LA STRADA UNICA DEL MONDO

Ieri mattina, dietro il Pantheon, ho comprato una spilletta rotonda antiambientalista e volgare che avevo già comprato nell’Arndale Center, a Market Street, a Manchester. “Go Green!” c’è scritto in verde. E sotto, più piccolo e in rosso: “Fuck a vegetarian”. Ed è stato un lampo di pochi secondi, lo stesso che mi ha stordito quando ho visto in vetrina l’abito rosso che avevo acquistato per mia figlia in Oxford Street, a Londra. Anche il negozio era lo stesso: Zara. Sono scappato via per paura di incontrare la stessa commessa.
Un malore più forte, non un’intermittenza ma un ristagno del cuore, l’avevo provato quando avevo ritrovato su una bancarella di via Cerretani a Firenze una maglietta di cui vado (andavo) molto fiero e che avevo comprato in rue de Passy a Parigi. La maglietta è nera e ci sono in bianco tre citazioni sul fare e sull’essere. Eccole di seguito. “To do is to be (Nietzsche)”. “To be is to do (Kant)”. “Do be do be do” (Sinatra). Il marchio è ‘Fanshirt’. Il luogo di fabbricazione? Thailandia.
Pensavo che fosse la genialità di un artigiano delle magliette e non un luogo comune della città generica. Insomma ci sono rimasto male perché ho scoperto che era uno dei tanti “fast-shirt” della maglieria urbana e dunque dei magliari delle bancarelle di tutto il mondo.
E vado in via del Lavatore, passeggio nei vicoli attorno a Campo dei Fiori, entro nei negozi di souvenir di Corso Vittorio e dietro Piazza Argentina. Espongono i pinocchi, i piatti con le foto di papa Francesco, le sciarpe con i colori della Ferrari, le magliette di basket, i david, le valige con il corpo di Marylin, le statuette di Berlusconi. Ebbene, si trovano uguali al Kudamm di Berlino e lungo tutta la Broadway di New York, dilagano nelle città dell’ America Latina e sulle bancarelle davanti alle rovine di Pompei. Tutti i souvenir del mondo sono fabbricati in Cina e tutti sono in vendita nella “Strada della seta” di Pechino che è il più grande mercato della patacca che esiste al mondo, una volta a cielo aperto e oggi a sei piani: l’esotismo omologato, il dominio di un ordine finto, al di là di ogni misura e di ogni codice, il triangolo delle Bermude delle identità perdute di tutte le città del mondo.
Ed è un impaludamento passeggiare lungo ‘Calle Major’ a Madrid e guardare i ‘Compro oro’. Sembra di attraversare lo specchio di Alice e ritrovarsi nel riflesso di via Nazionale e non solo perché le botteghe sono identiche, un bancone e una bilancia, ma anche perché questi rifugi di disperati e di ladri, che stanno aumentando di numero in tutta Europa, hanno la stessa insegna – potenza neolatina! – sia a Madrid sia a Roma: ‘Compro oro’, appunto.
Ho persino fotografato, come un giapponese, la pizza a taglio che, in via Nazionale come in rue Saint Denis, non capisco mai se è secca perché è vecchia o perché è finta. E sugli Champs-Élysées, se si dimentica che da un lato c’è l’Arco di Trionfo e dall’altro la Concorde, ci si sente come al Corso Buenos Aires di Milano, sulla quinta strada di New York o in via del Corso a Roma. Ci sono infatti gli stessi Gap e gli HM i Sephora, e poi Adidas, Foot Locker, Timberland, Swatch, Muji, Kelvin Klein, Promod, Benetton, Stefanel , Geox, Furla…. Per non parlare dell’identità del superlusso che è un ossimoro perché vende l’esclusività, spaccia l’unicità a tutti i ricchi in tutto il mondo. Basta avere i soldi e tutti diventano sgargianti, anche se non certo memorabili, in rue Montaigne o nei magazzini Gum di Mosca, che sono il Santo Graal dei marchi più cari del pianeta. Questi marchi, che tutti conoscono e che dunque evito di elencare, sono i buchi neri dove non scompare solo l’identità delle città del mondo, ma scompare pure l’individuo.
Anche i luoghi di vendita, i centri commerciali grandi e piccoli, sono tutti uguali. Non solo offrono le stesse cose ma alla Rinascente, alle Galeries Lafayette, a Selfridges, da Harrods, da Bloomingdale’s e al KaDeWe ci sono le stesse scale mobili e le stesse scale di servizio. La stessa aria condizionata garantisce la stabilità di un’unica stagione dappertutto. Sono gli stessi il vetro, il cartongesso e l’ alluminio. E sono uguali le insegne, le vetrine e i prodotti. Indistinguibili.
Ma non sono le città che si assomigliano, anzi l’urbanistica preserva ancora le identità. I tetti di ardesia e il taglio arioso di Haussmann segnalano Parigi, ma se ti infili nelle stradine attorno a Notre Dame i tavoli invadano selvaggiamente le strade proprio come nei vicoli attorno a piazza Navona. E dovunque c’è la stessa puzza di topo cotto. Sia a Roma, sia a Parigi, sia a Barcellona ti tirano per la manica, ti propongono di sederti e di mangiare, qualche volta ti mettono in bocca una forchettata di spaghetti o un tocco di kebab. Cambia la città ma non il risultato: se hai fame ti passa.
Leopardi, che aveva viaggiato poco, notò che le città più sono grandi e più si somigliano, perché l’identità si annacqua e si diluisce nei ponti, negli ospedali, nelle caserme, nelle stazioni che sono edifici necessariamente ripetitivi. E non aveva visto gli aeroporti, i grandi alberghi e appunto i centri commerciali che l’architetto Rem Koolhaas ha battezzato “spazio spazzatura” (junkspace) per assonanza con il cibo spazzatura (junkfood), che non è McDonald, ma è fatto di panini precotti, orribili innanzitutto a vedersi sia nelle strade attorno a Les Halles, sia nei famigerati bar-mobili di Roma indecentemente benedetti dal Comune (il sindaco Marino li ha provati?). Il tonno sembra stoppa, il pane surgelato mantiene il sapore di crudo anche dopo che lo bruciano sulla piastra, la mozzarella non fila ma rimbalza e le olive nere camminano.
Eppure Leopardi sbagliava. A Bagheria nel corso Umberto l’insegna del parrucchiere è ‘Charme and beauty’ come in rue Bonaparte e solo la simpatia maccheronica salva l’identità del pescivendolo di Acireale che vende “Fruits of the sea” con la traduzione italiana persino più divertente: “Frutta di mare”. Se un nuovo Guttuso volesse dipingere la Vucciria e i mercati meridionali, al posto delle facce virili del terzo stato dipingerebbe cinesi e immigrati. Anche a Londra e a Parigi i fruttivendoli non sono né inglesi né francesi. E ogni tanto sulle Ramblas, su Ponte Vecchio , a campo dei Fiori, improvvisamente ci sono omoni grossi che, sacco in spalla, fuggono travolgendo tutto, anche i contenitori della spazzatura, e altri omoni li inseguono. I turisti, ciascuno nella propria lingua, dicono: “Hai visto? Succede anche qua”.
In Inghilterra, come ci ha raccontato Enrico Franceschini, le chiamano città clonate: “Il pub è un Wheterspoons o un All Bar One. Il ristorante è un McDonald per il fast food, un Wagamama per il cinese, Domino’ s per la pizza, Nando’ s per il pollo… Il supermercato è un Tesco, un Sainsbury o un Waitrose. La farmacia è Boot, la libreria è Waterstone, l’ edicola è W. H. Smith. E il negozio di abbigliamentoè Gap o Top Shop. Aggiungeteci un negozio di telefonini Vodafone, uno di elettronica ed elettrodomestici Curry, uno di arredamento Conran, e la strada, la hig street è completa”.
Ma non bisogna credere che sia l’ effetto solo dei marchi commerciali. Io mi sono smarrito da fermo quando sono penetrato nella ‘Piccadilly Jeugos’ a Puerta del Sol che è un antro buio identico alla ‘Sala Gioco’ di via Cavour a Roma. Persino l’odore è uguale, e forse perché il tennis con il metodo wii fa sudare, e la chitarra senza corde stanca. E dunque tutti puzzano della stessa puzza, e forse anche io puzzavo. Ed è un tanfo che dovunque si arricchisce dell’odore pungente dell’Aiax cristal clean, lo steso identico prodotto che sgrassa gli schermi, gli specchi e i vetri in queste strade che sono tutte uguali perché forse sono una strada sola: la strada unica del mondo.

13 thoughts on “LA STRADA UNICA DEL MONDO

  1. Picasso

    Globalizzazione…bla..bla….. Di prodotti italiani Made in china e dintorni se ne parla da 30 anni. Articolo non originale!

    1. Francesco Merlo

      Gentile signor Andrea, lei e’ come le province, non e’ stato abolito. Insomma, io non ho bloccato nulla.Non lo preciso per lei, che evidentemente lo sa. Ma per chi le crede. Io cestino solo il turpiloquio, e solo quando mi pare intollerabile. Grazie.

    2. un tennico

      ….. e nessun bug di wordpress bensì blocco di siti esterni in funzione anti-spam
      i sospetti di blocco ip e censure varie di solito sono frutto di eccessiva autostima

  2. andrea

    RITIRO TUTTO
    mi scuso, non ero stato censurato, si trattava di errore di sistema del server, avendo inserito probabilmente un link indigesto nei messaggi che non erano passati, ho scritto queste scuse anche nel thread delle Province e nella pagina dei contatti

    scusi ancora per l’accusa totalmente infondata

  3. rossano

    come detto da un’altra parte avrei seguito il blog del sig. merlo e l’ho fatto (magari in ritardo); che dire? come non ero d’accordo su niente sulle province, qui sono d’accordo su tutto (se ne ho capito esattamente il senso). Ma allora perchè non portare fino in fondo il ragionamento?: qual è la strada migliore per omologarci? il mercato globale ma anche, e soprattutto, le istituzioni sovranazionali non elette democraticamente, in primis l’UE che ci impone la curvatura delle banane, le dimensioni dei piselli (a scanso di equivoci: gli ortaggi), ci dice che un pomodoro è un ortaggio se ci fai il sugo ma un frutto se ci fai il succo, ci dice come deve essere un lupino affinchè possa chiamarsi lupino anche se nasce da una pianta di lupino (negano anche l’evidenza), ci impone una moneta che non possiamo sostenere (e noi malati di esterofilia aggravata nonostante tutto ci restiamo: è come se io dovessi vendere la casa pur di rimanere nel club della bocciofila), si permette di dirci se un premier è gradito oppure no (qui tocco un tasto pericoloso, ma mi preme il concetto e non la persona) e potrei andare avanti per ore ma mi fermo, però ci voglio infilare anche il tormentone province (non me ne voglia sig. merlo) ma eliminare ciò che ci sta vicino e ci identifica per appartenenza è dare una mano a questo processo di omologazione. Serve uno scatto di orgoglio, dobbiamo porre un limite a questa omologazione, quello che non è riuscito con le guerre riuscirà con questo sistema (non a caso gli inglesi che sono di un’altra pasta se ne tengono ai margini) : io non sono disposto a perdere la mia identità di provinciale, figuriamoci di italiano.

  4. Laura Grazia Miceli

    Forse non c’entra ma chiedo : chi sa se esiste un posto omologo di quello di Villa Paganini a Roma dove esiste un’area ludica per cani con ingresso in via Nomentana (ampiamente frequentata) e un altra area con ingresso in Largo di Villa Paganini, dove un gruppo di umani lascia liberi almeno 15/20 cani di piccola a grande taglia ? L’area è abbastanza prossima ad un parco giochi, una scuola materna. C’è un bel cartello che recita : non si gioca a palla, non si va in bicicletta non si portano cani liberi ( totalmente disatteso). Non è questo il punto : Se si fa richiesta di tenere i cani al guinzaglio, gli umani si trasformano in branco, feroce, sfrontato, prepotente e aggressivo. Si va da ” se non ti piace te ne vai ” a ” Te faccio ingroppà il cane”! ” Nun sai con chi stai a parlà” ” Chiama chi te pare ” ” Te faccio vede chi sono, ecco qua il tesserino..” e al semplice sommesso ” Non vedo l’ora ” di risposta il branco esplode e non si argina più, anche se non sa comportarsi – oltre al profluvio di turpiloquio sguaiato e vieto – nei riguardi della persona che si siede tranquillamente su una panchina e non se ne va, facendo riprese e foto delle targhe dei viali che sono intitolate a Pio La torre, Antonino Caponnetto e a tanti altri, compresi molti testimoni di giustizia che sono morti perché si sono trovati a transitare in un momento sbagliato in un posto sbagliato.
    Forse sono, cresciuti, gli stessi ragazzi e ragazze che anni fa addestravano i cani ad assalire le persone, sugli stessi prati, ma che la polizia ( allora c’era ancora un poco di sorveglianza) riuscì ad allontanare. Al tempo della mia infanzia, Villa Paganini era un luogo da favola delle streghe, pieno di cespugli, di stagni e grotte, ma vi si respirava, l’avventura, il senso dell’ignoto, la paura, no. Degli umani, è naturale e faccio uno sforzo per non definirli umanoidi. E qui finisco come ho iniziato : forse non c’entra.

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