Francesco Merlo, “Stanza 707″ (Bompiani). L’articolo di Antonio Gnoli HOTEL LUTETIA / IL MONDO IN UN ALBERGO DI DUE SICILIANI A PARIGI

di ANTONIO GNOLI
CERTE volte ho immaginato che le stanze degli alberghi fossero come l’ultima frontiera dell’anonimato e della tristezza. Non esattamente dei nonluoghi, ma piccoli territori clandestini sui quali prosperano storie vulnerabili, sempre al limite: orbite esistenziali che improvvisamente deragliano dalla loro traiettoria e collassano come pianeti esausti. Sicché, leggendo il romanzo di Francesco Merlo, Stanza 707 (edito da Bompiani) — imprevedibile al punto da spiazzarmi per la forza di certi dettagli — mi sorprendevo a pensare, che anche il più claustrofobico degli spazi può trasformarsi in qualcosa di diverso da una caramella dal sapore triste. E mi accorgevo che una storia narrata non è quasi mai una semplice linea tracciata con il gesso della decisione, ma un intrico di segni a volte tragici, a volte ilari, come sa e può essere la vita.

I lettori di Repubblica conoscono Merlo attraverso i suoi articoli. Polemici, arguti, colti senza essere impancati, e sorretti da uno stile predisposto alla letteratura, al sentire profondo di una psiche ironica e corrosiva. E dunque, forte era la curiosità di vederne il travaso nel romanzo, nella più complicata delle arti: quella che in un attimo è in grado di smascherare i nostri difetti di scrittura. Di mettere a nudo le nostre ambizioni mal riposte. E l’esordio è stato, se è possibile anticipare un giudizio, superato brillantemente.

Eppure, in certe pagine, lo sconcerto era forte. Apprendere, ad esempio, che ci sono nel mondo 180 tipi di cornuti, mi faceva pensare alle infinite sfumature che gli esquimesi riservano alla parola “neve”. E mi colpiva, inoltre, che, nell’esergo del romanzo, Merlo avesse apposto due frasi. Una ricavata da Diabolik. L’altra, da una poesia di Montale presa da Ossi di seppia.
A chi erano indirizzate?

L’esergo è una sfumatura dell’anima, un’orma leggerissima, un’impronta che l’autore consegna, più o meno enigmaticamente, nelle mani del lettore. Forse ne capiremo il senso alla fine. O forse no. Intanto c’è la storia. Quella di due giovani che si ritrovano nella stanza dell’Hotel Lutetia di Parigi con l’intento di commettere un furto di gioielli. Il colpo — che consiste nel trafugare un favoloso diamante — sembra facile. Ma tutto si complica quando le vittime, due donne della buona società, tanto belle e disinvolte quanto determinate, reagiscono dando l’allarme. Si crea così una situazione in cui i quattro personaggi saranno costretti a convivere per un po’ nella stanza 707. Assediati dalle forze dell’ordine. Senza saper bene cosa fare. Né come uscire da quel cul de sac.

Eva, la più grande delle due, è un avvocato che difende la causa palestinese (ma non il terrorismo). Alice invece, sia pure in modo insolito, fa parte di quel movimento. Del resto, è nata a Beirut. Quando la città era sotto le bombe (lì, dove i cani erano diventati quello che l’acqua è per Venezia, ci ricorda Merlo). Figlia di un banchiere svizzero e di una donna egiziana con una passione per i documentari. Nel loro ruolo, Eva e Alice (che abbandonò i suoi studi di zoologia per una dissertazione su Lewis Carroll) sono immensamente distanti per censo, educazione, ambiente dai due giovani strampalati e goffi che non sanno neppure legare le due donne, tanto sono inesperti. Iano e Cristiano (che conosce Dante a memoria e lo recita per fronteggiare la sua balbuzie) fanno tenerezza. Vivono in quel limbo in cui ancora non si capisce se diventeranno buoni cittadini o incalliti delinquenti. Certo, oltre a studiare nelle normali scuole di Catania, sono stati educati alla scuola dei ladri dello “zio Gino”: un capo mafioso, disinvolto e ambiguo, che legge perfino Kant!, ma al fondo è duro e crudele. Lo zio Gino, ci rammenta Merlo, un giorno «li avrebbe consegnati all’orrore del delitto e sarebbe diventato il loro padrone per la vita e per la morte». Ma Iano e Cristiano, forse, sono ancora in tempo per cambiar vita. E chissà se proprio l’incontro — fascinoso e ostile — con le due stranissime donne non possa diventare l’occasione per il loro ravvedimento.

Il romanzo di Merlo è dunque all’apparenza un noir. Anzi, per certe atmosfere — che rimandano non tanto a Simenon, dallo stile classico e lineare, quanto (ma riconosco che è una mia suggestione) a Patrick Manchette, che fu un superbo scrittore di storie trasversali e improvvise — l’intrigo avvolge il lettore fin dentro il colpo a sorpresa finale. Come faranno Iano e Cristiano — sprovveduti e violenti, teneri e confusi — a liberarsi dalla trappola in cui si sono cacciati, a uscire senza eccessivi
danni dalla stanza-gabbia in cui si sono asserragliati? Merlo descrive con abilità una situazione che da un momento all’altro è destinata a precipitare. Ma poi, ridimensiona la tragedia, la combatte, con le armi dell’indulgenza e dell’ironia. Cogliendo il grottesco di una situazione la cui conclusione, paradossalmente, sarà affidata alle due donne.

È come se il romanzo, nei suoi personaggi, si regga su una sorta di antropologia parallela. Gli uomini sono buffi, a volte cattivi, sbruffoni, in certi casi goffi. Le donne esprimono una forza che sembra scaturire da una loro remota diversità. E lo si nota non solo nei comportamenti di Eva e Alice, ma anche in certe figure secondarie che arricchiscono la storia. Ecco, dunque, farsi strada improvvisamente il personaggio di Muna de Kalbermatten, la mamma di Alice (bellissima la lettera che scrive alla figlia). Che alle formiche e ai palestinesi aveva dedicato la sua breve vita. Talmente innamorata delle une da finire con il confonderle, o sovrapporle (quasi fosse un esperimento sociale), alle aspirazioni di un intero popolo. Oppure, ma siamo già nella parte finale del romanzo, la figura sorprendente di Agata Scuderi, la mamma adottiva di Iano. Che si era laureata con una splendida tesi sull’olfatto nel Novecento, ed era finita, per amore del suo uomo, a gestire un’infima merceria. Ognuna di queste storie meriterebbe un romanzo a parte, tanto affascinanti e complesse appaiono certe anime femminili insieme candide e sofisticate.
La biografia di uno scrittore può essere qualcosa di superfluo. Può fuorviarci, ma anche chiarire qualche passaggio. Merlo è nato a Catania, ha svolto il lavoro di inviato a Parigi, è stato sui luoghi caldi del conflitto medio-orientale. E questa tessitura geografica affiora come un disegno della nostra contemporaneità. Restituendone storie, drammi, amicizie e amori. Come quello tra Abdel e Eva, tra il terrorista che riscatta la propria esistenza, fino a diventare un insolito tutore dell’ordine, e una donna appassionata di diritti civili.

Strano romanzo, davvero, dove i margini sono altrettanto decisivi del centro. Dove la coralità della storia è data dai frammenti che la memoria dell’autore ricompone. E qui la distanza spesso si fa emozione: diventa un sentimento di gratitudine, senza malinconia, di una serenità senza aberrazione. Dove Diabolik e Montale, non suggeriscono l’alto e il basso che prevedibilmente c’è in ognuno, ma sono i sensori di un’avventura raccontata da uno spirito caustico e anticonformista.
Se mi fosse data la possibilità di calarmi nella mente di Merlo, tra i suoi pensieri spesso affascinanti, vi troverei, forse, un sentire barocco, limitato o contenuto da un bisogno di chiarezza, di pulizia, di ragione illuministica. Si staglierebbe così — come la più familiare tra le esperienze spirituali — la figura di Leonardo Sciascia. Lo scrittore
rivive nel segreto di questo romanzo. Ma senza malinconia, senza pessimismo, senza rassegnazione. Quasi che, Merlo, erede di quella grande storia siciliana, l’abbia conosciuta a fondo e, nell’intimo, sofferta per la sua estinzione. Ma, infine, l’abbia trasformata in una sublime parodia. Il suo mondo in una stanza, in fondo, non ha vere pareti. Ma alberi infiniti, come dice la canzone. Un verso che avrei timidamente aggiunto a conclusione di un lungo esergo.

One thought on “Francesco Merlo, “Stanza 707″ (Bompiani). L’articolo di Antonio Gnoli HOTEL LUTETIA / IL MONDO IN UN ALBERGO DI DUE SICILIANI A PARIGI

  1. vuesse gaudio

    Proviamo a sconcertare Gnoli anche con i 76 cornuti di Fourier? ░
    Questa di Gnoli non l’ho capita: “Eppure, in certe pagine, lo sconcerto era forte. Apprendere, ad esempio, che ci sono nel mondo 180 tipi di cornuti, mi faceva pensare alle infinite sfumature che gli esquimesi riservano alla parola “neve”. E mi colpiva, inoltre, che, nell’esergo del romanzo, Merlo avesse apposto due frasi. Una ricavata da Diabolik. L’altra, da una poesia di Montale presa da Ossi di seppia.
    A chi erano indirizzate?”
    Cosa non ho capito? L’esergo tra Diabolik e gli Ossi di seppia di Montale? Anche. E a chi erano indirizzate, poi, a chi saranno indirizzate se non al lettore, per quanto possa esserci anche un lettore come chi scrive, che, essendo poeta a un passo da Tel Quel e vicinissimo ai Novissimi, sempre per quel che avvenne dopo, intendo dentro la mia biografia,, che, è la biografia, intesa nel senso di Whitehead[Alfred North Whitehead, quello di “Avventure d’Idee”, tradotto dallo stesso editore di Merlo, Bompiani, e che negli anni Settanta trovavi diffusissimo tra i bouquinistes non di Lutetia ma di Torino!] che, lo confesso, ho letto di più lui che Montale e che ho mangiato, però, oltre che le seppie, anche “cozze a mummola” in insalata, e forse questa Manuel Vázquez Montalbán, che se ne intendeva di ricette immorali, se l’era persa. Però di gialli se ne intendeva. Dicevo: che essendo un poeta fatto così, tu come pensi che possa mettersi a leggere un romanzo del tipo di quello prodotto da Merlo? E difatti non l’ho ancora letto. Ora, tornando al passo di Gnoli, che non mi ha fatto prender sonno non solo stanotte ma anche la notte precedente, mi ha preso il suo sconcerto per i 180 cornuti, e anche perché i 180 cornuti gli facevano pensare alle infinite sfumature che gli esquimesi riservano alla parola “neve”. Sapesse come vien giù l’acqua nel sanscrito, di cornuti Gnoli ne vedrebbe 360, uno per grado solare, come se avessimo un calendario tebaico ma gradualizzato a cornuti.
    Comunque, un nesso potrebbe esserci, chi può mettere la mano sul fuoco che Diabolik, beh, chi può negarlo?, quando esce di soppiatto nella notte, Eva Kant non è detto che, quando non gli va dietro, che non vada qualcun altro dietro a lei!
    Basta, volevo dire questo: ‘sti 180 cornuti di cui riferisce Merlo sono speculari alla tavola analitica dei 76 cornuti di Charles Fourier ? E , come domanda a corollario, avremmo: Diabolik sarebbe un cornuto indaffarato, il numero 12 di Fourier, o di prescrizione, che è il numero 11: quello che, in Fourier, fa lunghi viaggi, durante i quali la natura parla ai sensi della moglie che, dopo una lunga difesa, è alla fine costretta dalla lunga durata delle privazioni ad accettare l’aiuto di un vicino caritatevole; in Diabolik, potrebbe fare lunghe imprese, durante le quali la natura parla ai sensi di Eva Kant che, dopo una lunga difesa, è alla fine costretta ad accettare anche l’aiuto di un collega del compagno, al momento disoccupato o poco propenso a dar filo alle ambizioni piuttosto plutoniche. E non è detto che, visto che siamo nel paradigma di Lutetia, non possa invece essere Asterix, che, quello, lo sappiamo, non ha mica bisogna della pozione per fare la 34 del F. du Clergé de France per tutto la giornata, correndo anche lungo la Senna…

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