LA PATACCA BEDUINA

Si conferma il Gheddafi di sempre quello che al telefono ha detto a Silvio Berlusconi «qui va tutto bene». Il tappetaro che vive di merce contraffatta, muore di merce contraffatta. L´unico Gheddafi vero è quello falso. E infatti l´Italia che ancora ha disperatamente evocato, quella che – ha inventato – insieme con gli Americani e con Bin Laden «fornisce micidiali razzi» ai ribelli di Bengasi, è di nuovo l´Italia di propaganda che non è mai esistita.
Ed è, questo estremo rilancio del Satana italiano, l´ultimo esorcismo pubblico a cui si aggrappa il dittatore ormai dannato. Gheddafi è il solo al mondo che chiama «grande impero» quel nostro colonialismo straccione che ieri, come ultima vittoria, ha annesso nella casa del Grande Fratello la bella libica Raje, finta bionda come quella figlia che lo stesso papà Gheddafi soprannominò «la Claudia Schiffer dell´Africa». Nelle stesse ore a Tripoli, più terra di stragi che bel suol d´amore, gli sgherri del colonnello avevano già messo in giro la “disinfomatia” ad uso esclusivamente interno secondo cui a sparare sulla folla sono stati «gli aerei italiani». Ma i libici se la bevono?
La nostra cattiveria, in parte vera e in parte presunta, è da quaranta anni il collante del potere gheddafiano, il cuore della sua propaganda nazionalista. E infatti Gheddafi, che ha l´istinto del pataccaro beduino, e Berlusconi, che ha l´istinto dell´imbonitore brianzolo, in questi anni hanno sempre messo in scena il teatrino del risarcimento e del pentimento con fortissime esagerazioni da macchietta, tipiche di entrambi. E certo c´era una nemesi in quel satrapo tutto tinto che girava per Roma con trecento puledri berberi, la foto dell´eroe anti italiano appuntata sul petto, le amazzoni libiche a proteggerne il corpo e 500 belle squinzie italiane ad adularlo, e poi la tenda e l´auto bianca… Molti anni prima era stato il maresciallo Rodolfo Graziani – «quell´idiota di Graziani che fece una brutta fine» canta oscuramente Franco Battiato – a girare per Tripoli con la sahariana bianca, su un cammello, sei negrette a seno nudo che gli facevano vento e ai suoi piedi, trascinato in catene e nella polvere, il capo dei guerriglieri senussiti, sterminati con i gas.
Il macchiettismo come continuità della storia, dunque. Così come Graziani era la parodia del colonizzatore inglese, il “Rajah bianco” di Salgari, così Gheddafi era la parodia del capo militare in divisa da parata: due varianti grottesche, anche se feroci, di Scipione l´Africano e di Annibale. E come non notare la somiglianza-continuità, sia pure a parti rovesciate, tra Berlusconi che baciava la mano a Gheddafi e i capi clan religiosi che il 20 marzo 1937 nell´oasi tripolina di Bugara consegnarono a Mussolini la spada dell´Islam?
E quando Gheddafi diede a Berlusconi “il fucile della vergogna”, un vecchio arnese d´ordinanza dell´esercito italiano, gli disse: «Ti restituisco l´arma con la quale volevate catturarci». Era la seconda volta che Berlusconi si faceva riprendere armato. Nella prima foto, apparsa sull´Espresso negli anni duri dei rapimenti, quelli dello stalliere Mangano, Berlusconi interpretava l´imprenditore pronto a tutto, anche a usare la pistola che platealmente esibiva sul tavolo. Nella seconda foto, imbracciando goffamente il cimelio di Gheddafi, interpretava il ruolo del cacciatore che si è pentito perché vuole i petrodollari, del colonizzatore colonizzato che si esercita nell´accattonaggio di Stato, come ha notato il Wall Street Journal contabilizzando il nostro imbarazzo che coinvolge, tra gli altri, Eni e Unicredit, la Fiat, la Juventus, Finmeccanica, Telecom, Impregilo e le Generali… E anche, ovviamente, i governi di centrosinistra e Massimo D´Alema che fu il primo capo di governo europeo a visitare la tenda di Gheddafi in Libia e, ancora nel giugno scorso, vantava una specialissima confidenza con il colonnello del quale presentava un libro a Roma.
Sono storicamente così i rapporti tra Italia e Libia, ferocia e affari, ma sempre con la memoria trasformata in un set cinematografico da film comico. Se il razzismo dei Graziani per esempio era accompagnato dallo sproloquio germanoide degli intellettuali di circostanza, come l´allora professore emerito Lidio Cipriani secondo il quale «la razza paleolitica del cirenaico» aveva «il mesotelio composto di resina vetrinosa», allo stesso modo quando Gheddafi si esibì alla Sapienza di Roma ebbe il plauso, nientemeno, del Rettore Luigi Frati, già sospetto di intenso familismo amorale, che segnalò «spunti di grande interesse» nell´elogio del terrorismo fatto dal colonnello.
Gheddafi ha sempre sognato di comprarsi l´Italia e di regalarla al suo popolo, ha adottato un intero paese in provincia di Rieti, Antrodoco, che aveva visitato quando Berlusconi lo portò all´Aquila: «Che bello. Diventerà la prima città libica d´Italia». E cominciò a distribuire soldi. Anni fa ci aveva provato con Pantelleria. E in Sicilia si faceva bellamente truffare da un buffo avvocato catanese, Michele Papa, che gli portava sotto la tenda di Tripoli imprenditori e politici, professori e giornalisti e gli fabbricò pure una moschea a Catania dove nessun musulmano si è mai sognato di entrare. «Io e Gheddafi – diceva Papa – semu comu i frati, siamo come i fratelli».
Alla stessa maniera Gheddafi ha adottato il Ciad, e ogni volta che ha ricevuto Berlusconi lo ha stupito con gli effetti speciali del potere assoluto, gli ha fatto indossare la galabìa, e lo ha fatto assistere alle spedizioni caravanserraglio con i pulmini Mercedes carichi di cereali, medicinali e datteri che il nostro presidente del Consiglio ha preso come modello per gli aiuti a L´Aquila.
«Abbiamo piegato il gigante italiano che finalmente ci rispetta», ha detto ieri nel suo interminabile messaggio, che le nostre agenzia di stampa hanno tradotto in modi molto diversi (i giovani manifestanti, per dirne una, sono «drogati» o sono «ratti»?) a riprova che in Italia l´arabo è ancora un imbroglio, roba da abate Vella anche nelle forze dell´ordine e nell´università – ricordate il caso Yara? – dove molti professori insegnano una lingua che non conoscono. E anche i nostri diplomatici parlano un cattivo arabo e sono stati spesso costretti a ricorrere all´aiuto del vescovo di Tripoli monsignor Marinelli a riprova che la Chiesa arriva sempre prima. Il vescovo non crede all´odio dei libici verso gli italiani e pensa che sia solo propaganda. Ma la propaganda mette sempre radici e fa germogliare pregiudizi, al punto che persino l´incosciente Calderoli dovette chiedere scusa quando, indossando le sue stupide magliette anti Islam, provocò la rivolta di Bengasi, con morti e feriti.
«Che volete farci? Non è che si possa sempre scegliere la persona da abbracciare» disse Andreotti che fu, probabilmente, il più abile nel gestire il vicino libico. Di sicuro abbracciava Gheddafi con la stessa logica con cui baciava Riina, sporcava se stesso per salvaguardare la sua idea di Italia. Berlusconi invece fa affari in proprio mentre promette (e non mantiene) televisioni, autostrade, infrastrutture, treni, mense scolastiche, offre la squadra della Roma e vende gli elicotteri di pattugliamento contro le migrazioni. Ed è ovvio che Hillary Clinton gli abbia chiesto di telefonare a Gheddafi. La foto del cavaliere è sui passaporti libici e la tv di Tripoli li mostrava spesso insieme nel deserto di notte, a sfidare il freddo e a contemplare la luna, con il viso dell´uno che diventava in dissolvenza il viso dell´altro. Ma è un disastro per Berlusconi l´ostilità sia di Gheddafi e sia degli insorti, vale a dire di tutti: una sconfitta storica difficilmente rimediabile per l´Italia.

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