Il bel libro di Buttafuoco “Il dolore pazzo dell’amore” / L’AUTOBIOGRAFIA E’ UNA FAVOLA DI PAESE

“ ’Così Dio non esiste?’ disse Dio per cominciare il discorso. E quello: ‘Più precisamente non esiste più’. E, a mo’ di spiegazione, aprì la scatolina e Gli mostrò il contenuto: ‘Vede, mi sono tenuto da parte la Sua anima’ “. Chi non riconosce in questa prosa la magia della poesia? Il racconto di formazione sentimentale di Buttafuco getta polvere di erotismo sulla sapienza orale delle comari siciliane, insaporisce i fichi d’India con una spezia esotica che Pietrangelo chiama Islam, rende epica la desolazione di Leonforte e Agira che sono, tutti e due, per ubiquità poetica, i luoghi dove è nato.
“Il dolore pazzo dell’amore” non è un’antologia di mani che scrivono ma di voci che parlano, anche se parlano con le mani, come tutti i popoli del Mediterraneo, dai greci sino agli arabi, che hanno un rapporto fisico con la parola. Tra i tanti libri di Buttafuoco, questa autobiografia cantata è il più originale e il più felice, finalmente letteratura, solo letteratura, altissima e purissima come l’acqua della pubblicità. Edito da Bompiani, arriva dunque come uno straniero nelle librerie italiane dominate dall’industria della patacca.
E’ la letteratura delle ore d’ozio dei più poveri paesi del Meridione, satura di un certo terrore soprannaturale, tra fatalismo ed ortodossia, superstizioni mistiche, diavoli incatenati, ninfe …: “e il nonno fece questo”, e “don Ciccio manovrava il volante”, e “la nonna Maria Venera metteva in castigo i santi”, e “sempre bisogna credere ai barbieri” ma anche allo ilaha iallallah (e che sarà mai?).
Da Agira come metafora affiorano, qua e là, le ossessioni politiche e culturali del Buttafuoco intellettuale irregolare che conosciamo, del giornalista di destra che spesso vota a sinistra e si è fatto letteralmente licenziare da ‘Panorama’ pur di non modificare i giudizi negativi sulla destra, sui “destrutti”, dice lui, dal devastante Berlusconi. Rinchiusi nella giara, come lo Zi’ Dima di Pirandello, ogni tanto emergono la pietà per un morto di Salò, lo zio del Msi, l’India e appunto l’Islam, che lui aggiusta dentro il mondo di Leonforte come Sciascia aggiustava Voltaire dentro Racalmuto, quello per salvarsi afferrandosi all’Europa e Buttafuoco per salvarsi afferrandosi all’Oriente. L’importante è spezzare il fil di ferro della vita nella malinconia del sud. E dunque fatti e detti popolareschi sono la lingua del Muslim, la messa di padre Marotta diventa Dhikir, ‘voscienza bbenedica’ è mistica Maamuni Maya, le dolci Urì del Paradiso sono le sottane al cui passaggio sudano le pietre, e lo zio Gianni, rimpianto maestro elementare, era ovviamente dionisiaco, ed è forse il rossetto della signorina Lia a far gridare i demoni prigionieri di san Filippo il Siriaco nel castello di Agira … Poi, improvvisamente, il colonnello non vuole pane perché ‘inchiodata sul palmeto / veglia immobile la luna / a cavallo della duna /sta l’antico minareto’, e lo sheik Omar è Satana, anzi Shaitan, insomma anche l’Islam è una necessità d’arte, un elisir poetico per la terribile tristezza di un popolo ai margini dalla storia, peggio che sottosviluppato: sottosoprasviluppato.
E però mai il terremoto del Belice era stato raccontato così: “Una catasta di padelle igieniche di qua e un mucchio di pappagalli di là … I fogli di giornale tagliati ad arte, a rettangoli, adattati indifferentemente per uso di carta igienica e salvietta da barba, e tutta una battuta di carabattole a noi bambini ignote e perciò piene di fascino: le gavette, le marmitte da campo, i bollitori per le siringhe … E i volontari che s’aspettavano di dover salvare vestigia, nobiltà e monumenti dovettero mettere al riparo muli, pecore galline, galli e colera”.
Passando di bocca in bocca, dal più ingenuo degli artigiani alla più colta delle signore del paese, diventano arte il fosco tumulto passionale, i precetti religiosi, l’idolatria dell’onore, la povertà grandiosa e crudele… fino alla forza incendiaria del sarcasmo: “ ’Ma perché tu palermitano dici di essere catanese? ‘Così la brutta figura la fanno loro’ ”.
E sempre, ad ogni ritocco, cresce la poesia: il contadino sta in groppa a un asino ubriaco di gelsomino, e “sabbenedica zio Nunzio, ma vossia non è sposato? Sissì, sono sposato. Ma non fitto fitto”. E c’è anche Enrico Mattei che dal palco urla: “Donne, dite ai vostri mariti, ai vostri figli di tornare! Ci sarà lavoro qui. A Gagliano. Ci sarà il petrolio!”. La Sicilia del bambino è fatta di bolle di sapone che salgono, ondeggiano, svaniscono in un leggero spruzzo di saliva, la poesia appunto che è il rapporto tra la materia e l’invisibile: “Durava, durava la Messa. Ma non tanto quanto la faceva durare padre Marotta. Quasi due ore di messa nella chiesa di San Tommaso perché, per un specie di nevrosi, padre Marotta ripeteva due volte tutte le preghiere. E si segnava il doppio. Sempre doppi segni di croce”.
Buttafuoco è, tra quanti ne conosco, l’unico scrittore che somiglia fisicamente al suo stile, un po’ come i grandi vini somigliano ai loro produttori d’eccellenza, il Barbaresco per esempio che è morbido e tuttavia tagliente come Angelo Gaja. Anche questo libro è morbido e tagliente, come gli occhi di uno scomposto goliardo elegante e il corpo scavato in un tronco d’ulivo o nella roccia, come la piccola casa di Agira che sembra costruita dall’architetto Frank Lloyd Wright, una ‘Fallingwater’ senza l’acqua, a strapiombo nella Sicilia gialla e arida: “E dunque mare, mare disgraziato, dammi una risposta: perché mi hai allontanato dalla vita?”.

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