BENIGNI A CAVALLO E LA PATACCA SANREMO

Ci volevano le burle e le buffonerie di Roberto Benigni a cavallo, felice parodia del monumento risorgimentale, per farci capire che nonno Ciampi ce l’ha fatta e che il nostro brutto inno è finalmente diventato un inno. Anche se è vero che dobbiamo soprattutto alla Lega, alla sua cafonaggine, la promozione di quell’oltraggiata marcetta di Mameli che sino a qualche anno fa nessuno di noi ascoltava con passione. Benigni l’ha snodata come un corpo vivo, l’ha mormorata e l’ha resa smodata, e ridendo “dell’elmo di Scipio” ha dimostrato che è cresciuta così tanto nel sentimento nazionale che adesso davvero funziona come segno di forza della patria. Al punto che ormai si nega all’inno chi vuol negarsi all’Italia. Ed è un bel successo per questo Festival che nel 1951 partì come una seconda spedizione dei Mille, la canzone italiana contro il Borbone della canzone napoletana che all’epoca era la nostra identità. Il festival aveva la missione di rendere nazionale la canzone, Nilla Pizzi era l’antidoto a Giacomo Rondinella. Achille Togliani e il duo Fasano salparono dallo scoglio ligure di Sanremo come Garibaldi era salpato dallo scoglio ligure di Quarto.

E però, nonostante il living aperto di caos e di eleganza di Benigni, le sue battute su Mameli e Berlusconi, sull’Italia nazione “minorenne”, sulle “mie prigioni” che Pellico scrisse pensando a Silvio, e sul Cavour “beccato con la nipote di Metternick-Mubarak” di nuovo a Sanremo l’Italia non c’era, se non come falso, come patacca a partire dal ridicolo balletto di burattini tricolori che hanno svilito anche il Guglielmo Tell di Rossini. E non c’è peggio che far sventolare una bandiera gigante per surrogare la patria. Benigni l’ha elevata ridendone e la retorica nazionalista e le monumentali fanfarate l’hanno ricacciata nella nebbia, nel miraggio.

Sono sicuramente un falso “U surdatu nnamurato” e il soldato di “Addio mia bella addio” che non è mai esistito perché i guaglioni e i picciotti si sparavano sui piedi pur di non consegnare all’esercito italiano la propria fragilità, pur di non partire militari: “Io la guerra non la voglio far” cantava Gaber che ieri nell’Italia-patacca di Sanremo c’era in effigie, anche lui sventolato e dunque tradito. Non c’era invece il soldato di De André, così premuroso verso un nemico che “imbracciata l’artiglieria / non gli ricambia la cortesia”. C’era lo stucchevole amore delle canzoni modulate sul miserere cattolico, sull’afflizione e sulla sofferenza come cantilene, e anche il cielo in una stanza ha perso la sua carica eversiva di libertinaggio. C’era la povertà come allegro sogno delle mille lire al mese, che Patty Pravo ha massacrato, ma non c’erano la miseria e il malessere pesante di un Paese, allora come oggi, disposto a tutto. E c’erano il “sole mio” celebrato dall’inquietante Anna Oxa e la solita “mamma / ritorno da te” che sono due nostre disgrazie nazionali, il sole che ottunde e la mamma che ci condanna all’Italietta dei bamboccioni. E “l’italiano con la chitarra in mano” è lo stereotipo di cui ci vergogniamo. Per fortuna la bellissima interpretazione di Al Bano ci ha fatto capire che più ascoltiamo “Va pensiero” e più correrà a nascondersi il cattivo pensiero della Lega che vuol trasformare la colonna sonora del Risorgimento nell’inno della secessione. Alla pessima interpretazione della star leghista Davide Van De Sfroos, che vuol dire contrabbandiere in lombardo antico, è stata invece affidata “Viva L’Italia”. Questo ‘contrabbandierè è un bravo e stimato musicista bardo ma era fuori luogo nella patacca nazionalista e forse proprio perché è di qualità, un po’ come Battiato che sembrava il finto direttore d’orchestra, lo Scannagatti di Totò che fa l’audizione presso l’editore Discordi.

Non c’erano le canzoni della liberazione e quelle popolari della sinistra, le mondine e i morti di Reggio Emilia, né c’erano le canzoni del ventennio, Papaveri e papere, e “svegliati con il gallo/ specchiati nel ruscello” e niente telefoni bianchi e tanghi della gelosia, niente turbamenti erotici, non c’era la liberazione sessuale di Patty Pravo. E Masi e La Russa in prima fila sembravano i padrini di Mazzi e Mazza, direttori della mediocrità.

Anche Sacco e Vanzetti è solo la parodia dell’orgoglio nazionale perché se non fossero stati italiani ma francesi o inglesi o tedeschi gli americani non si sarebbero permessi di assassinarli. E il Dio morto di Guccini? E la locomotiva che corre contro i padroni? E lo shampoo? E le canzoni di protesta? E Luigi Tenco che seppellì Sanremo?

Prese una a una queste canzoni sono quasi tutti classici e quindi emozioni da cartolina, se le cartoline esistessero ancora. Ma tutte insieme non compongo l’epica nazionale delle finali di calcio con Pertini, dell’identità che da Bolzano a Cefalù è fatta di acqua e di monti, di caratteri e di ricette gastronomiche, di un’idea di bellezza, della commozione dinanzi alle immagini di Santa Croce o del Cupolone o dell’Etna o delle maschere del Carnevale di Venezia, della scuola e delle prefetture, degli oratori salesiani e dei servitori dello Stato, dei preti buoni e delle sezioni del Pci, delle facce bruciate dei marinai e dei contadini, di tutto quello insomma che ha un reale rapporto con le nostre memorie, non bandiere che sventolano ma radici nascoste nel profondo dei tempi e della storia, come quel sorriso contagioso che ci scambiamo cantando “poi di improvviso venivo dal vento rapito/ e incominciavo a volare nel cielo infinito” di un Paese dove è dolce anche naufragare.

(18 febbraio 2011))

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