Non erano aforismi ma banalità alla Catalano eppure l’Italia rideva come ora ride alle barzellette di Berlusconi C’E’ TUTTO IL PEGGIO DELL’ ITALIA NELLA LINGUA DI ANDREOTTI

State attenti: il monumento che in queste ore stiamo innalzando al caro estinto è il  monumento che l’Italia fa a stessa, al peggio di se stessa. E la lingua di belzebù, che per sua natura è sempre biforcuta, diventa revival. <Meglio tirare a campare che tirare le cuoia> suona dunque come la sigla di Carosello. <I verdi sono come i cocomeri, rossi dentro e verdi fuori> è nostalgia, proprio come <e la pioggia che va> dei Rokes o <apro gli occhi e ti penso> dell’ Equipe 84. E invece quel linguaggio, quell’antologia di detti e contraddetti, al di là della solennità della morte, esprime solo l’ impenetrabilità di quella lorda pozza che è stata la nostra storia politica nel dopoguerra.

E cominciamo col dire che non è vero che i suoi aforismi erano musiliani o spengleriani, da grande pensatore del novecento. <Il potere logora chi non ce l’ha> per esempio era solo un’ intelligente  stupidaggine alla Catalano e non una profondità alla Junger, perché è ovvio che il potere fa bene alla salute e chi può non si logora, mentre al contrario stanno male quelli che non possono. Ancora più sciocca è <non basta avere ragione bisogna che ci sia qualcuno disposto a dartela>. Eppure l’Italia rideva.

Sull’aereo per Palermo, Andreotti una volta mi disse <sono fiducioso in un’assurdità>, ma io gli risposi, sia pur con grande gentilezza, che non sempre riuscivo a ridere alle sue battute < forse perché non sono andreottiano>. E lui: <Neppure io>. Poi ascoltammo insieme la canzone di Francesco Baccini: <Chi ha mangiato la torta? Chi ha sbagliato la manovra? Chi c’è dietro a piovra?> .E ogni volta il coro rispondeva: <Andreotti>. Ricordo bene come i suoi occhiali da presbite rendevano grandi quegli occhi naturalmente piccoli: <Mi piace. Sembra scritta da me. Ha messo in musica quello che io penso di me stesso e cioè che a parte le guerre puniche, perché ero troppo giovane, mi viene attribuito di tutto>.

Andreotti copriva con l’arguzia realistica  la pesantezza e l’infelicità sua e  dell’Italia del dopoguerra, il Paese di cui era al tempo stesso lo statista e il diavolo. La sua ironia – <io sono una specie di mania nazionale> – esprimeva sempre ambiguità, complicità e complessità, evidenti ma imprendibili.  E infatti ridacchiava. Perché ogni volta che confezionava una delle sue frasi si compiaceva di commettere un reato intellettuale: <Il generale Dalla Chiesa cambiava spesso programma. Era abituato, forse  per mestiere, a non fare quello che diceva>. La disse, questa frase, commemorando in un’intervista il suo grande amico Franco Evangelisti, quando appunto l’onorevole ‘a fra’ che te serve?’ era appena morto, e ovviamente era morto anche il generale. E tutti in coro risero, di allegria e di tenerezza, come hanno poi riso e ancora ridono  alle barzellette di Berlusconi. Risero perché l’Italia è sempre serva di risata ostello. Ma pensate a quanto ruminare da boss c’era in quella frase sul generale, quanta innocenza e al tempo stesso quanta colpevolezza conteneva, e quanto ammiccava alle polemiche, alle denunzie, al mistero mai risolto dell’omicidio Dalla Chiesa.

Giuseppe Alessi, storico e pulitissimo fondatore della Dc siciliana, il solo che non fu mai coinvolto e neppure sospettato di contiguità con la mafia, ci disse in un’intervista: <Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il paese ai comunisti di Stalin>. Ebbene, per commentare questa terribile e rassegnata denunzia di Alessi, che partiva dalla guerra fredda e arrivava al processo di Palermo, Andreotti, che non perdeva mai il controllo di sé, si alzò in piedi: <Non credo che Alessi si sia espresso davvero in questo modo, ma sicuramente la storia d’Italia non è andata così. Anche perché così si coprono con la politica le eventuali responsabilità delle singole persone. La politica diventerebbe  una specie di scudo stellare e la storia della Sicilia la notte in cui tutte le vacche sono nere>. Di quella innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, dell’innervatura dell’una nell’altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, Andreotti diceva: <Ho cercato di approfondire quelle insinuazioni che sono state fatte. E non ho trovato mai nulla, nemmeno un indizio. Io mi  sono sempre affidato al tempo. Ci creda anche lei: il tempo è galantuomo sul serio. E con il tempo, chi solleva polveroni vedrà la polvere  ricadergli addosso>. Poi però, il suo realismo comico lo richiamava in servizio: <Non bisogna lasciare tracce>.

Quali tracce ha lasciato Andreotti? Ogni volta che ho provato a tradurre i suoi aforismi a degli  stranieri  nessuno ha mai riso e non perché siano difficili da capire ma perché sono chiusi nel cortile-Italia, cifra stilistica di un mondo residuale. Anche il diavolo italiano all’estero è un povero diavolo di provincia, e quel finto umorismo curiale si sfalda, non supera i confini e neppure dura nel tempo, come i merletti di donna Felicita. E’ la solita Italia dei baci perugina, dei pensierini che Andreotti infilava come prodigi di campagna di elettorale. Quando Craxi, presidente del Consiglio, andò in Cina con tutta la sua corte di nani e ballerine, Andreotti tirò fuori questa battuta:  <Craxi è andato in Cina, accompagnato dai suoi … cari>. Beppe Grillo, in quegli stessi giorni, ne fece una di pura dinamite: <Se  in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?>. L’Italia si complimentò con Andreotti, ma solo la battuta di Grillo può ancora essere tradotta e capita all’estero.

E invece l’insipida battuta sul <potere che  logora chi non c’e l’ha> è entrata nella leggenda nazionale e oggi ogni italiano che si vuol dare arie da cinico la ripete compiaciuto.  Quell’altra, per esempio, <vorrei esserci alla mia riabilitazione> allude, al tempo stesso, alla malinconia e alla tracotanza, rimanda  al dolore per i tempi della giustizia ma anche alla simpatia canagliesca per l impunità, esprime con falsa allegria la doppia presunzione di essere contemporaneamente un altro Tortora e un altro marchese del Grillo. Una volta disse: <Se si sparge la voce che  davvero non invecchio, rischio seriamente la polpetta avvelenata>.  Ed era ,quella battuta, la forma greve dell’elisir dell’immortalità che il dottor Scapagnini, pace all’anima sua, avrebbe qualche anno dopo somministrato a Berlusconi. C’era l’idea superandreottiana che il potere italiano può essere abbattuto ma non battuto: la morte innaturale, il caffè corretto, il veleno a Sindona, il nodo alla gola del banchiere Calvi, i colpi di pistola all’avvocato Ambrosoli, la mitraglietta Skorpion che il brigatista Germano Maccari scaricò sul povero Moro rannicchiato nel bagagliaio della Renault rossa nel garage di via Montalcini. Andreotti era intraducibile perché  era il piccolo Machiavelli di un cortile bloccato dal fattore K dove la DC era più forte delle bombe e dei morti per strada, del caffè corretto al veleno e della stragi sui treni, della finanza  criminale e delle trame dei servizi segreti stranieri, un piccolo bruttissimo mondo antico la cui storia per dirla con Luciano Cafagna  era  allogena, veniva decisa sempre altrove.

E Andreotti ha trafficato con la propria longevità di potente proprio come avrebbe fatto Berlusconi, che ricorreva anche alle medicine vitalistiche di don Verzé: qual era l età biologica del cuore di tenebra? Una volta Oscar Luigi Scalfaro disse:  <Le battute di Andreotti sono tutte accuratamente preparate. La sua genialità consiste nello spenderle al momento giusto> Chissà se era vero. Gli archivi sono pieni di andreottate e in queste ore di commemorazioni è tutto un rifiorire di quel linguaggio che aggirava il problema  grazie ad un umorismo che ti lasciava soddisfatto solo in apparenza, allusioni, elusioni e di nuovo battute: <Ci son due tipi di matti, i matti matti e quelli che vogliono risanare le ferrovie>. Quando smettevi di sorridere ti accorgevi che Andreotti non aveva detto nulla, ma che il senso era comunque e sempre miserabile:<Bisogna sempre tenere un diario. Ed è bene che qualcuno lo sappia>. Quando gli chiesero  se era vero che Gelli, da capo della P2, gli telefonava tutti i giorni, Andreotti rispose: <Neanche con mia moglie, da fidanzati, ci sentivamo tutti i giorni>.

Lo ricordo nel suo studio di San Lorenzo in Lucina e poi in quello di Palazzo Giustiniani, quando ripeteva, con sarcasmo, queste due parole: <associazione mafiosa>. E poi mostrava di fronte sé la collezione di campanelli, la libreria con il dono che gli aveva fatto Gorbaciov, le lettere di De Gasperi, la kefiah di Arafat, ma ogni tanto tornava a ripetere, senza cambiare espressione, <associazione mafiosa>,  e un poco si scaldava, se così si può dire, quando  ricorreva, per nemesi, ai complotti che lo avevano visto per tutta la vita stratega, e ora lo vedevano vittima, i complotti americani, le misteriose vie attraverso le quali qualcuno nel mondo voleva fargli pagare chissà cosa … Ebbene, anche in quel momento,  quando pareva finalmente curvo sugli anni profondi della sua e nostra Italia, sulla Sicilia lontana e detestata, quando pareva che stesse guardando  il proprio riflesso nella acque torbide del passato, ecco che improvvisamente recuperava se stesso: <Nascosto nell’ombra c’è un Andreotti più Andreotti di me?>. Ma come è possibile che lei sia amico di Gorbaciov e di Totò Riina? Risposta: <Credo che Totò Riina sarà inorgoglito dall’ equiparazione con Gorbaciov>.  Di sicuro fu amico di Sbardella, di Lima, di Ciarrapico…  E’stato amatissimo dalla peggiore politica italiana ed è vero che a Palermo è stato assolto, ma gli incontri con Badalamenti ci sono stati, secondo quella stessa sentenza di assoluzione.

Forse è vero che Andreotti in un certo senso era “morto” quando è stato assolto, quando finì in modo così ambiguo anche il processo del secolo che dopo avergli allungato la vita, lo ha assolto e prescritto, reso per sempre imprendibile come il senso delle sue battute  e come Roma, con la quale si identificava sin dagli anni trenta  fra sacrestie e conferenze, quando andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa e già frequentava la segreteria di stato di Pio XII:  <Non processano me, processano Roma> disse più di una volta. Roma che come lui era circondata dalla storia, Roma che esprime il senso delle cose  senza mai dannarsi l’anima,  una Roma da osteria quando disse <amo così tanto la Germania da desiderare che ce ne siano due>. Solo in un paese come l’Italia uno statista poteva permettersi di rimpiangere il muro di Berlino, solo in Italia si poteva spacciare per arguzia la pesantezza di una frase così reazionaria.

Diciamo la verità: che cosa rimarrà di tutte le sue battute se non la terribile densità del processo del secolo, con la sua mezza assoluzione finale? Cosa rimarrà di lui se non quel che non è stato sin in fondo, cioè il colpevole? C’ è qualche studioso che possa seriamente citare uno dei tanti libri che Andreotti ha scritto, o una legge che ci abbia cambiato, o una vittoria sociale, o una significativa opera pubblica, una reale gloria politica, una riforma, un orfanotrofio, un grattacielo, una nave? O non è stato invece Andreotti un pretesto per costruire questo vuoto chiacchiericcio, la lingua sbrindellata della politica italiana dove <a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina>?

5 thoughts on “Non erano aforismi ma banalità alla Catalano eppure l’Italia rideva come ora ride alle barzellette di Berlusconi C’E’ TUTTO IL PEGGIO DELL’ ITALIA NELLA LINGUA DI ANDREOTTI

  1. marietta

    Abbiamo bevuto latte nel biberon e Andreotti, mangiato pizza e Andreotti,lasagna alla domenica e Andreotti.Da oggi tutti a dieta!.Di lui salvo solamente gli sketch di Alighiero Noschese, chi i capelli li ha bianco-grigi sorride!

  2. Joe Serpe

    Un umorismo cinico, quello andreottiano, sagace, elegante, molto diverso da quello berlusconiano tutto orientato alle battute stupide per lo più a sfondo sessuale.

    Ho sempre provato sdegno per Andreotti come persona e come politico, ma ne ho sempre apprezzato quell’umorismo. Ho peccato?

  3. Angelo Libranti

    Si, molto. Ti sei uniformato alla vulgata che voleva Andreotti arguto umorista, quando invece con quelle battute si auto assolveva e tirava a campare ungendo i comunisti affinchè restassero nel loro alveo dorato.
    Statista mi sembra un pò troppo; come Moro gestiva correnti politiche finalizzate al potere per il potere e TUTTO tornava utile per perpetuarlo.
    E’ passato sotto silenzio la confessione di “a’ Fra'” in punto di morte. Da buon cattolico voleva smacchiare la coscienza prima dell’ultimo viaggio, per presentarsi a san Pietro con l’animo ripulito.
    Andreotti dichiarò che il cattivo stato di salute aveva confuso i ricordi di chi gli era stato vicinissimo per mezzo secolo e la cosa finì lì .
    Cossiga, che lo conosceva bene, tempestivamente lo nominò senatore a vita.
    Non riuscì ad avere lo stesso trattamento Craxi, che fu costretto ad espatriare per non saggiare il duro tavolaccio delle patrie galere. Così va il mondo.
    Onestamente dobbiamo riconoscere che, almeno, non ha preteso i funerali di Stato. Ha preferito restare felpato anche da morto. Riposi in pace.

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