A pranzo con ( 6) — ANGELO GAJA —- IL MOZART DEL VINO

GQ (Numero di marzo 2014)
La crisi? “Hanno smesso di comprare anche quelli che non pagano”. E’ fulminante l’ aforisma di Angelo Gaja, il più celebrato produttore di vini italiani. Gli riferisco che il mitico Tachis, l’enologo che ha inventato il Sassicaia, ha detto: “Gaja è il Mozart del vino. Tutti gli altri sono Salieri”. Mozart però era esibizionista, mentre Gaja non si fa mai intervistare e non vorrebbe farsi fotografare. “Per anni ho resistito, come un iceberg, all’onda calda delle istantanee”. L’ho visto combattere e vincere contro il suo amico Oliviero Toscani: “In Italia tutti si mettono in posa”. Ma si può sfuggire all’immagine? “La sola maniera per non essere fotografato è fotografare”. E dunque? “Quando rinasco, faccio il fotografo”.
Come mai in Italia ci sono così tanti produttori di vino? Dice: “Saper bere è saper vivere”. Insisto: non è possibile che proprio qui l’homo sapiens stia evolvendo nell’ homo bibens. Qual è il trucco? “Ogni anno lo Stato dà 7 miliardi all’agricoltura, troppi. Apparentemente aiutano l’artigiano, ma in realtà lo danneggiano”. Ammette che sono troppi anche gli ‘intenditori’ e ridiamo di chi ha scritto che ‘al naso si avvertono violetta, erbe di campo, pepe, tabacco e confettura rossa’: “Passeggia dentro le parole dimenando l’anca. Ma non è facile raccontare il gusto. Borges, che era cieco, diceva di ‘sentire’ i colori e Beethoven che era sordo ‘vedeva’ la musica. Forse con il vino si può andare oltre l’olfatto e il gusto, sino alla vista, al tatto e all’udito”. Quello di Gaja è un vino molto raccontato anche perché berlo può costare molto: “Del vino bisogna parlare e scrivere. Non è come la coscia di pollo che, scritta, non sa di niente”. La risata di Gaja è bella sonante, è autoironico persino nelle famose etichette, come il Darmagi, che in piemontese è il “Che peccato!” pronunziato dal padre quando vide la terra del Nebbiolo transustanziata in Cabernet. C’è il vino capolavoro, come i Sorì, che vuole dire Sommità, e lo Sperss, Nostalgia; e c’è il vino rischio come il bianco toscano “che è un azzardo perché i bianchi in Toscana sono, diciamo, difficili”. Dunque “l’ho chiamato “Vista mare” ispirato a quelli che vendono case piccole e brutte dicendo: ‘però è vista mare’”. La moglie Lucia, che è più Gaja di Gaja, teme che non tutti capiranno: “L’ironia è sempre rischiosa”.
Nel paese del capitalismo rovinato dai figli, Gaja è un’impresa familiare riuscita: tre generazioni. La sua filosofia è finita tra gli slogan di Matteo Renzi attraverso Oscar Farinetti, anche lui di Alba: “Fare, saper fare, saper far fare, far sapere”. Furto di idee? “Farinetti è abilissimo a vendere. E’ una frase di mia nonna”. Gli dà il permesso? “Io sì. Mia nonna no”.
Sono stato in una cantina francese dove fanno sentire la sinfonia numero 41 di Mozart all’uva e al mosto: ‘Sonor Wines’. Sornione, Gaja mi porta a ‘vedere’ la sua musica: “Qui ho piantano 360 cipressi, e gli oleandri …: gli uccelli nidificano e fanno musica. E qualcuno dice: ‘come è bizzarro quel Gaja che fa vino con i cipressi’”. A Barbaresco ha ristrutturato un piccolo castello dove mette in esposizione i suoi tesori e sembra non esserci mentre dirige, smista e anche evita. Spiega il vino a un gruppo di tedeschi e io racconto che c’è il suo Nebbiolo persino nell’Inferno di Dan Brown: “L’ho letto, certo”. Pubblicità? “Spontanea”. Gaja è un lettore onnivoro che aspira alla velocità, nel passo e nel pensiero: il vino come un quadro di Balla? “No”. Solo andare in auto con Gaja è una pericolosa avventura aeropittorica “ma nell’agricoltura vale il principio inverso, quello della libertà relativa e dell’attesa faticata, coraggio e prudenza: la terra è il posto meno liberale del mondo, una babele dove ci si perde”. Perché? “Perché il tetto della vigna è il cielo”.
Viaggiamo nel paese delle meraviglie: “100 ettari, 28 appezzamenti, 20 chilometri. Questo è il letame di mucca da latte, 50 tonnellate; e questi sono i vermi rossi”. E lì ci sono “due grandi vasche di zeolite, un minerale che sperimento da tre anni: pulisce le acque nere, al punto che le puoi bere”. E parliamo del cambiamento del clima e dei nuovi, terribili parassiti: “le aziende chimiche inventano veleni sempre più potenti che sono peggio dei parassiti: non li uso”. Qui lavorano l’entomologo, il botanico, il biologo: “Non sono contro la chimica ma la voglio dominare”. Le cantine? “4800 metri quadri di bellezza nascosta”. Quella di Bolgheri è magnifica: “Mi affido all’architetto Bo che mura il vecchio dentro il nuovo. Guardi quelle putrelle che diventano garze sulle ferite”. Gli piace anche “l’architettura vestita di vento”. Mi mostra le case che dà ai dipendenti: “24 famiglie. Macedoni, polacchi, rumeni, indiani”.
Oltre le colline ci sono le montagne della lotta partigiana di Pavese, Fenoglio, Giorgio Bocca. Ad Alba ci sono la Ferrero, c’è Miroglio, quello dei tessuti, c’è Mondo, che è il più importate produttore di campi sportivi del mondo, e Farinetti; vicino c’è Carlin Petrini con lo slow food. Qual è il segreto? “C’è una cellula liberale perché qui sono nati Cavour, Einaudi, Giolitti. E abbiamo trasformato in forza le debolezze. Qui si giocavano le mogli a carte. E si ubriacavano anche i bambini. Ebbene, il gioco d’azzardo è diventato impresa; e l’alcool vigne e cantine”. In estate l’Unesco proclamerà queste colline patrimonio dell’ umanità, “sono le colline del barbaresco, del barolo, del moscat0o”. Gaja produce “meno di un milione di bottiglie all’anno: l’ottanta per cento va all’estero”. Non è stato mai tentato dalla produzione di massa? “No. ‘Less is more’”. Suo padre nel 1948 abolì la mezzadria: “anticipò di 16 anni la riforma agraria per costringere i contadini a produrre meno uva: il meno è meglio”.
E’ il primato della qualità sulla quantità: mangiamo all’Antica Torre, ed è come fare uno stage di gastronomia, molti piatti, tre vini. Gaja mangia poco di tutto, le misure della qualità sono “una grattata di tartufo”, “un nonnulla di vitello tonnato”, “un’ombra’ di carne cruda”, e anche il coniglio al forno dura “il tempo di un paternostro”. Solo i tajarin al burro e salvia sono “più di un soupçon “ perché la qualità si deve sospettare, è vaghezza, “e al ristorante bisogna poter parlare senza musica e frastuono che è quantità, volume. Si deve sentire il rumore delle posate sui piatti, un rumore di cui nessuno più si accorge”.
E la qualità non vale solo nel bere e nel mangiare. “Compro almeno sei quotidiani al giorno ma seleziono le firme che mi piacciono”. I preferiti? “Gramellini, Cazzullo…”. Non sopporta neppure il chiasso scritto. Però ha votato Grillo: “Per protesta”. Ma ora non sa, “anche se vorrei ancora protestare”. Se fosse il Governatore d’Italia? “Una legge per proteggere la passione, che non elimina la pioggia, ma è il tergicristallo che permette di andare avanti”. E poi? “Imporrei il silenzio, con l’indice della mano destra sempre sulle labbra: ssst!”, perché l’homo bibens non parla, ma sorseggia, centellina, succhia, aspira, assorbe, tracanna, si disseta, gargarizza, liba, lappa, sorbisce, bevucchia, sbevicchia, sbevazza, ingolla, alza il gomito, s’inebria, brinda, ingurgita, si scola, vuota, si ubriaca, pinta, pompa e si imbiba. Povero Nietzsche! Morì pazzo perché non capì che “è l’Homo Bibens il ponte verso il Superuomo (liquido)”.

One thought on “A pranzo con ( 6) — ANGELO GAJA —- IL MOZART DEL VINO

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>