La leggenda del re galantuomo, tozzo brusco e nazional-popolare

Il maldestro imbalsamatore capo, il dottor Brunetti, strofinando la salma con i carbonati sottovalutò la potenza della diabolica tintura cosmetica che il vanitoso Vittorio Emanuele II importava dalla Persia e che, colando dai capelli, dai baffi a manubrio e dal pizzetto savoiardo, finì col macchiare indelebilmente il viso del morto.  E fu la prima delle tante contraffazioni che la figura del re avrebbe subito. Ma chi era veramente il sovrano che aveva unito l’Italia ed era morto per una complicanza polmonare della malattia dell’Italia unita, quella malaria che collegava la Sicilia, il Lazio, la Toscana e su sino al Piemonte dove l’aveva contratta Cavour, morendone anche lui all’alba del 6 giugno 1861? Ed è certo suggestiva l’idea che, a sua volta, la diffusione della ‘mala aria’ fosse dovuta anche all’intenso disboscamento necessario ad impiantare la ferrovia, il ‘mercurio alato’ della nuova nazione. Insomma ciascuno  pagava un costo, anche fisico, all’Unità e quello di Vittorio Emanuele fu il polmone destro (pleuropolmonite). Un po’ come Prometeo che, per aver dato il fuoco agli uomini, aveva perso il fegato.

Chi dunque si stava seppellendo al Pantheon,  in una Roma  che <non vide mai un trionfo di vivo più solenne di quello del morto?>. Forse non è vero che , per garantire la discendenza, il neonato Vittorio Emanuele, morto bruciato nella culla, era stato sostituito con il figlio di una macellaio di Porta Romana a Firenze , ma di sicuro era un Savoia che non somigliava ai Savoia neppure fisicamente, tozzo e grassoccio <anche nei polsi e nelle manone >, popolano di modi e di gusti, militaresco, sbrigativo e pieno di disprezzo per gli uomini impennacchiati  della nobiltà e per i dominatori stranieri, una specie di re nazional-popolare, il solo re che potesse piacere  a Garibaldi. E sicuramente ci sono saggezza e fascino democratici nell’ipotesi che Vittorio Emanuele abbia voluto l’unità d’Italia anche in preda ad un rimorso filiale, come a confortare quel padre macellaio che era stato umiliato nella sua paternità irrealizzata, padre senza storia di un re che fa la storia.

Ed è vero che fu seppellito il <re galantuomo>  inventato da D’Azeglio, ma anche il suo contrario,  <il  vero dittatore d’Italia> , precursore di Mussolini come poi lo avrebbe raccontato il fascismo. Ed era stato un maldestro capo militare a cui si dovevano terribili sconfitte,ma anche coraggioso in battaglia sino alla temerarietà.  L’Italia surrogò quella pasticciata, controversa vita ‘reale’ con la retorica declamatoria, i documenti vennero manipolati o distrutti, e non solo per piaggeria ma soprattutto perché lo Stato incompiuto aveva bisogno di uomini-simbolo e la Monarchia temeva la concorrenza, da un lato, di Garibaldi e Mazzini e, dall’altro, di Pio IX, <quel povero diavolo del Santo Padre> come lo chiamava Vittorio Emanuele.  Fatta l’Italia fu dunque fatto il primo italiano, fu dato un padre alla patria. E l’Italia rispose alla retorica di Stato con il repertorio più nocivo, quello della romanità, delle glorie passate, dei sacri destini, dell’Elmo di Scipio.

E si arrivò al kitsch nazionale e mattoide nel concorso per il monumento al re, il cosiddetto Altare della patria, <dal quale la città di Roma è stata sfigurata in modi irrimediabili (ma con ciò non si creda che io sia tra coloro che oggi vorrebbero demolirlo)>  scrisse Federico Zeri  nella prefazione alla riedizione del 1985 (Scheiwiller) dello strepitoso ‘I mattoidi’ nel quale Carlo Dossi nel 1884 aveva preso in rassegna i progetti che erano stati presentati <da ragionieri, impiegati, medici, avvocati … opere grandiose, grottesche e strampalate> che prevedevano templi in mezzo a grandi laghi artificiali, oppure quattro fortezze in stile gotico o ancora una grande mano dove il pollice era Pio IX, l’indice Carlo Alberto, il medio Vittorio Emanuele, l’anulare Umberto e il mignolo il principe Vittorino. Un progettista voleva costruire sopra Castel Sant’Angelo un ‘Gloriadeum’ con le statue degli uomini illustri di tutti i  paesi compreso Cristo <ma con le spalle volte al Vaticano, tié>, e il re a cavallo  in cima ad una salita a spirale percorribile con le carrozze e persino con un piccolo tram. Quel libro divenne un capitolo del famigerato studio di Lombroso sui rapporti tra l’arte e la follia. In realtà è un magnifico racconto sull’ <infetto kitsch italiano> che, spiegò ancora Zeri, abbiamo purtroppo rivisto mille volte: nell’edilizia degli anni sessanta per esempio, sino ai cosiddetti artisti della provocazione, oggi rappresentati dai vari Cattelan.

Cosa ci resta di quel re che aveva saputo resistere al clero e si era persino fatto beffe delle scomuniche di Pio IX ma poi era morto <in grazia di Dio>? Certo, si era comportato da caprone con le donne,  consumatore di minorenni, spietato con le tanti amanti che lasciava,  ma anche,  sia pure  a suo modo, leale con la ‘bela Rosin’ che non era per niente bella ma grassoccia, il viso largo e squadrato, una massa di indomabili capelli crespi. Era una rustica, godereccia e pacchiana contadina analfabeta che parlava solo in dialetto, ma lo seguì, anche in battaglia, sin da quando aveva 15 anni. Alla fine il re la sposò ma non riuscì ad ottenere il diritto di discendenza per i due figli che le aveva dato e che amò più di quelli avuti dalla cugina Maria Adelaide d’Asburgo:  <questi sono i figli della patria, quelli sono i figli miei>. Eppure la prima moglie era stata  stroncata proprio dalla discendenza, come spesso accadeva alle donne dell’epoca, 35 anni di vita, 13 di matrimonio e 8 gravidanze che la ridussero una larva.

Demistificata la patria di marmo, cosa ci rimane del re che, pur mugugnando e lamentandosi, si era affidato ad uomini politici di una qualità che l’Italia non avrebbe mai più avuto, D’Azeglio e Cavour, Ricasoli e Rattazzi, Farini e Minghetti, Crispi e Sella….?  Se ieri la verità del re venne annullata dal mito oggi  viene deformata a piacere dall’accanimento degli storici improvvisati, nuovo kitsch vittoriano: tutti denunziano e rivendicano e compongono “contro biografie”  di uno, dieci, mille Vittorio Emanuele che si occultano a vicenda, in una storia che non sarà mai definitiva e che verrà riscritta ad ogni generazione, perché qui si fa l’Italia o si muore … dal ridere.

Francesco Merlo