NATIONAL GEOGRAPHIC ITALIA / IL PONTE E LO STRETTO

  (National Geographic Italia- Settembre)

<Stricto sensu -  diceva  mio nonno – lo Stretto è troppo largo> e, respirando acqua salata e nafta, si immalinconiva  quando qualcuno diceva a qualcun altro: <Guarda, quella è l’Italia>. Apparteneva, mio nonno, a quel modello di terrone che, andando e venendo sul ferry boat,  esportava Meridione e importava Italia, una specie di eroe borghese  dell’unità  nazionale che, tuttavia, quando arrivava sul traghetto non si sentiva mai pacificato, mai tranquillo. <Noi non siano tonni> ripeteva, e diceva pure di vederli, i tonni che in banco attraversano lo Stretto. Io per la verità non li ho mai visti dal traghetto, ma solo andando in barca, vogando <là dove il mare è mare> e dove, però, non ci sono mai state le fere, i pesci abissali, l’orca,  le ossessioni letterarie e zoologiche di un’ acqua che non è quella di Moby Dick.

     E’ invece bello questo mare proprio perché è stretto, perché dal paese delle Femmine puoi vedere punta Piloro,  perché sono appunto questo gli Stretti,  scorciatoie che i mari e gli oceani hanno inventato per ridurre i tempi dell’incontro , a Bass per esempio, tra l’Australia e la Tasmania,  o a Chatham, tra le isole dell’Alaska, o ancora nell’East River, tra Manhattan e Long Island. L’uomo imita gli Stretti scavando canali, come a Panama, come a Suez, e facendo ponti, in Danimarca come in Scozia, in Giappone  come in Portogallo, sul Bosforo e sul Baltico, nelle città e nelle campagne della Cina, dove servono e dove non servono, e anche tra due denti, tra due mani che si stringono, o solo per ballare – come canta Lucio Dalla –  su una tavola tra due montagne.

    Sempre l’uomo ha fatto ponti, dalle palafitte all’ impero romano, e sino  alla telematica di Internet dove i ponti sono Net, reti. Non esiste infatti una riva che non possa essere raggiunta dal ponte, non esiste un vuoto che il ponte non riesca a beffare: l’uomo fa ponti – è Pontifex – per ‘stringersi’ a Dio. 

    <Lo Stretto è un dono di Dio, il Ponte è un dono a Dio> diceva mio nonno che soffriva sullo Stretto, sognava di passarlo con un salto e non amava, per esempio, quei graffiti d’amore e di nostalgia che a quei tempi – no so ora – i passeggeri dei treni incidevano sulle pareti interne della stiva, ferro riverniciato di bianco antisalsedine, a  pochi centimetri dalle carrozze ferroviarie e dunque dalle mani e dagli occhi. Ricordo centinaia di < Maria ti amo>, un <Froci sì / ma contro la Dc> e uno, straordinario: <Solo sul ferry boat si sente la separatezza di una terra che non si congiunge mai con il futuro>.

     Eppure, allora non si capiva quanto si somigliano Scilla e Cariddi e non solo perché sono sorelle povere, neglette e lamentose, luoghi storici del piagnucolio risarcitorio, del vittimismo meridionalistico che imputa alla politica sparviera dell’ Italia unitaria ogni frattura, persino quella fisica dello Stretto. Il punto è che nessuno aveva ancora capito che  Messina e Reggio sono un’unica città divisa da un poco di mare e da un abisso di fastidi che ti fanno bestemmiare contro Polifemo, troppo piccolo come gigante e troppo grande come uomo, un elefante nano secondo gli archeologi dello Stretto, brutto  come il cane ‘cirneco’ che è lo storto e spelacchiato quadrupede dell’Etna, arrivato chissà come – gli storici dello Stretto non lo hanno ancora appurato – ma certo non a nuoto perché un cane così gracile non sarebbe sopravvissuto ai “bastardelli”, agli “spurghi” e ai “rifiuti” che sono le misteriose correnti dello Stretto.  E a  sua volta il cirneco è solo la versione canina di ‘Ferribotte’, il prototipo dell’uomo siciliano dei film di Monicelli, tozzo e baffuto  e ovviamente arcaicamente ottuso e scompostamente cavernicolo come Polifemo.

    Ecco perché già allora il rito del traghettamento tendeva la corda pazza dei terroni borghesi come mio nonno. Da una parte Scilla e dall’altra Cariddi e, se non fossero sufficienti, vi si aggiungevano le Sirene della follia, dell’oltranza umana, della presunzione dei discendenti di Prometeo, e di Ercole, campione dell’intelligenza implacata, che non riesce ad oltrepassare le Colonne che avranno il suo nome, non può congiungere la sete di conoscenza con l’oggetto della conoscenza.  

    E tuttavia quando il sole si era appena levato, sotto quella luce da mattino del mondo, a mio nonno e ai viaggiatori dello Stretto pareva davvero che l’Italia fosse  la nuova prospettiva, fosse  la modernità, fosse la patria. Non sto parlando degli emigranti con la valigia di cartone, ma di prefetti e questori, magistrati e ufficiali dell’esercito, insegnanti e prèsidi, segretari comunali e cancellieri giudiziari, diplomatici e funzionari di banca, ferrovieri e medici, di tutti quegli assidui frequentatori del traghetto che nonostante la puzza, il rumore di ferraglia, la sporcizia,  e lo stomaco pieno di un cibo guasto che sul traghetto veniva venduto come <tipico>, nonostante insomma l’evidente avanzare della  paccottiglia della marginalità vedevano l’Italia  nel colore cangiante dell’acqua e in un nuovo modello di lingua nazionale (quella del meridionale De Sanctis),   cercavano l’Italia in quella diversa velocità delle correnti, nei vortici, nelle ‘scale di mare’, nelle ‘macchie’ e nei ‘garofali’ che improvvisamente si mettono a friggere, come allora friggevano la dialettica storiografica del napoletano Croce e il teatro di Pirandello. E mentre la costa calabrese si avvicinava , un occhio al cielo e uno ai militari in fila, i terroni borghesi neppure si accorgevano che quel traghetto non somigliava alla loro idea di Stato  rigoroso, che dai suoi servitori esige zelo, dedizione, efficienza e pulizia.

    E infatti su quegli stessi  traghetti , che diventavano via via più sgangherati, più pittoreschi, sempre più ‘isola’, i continentali venivano a cercare in Sicilia  prototipi e stereotipi di razze dimenticate o superate, con quel tanto di selvatico che  sempre affascina i collezionisti di sensazioni forti, profonde e sensuali, come quando si addenta un tozzo di pane di grano duro o si abbraccia un corpo acerbo, forte e nudo. A  Taormina poeti raffinati e intelligenze estenuate hanno cercato e trovato carne insulare rigenerativa dei loro nervi sfibrati. L’ accondiscendenza siciliana ha rovesciato il mito e la sindrome di Dorian Gray, i siciliani che non prendevano i traghetti si guardavano infatti allo specchio e si rivedevano e si raccontavano, nei film e nei romanzi e in tutta la letteratura sicilianista, come gli altri li volevano e ancora li vogliono: mesozoici o paleolitici, separati, esclusivi, liberi perché reclusi. Anche il codice mentale del siciliano stanziale è come la tartaruga di Acitrezza o come la cozza di Ganzirri, invenzioni – bugie – dei falsi naturalisti. Il codice mentale dello Stretto  è inattuale e dunque dirompente, sorprendente e scandaloso.

   E mio nonno smise di divertirsi quando  <uora uora arrivau u ferry boat> gli dicevano per celia i suoi amici vedendolo avanzare in piazza del Popolo a Roma. Imparava a sue spese che un siciliano in viaggio è sempre sul ferry boat, sempre sullo Stretto della separatezza e della marginalità, sia pure accanto a una bellissima donna con gli ‘occhi ladri’, una Claudia Cardinale alla quale il ‘Ferribotte’ di Monicelli ogni tanto dice: <Componiti, Concetta> . Nell’arcaismo dello Stretto c’è anche l’idea della donna condannata a stare in casa alla conocchia per diventare a sera una macchina da riproduzione. Lo Stretto è l’ universo pesante e povero dove il maschio valeva meno di un asino e la femmina meno del maschio. Lo Stretto è il mito arcaico dell’ onore e del disonore, e della virilità, che era valore è vero, ma solo perché non c’ era ancora lo spazio per coltivare altri valori di civiltà, come la cortesia, la dolcezza, la cultura, il pudore, la fragilità, insomma quella gentilezza dei costumi maschili che oggi prevale dappertutto, anche in Sicilia, anche in Calabria.

    Ma il ferry boat è il <come se> nulla fosse cambiato, neppure l’ossessione del sesso letterario, da Brancati sino all’Orcinus Orca che è il solo romanzo dello Stretto, raccontato come caos di lingue e di culture, di mostri, di omosessualità,  onanismo, incesto e morte.

   Oggi sul ferry boat gli arancini, le pignolate e le granite sono micidiali rimedi all’affanno del viaggiatore, copie ammalate di una cucina pesante e tuttavia raffinata che, sul traghetto, diventa appunto <come se>. E anche il mare,  bellissimo perché chiuso, visto dagli inospitali traghetti  è <come se> fosse maestoso, un finto oceano sul quale – secondo Plinio il Vecchio – nel 251 a. C. il console Lucio Cecilio Metello edificò un ponte di zattere galleggianti, rinforzate con botti, per trasportare ed esibire a Roma 140 elefanti che i nemici avevano abbandonato durante la prima guerra punica.

    Lo Stretto di Messina oggi è il punto che sta fuori dal tempo e dallo spazio, o forse è il punto in cui spazio e tempo si incontrano, un punto senza svolgimento dove tutto si conserva e dove le modificazioni, impercettibili, durano millenni. E lo Stretto è  la maledizione del mafioso che, senza l’ isola che gli è solidale, non sarebbe mai esistito e mai potrebbe nuovamente esistere. Il mafioso e l’ isola – il mafioso e lo Stretto – sono come l’ astronauta e le stelle. L’ isola infatti è il fuori mano, la degradazione e l’ eccezione assunte come forza. Nell’ isola l’ incontenibile e l’ eccesso diventano criminalità organizzata o genio civile: mai normalità.

     Anche a me, come a tanti, è capitato di attraversare il ponte di Orensud: entri danese ed esci svedese. Lo Stretto invece te lo porti sempre dietro dovunque tu vada. E già ti senti sul traghetto quando, ancora in automobile, arrivando a Messina da Catania  ti dirottano in una strozzatura. E vai avanti a passo d’uomo per almeno un’ora, quando non c’è folla. Poi comincia il disordine. E fiuti il sudiciume acido dell’imbarcadero ancora prima di vederlo. Attraversi un nugolo di venditori ambulanti che una volta spacciavano i miseri lupini raccontati da Verga e ora ti offrono ogni genere di mercanzia tecnologica pataccata, il simil-rolex e il simil-armani, perché è ancora e sempre il ‘come se’ che  qui trionfa, lo stesso della retorica sicilianista:  <siamo l’isola più bella del mondo>,  <siamo speciali>, <siamo gods>.  Sono le frasi della rivalsa, della vendetta, schizzi di malafede che ti fanno dire il contrario di quello che pensi. Perché non è vero che lo Stretto è il paradiso ecologico ma è al contrario l’ inefficienza dei servizi e il sottosviluppo.

      E portarsi dietro lo Stretto Indispensabile , lo Stretto Necessario, significa lambire per tutta la vita la costa della miseria, della criminalità organizzata, dei terremoti, e di tutte quelle cose che ci hanno fatto marginali, talenti che si sentono maltrattati e perciò si inventano  l’isola che non c’è, quella delle belle mangiate, dei sapori unici al mondo, delle spiagge più radiose della terra, delle donne più affascinanti, degli amici più fedeli: per ‘non dare sazio’, per non ammettere la sconfitta dello Stretto, del piccolo mare e della sua umanità anfibia, la stretta umanità da Stretto appunto, parca come una terra incoltivata e al tempo stesso eccessiva come un mare sconfinato.  

 

One thought on “NATIONAL GEOGRAPHIC ITALIA / IL PONTE E LO STRETTO

  1. Violetta

    Per tutti noi, italiani siculi, dal Nord, dal Sud o da qualsiasi origine siamo, i veri stretti sono quei mentali, emozionali, culturali, e quindi come dice Lei, signor Merlo, il pericolo obviamente non è attraversarli spesso od ogni tanto, invece portarli addosso. Strettezze umanoidi piuttosto che umane, che non si riducono mai neppure tramite la costruzione dei ponti spettacolari. A chè servirebbe un ponte che possa unire le terre fisiche, facilitare il traffico mercante, le vacanze, le fughe verso qualunque geografia, insulare o continentale, se quel buco, tra la Scilla della cortimiranza miserevole e quella Cariddis dell’insolidarietà cretiniforme, è il vero motore di ricerca, entrambe due sponde? Come dicono in Costa Rica, sarebbe entrambi due sensi, “salir de Guatemala para meterse en Guatepeor”.
    Magari cancellando in anzitutto gli stretti personali, i pregiudizi mutui, i giudizi humilianti, le idee preconcette, i cartelloni della terrafilia maniacale che poi produce la xenofobica intolleranza tra le regioni dello stesso paese, dello stesso continente, per estensione.
    Io stessa che abito all’estero posso affermare senza dubbio come pesano e come dividono quegli stretti mentali e dei sentimenti, senza mappa né segnali materiali, che sigilano a fuoco però le possibilità di diventare veri umani senza le barriere ottuse della autolimitazione. Grazie per questa brillante riflessione.

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