo? “Mia madre è stata con me per 19 anni. Era una mamma napoletana che, per amore del figlio, si era reclusa”. Scrive sempre, “ma non con l’orologio”. Racconta così l’inizio delle sue giornate: “Mi alzo presto e leggo testi sacri. Poi, se il tempo me lo permette, vado a nuotare nel litorale romano. Non sono socievole. Con gli amici mi diverto ma, se posso, preferisco stare zitto”. Scuola? “Pessimo. Studiavo molto e rendevo poco. E odiavo la filosofia perché la mia professoressa, un gran personaggio, aveva una voce che non sopportavo fisicamente. Vera Lombardi si chiamava. Era la sorella di Riccardo Lombardi”.

Come tante eccellenze letterarie, detestava la scuola ma non l’imparare. E infatti alle lingue difficili è arrivato da autodidatta: “Traduco dall’ebraico, dallo yiddish e dal kiswahili, un dialetto che si parla in Tanzania”. Contestato dagli esegeti cattolici, ha tradotto la Bibbia (Feltrinelli) “alla lettera della lettera per cogliere lo spirito dello spirito della lingua ebraica” scrisse Beniamino Placido: “Ce ne fossero di don Chisciotte come lui”. Non si è mai sposato: “L’ho chiesto un paio di volte ma mi hanno detto no”. E a te non l’hanno chiesto? “Se l’hanno fatto non me ne sono accorto”. Dice di non avere mai indossato la cravatta “tranne a Cannes quando mi hanno chiamato nella giuria del festival”. È del 1950 e ancora oggi “sento l’appartenenza a quella generazione che voleva cambiare il mondo e l’ha solo migliorato”. Per chi voti? “Non ho mai votato. Per me è come la renitenza alla leva”. Chiama gli anni di piombo “anni di rame” “perché c’era come un filo di metallo conduttore attraverso cui si propagava ogni lotta, ogni impegno, ogni fierezza”. E anche ogni attentato. “Gli attentati li abbiamo subiti”. Non parlo delle bombe nelle piazze e sui treni che tutti hanno subito, parlo degli omicidi feroci, dei vili spari alla nuca, alle gambe… “Ci fu una guerra”.

Secondo De Luca nessun terrorista di quegli anni dovrebbe stare ancora in prigione. È di quelli che pretendono la soluzione generazionale: “Terroristi? Vado a trovarli in carcere, anche se li conosco poco: sono casi clinici. Ci vado come si va in un lazzaretto. Vorrei che uscissero anche per non vederli più”. Hai davvero nostalgia di quegli anni orribili? “Nessuna. Mi piacerebbe che gli intellettuali tornassero a sporcarsi con le cose del mondo. E da quella storia non mi sento ancora sciolto, sentimentalmente”. E vuole dire, con Borges, che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consiste in realtà di un solo momento: quello in cui un uomo sa per sempre chi è”.

Ecco all’ingrosso com’è fatto De Luca e da dove viene il suo esecrabile errore sulla val di Susa. C’è persino il “Poveri ma belli” della zia Lorella De Luca, “che è morta da poco a Santa Marinella”, tra le ragioni antiche che lo portano all’idea bizzarra che il sabotaggio di un cantiere sia una ribellione giusta e che le cesoie siano benemerite: “Ma ti pare che se davvero avessi voluto istigare alla violenza avrei parlato di cesoie? E quanti significati ha in italiano la parola sabotaggio?”. Tanti. Ma il processo non sarebbe giusto neppure se il significato fosse solo quello che i pm hanno contestato, violando le antiche saggezze sulla libertà di cattivo pensiero: “cogitationis poenam nemo patitur”. Perché credi che ti condanneranno? “Perché hanno messo in piedi un tribunale speciale che ha fatturato più di mille procedimenti giudiziari”. Ti assolveranno. “Scommettiamo una cena al Tram Tram, a San Lorenzo, dove l’antipasto di alici fritte è magnifico”.

Prima del processo, De Luca pubblicherà un pamphlet sul diritto di parola: “Non ho intenzione di difendermi ma di attaccare”. E infatti ha rifiutato il rito abbreviato “perché sarebbe stato a porte chiuse”. Ecco: un libro che finisce in tribunale è il libro che meglio onora il proprio atto di nascita, come sanno bene i pubblicitariche per uno straccetto di scandalo sarebbero disposti a tutto. Dunque il chiasso e il fumo e la maledizione come attributo d’onore e pozzo profondo dell’arte sono le sole ammissioni che mi concede: “È vero. È come se avessi vinto un premio letterario”.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>