IL RACCONTO Sneja la zingara e le baracche della morte “Ecco come vivono gli invisibili di Roma”


Sneja la zingara e le baracche della morte "Ecco come vivono gli invisibili di Roma"  

ROMA – “Hai mai visto  –  mi dice Sneja  –  un funerale di bimbi celebrato in slavo antico? Gettano fiori lungo la strada, e nelle bare ci mettono di tutto, anche l’Efferalgan e il Vicks Vaporub perché non si sa mai, ci si può raffreddare durante il viaggio verso il paradiso”.
Sneja è magra e non somiglia allo stereotipo della fattucchiera, quella che Walt Disney fa vivere ai piedi del Vesuvio. Il suo pessimismo allegro è contagioso: «Cosa credi? Anche noi zingari abbiano i nostri zingari» e quei bimbi sono morti «perché non avevano soldi sotterrati nelle pentole» ai piedi di quegli alberi solitari e scarni lungo le sterpaie dell´Appia Nuova. «Sono morti perché erano i nostri barboni» dice Sneja e ride, ma senza rumore. «Non ci sono tra di voi famiglie povere che muoiono perché esplodono le stufe, perché il fuoco li assale di notte?»

Le racconto che sono stato lì dove c´era il campo e adesso non c´è più nulla, una sedia, una bottiglia vuota, i sigilli su un reticolato che delimita una distesa brulla e la polizia scientifica che ancora esamina – mi pare – ciuffi solitari di erbacce selvatiche. Sneja mi conferma che per scaldarsi riempiono di alcol la solita, immancabile pentola di ferro e incendiano carta, stracci, legno, plastica, «e perciò i bambini d´inverno hanno sempre addosso delle ustioni, ma quelli del tribunale dei minori non vogliono capire che non si tratta di

maltrattamenti». E mi dice che c´è una preghiera bellissima che finisce così: «Dio che non sei di pietra, Dio che non sei di marmo, ti scongiuro apri le porte del carcere».

Nella notte una ruspa benedetta ha distrutto quelle quattro baracche che ospitavano una ventina di disperati e su Youtube al mattino presto c´erano già le immagini che ora guardo insieme a Sneja: «Per chiedere l´elemosina bisogna sapere piangere a comando e uno storpio o un cieco possono essere una ricchezza, ma qui è tutto vero, il lamento della madre, le coperte bianche sulle spalle, le autobotti dei pompieri, il fumo, mi vengono i brividi». E a me vengono in mente le deportazioni e l´ultimo bel libro di Roberto Calasso (“L´ardore”) dedicato alla cultura indù, ai Veda: « I nazisti hanno perseguitato e assassinato a centinaia di migliaia proprio gli unici veri Ariani d´Europa, gli zingari, Rom, Sinti. È ben noto che parlano una lingua arcaica neo indiana, che è strettamente imparentata con il dardi, il panjabi e lo hindi moderni».

Qui invece si parla romanesco. Mi avvicino a un vigile urbano che si mette a fare sociologia: «A dotto´, te auguro d´avercelo sotto casa un bel campo rom». I corpicini sono all´obitorio del Verano, per i genitori non c´è pena che la giustizia possa loro infliggere paragonabile a quella che hanno già subito. «Che posso fare io senza i miei figli?» ripete la mamma a cantilena e subito arriviamo noi giornalisti che sogniamo le lacrime dei lettori.

Sneja mi ha accolto e mi porta in giro perché in Sicilia abbiamo un caro amico comune che mi ha molto raccomandato. Ha trent´anni ma ne dimostra cinquanta, la camminata è davvero elegante, si vanta di conoscere tutti i Rom di Roma. E mi racconta che c´è un giostraio che li cerca così, giovani e poveri come quei bimbi che sono morti, li arruola, li alleva e li addestra «topi per infilarsi negli appartamenti, serpenti per sgusciare nelle metropolitane, rane per…». Ehi, Sneja, sei più razzista di un´italiana dei Parioli!, reagisco senza crederci.
Mi dice che il giostraio ha un dente d´oro, «è bellissimo». A Roma i denti d´oro li mette un certo Dragan che di mestiere fa il pentolaio e l´allevatore di cavalli. «È un grande capo. Ma scordati di incontrare Dragan, è alto due metri, se vuoi te lo faccio vedere da lontano». Sono circa le 15 e questo campo Rom, a cento metri dalla pista d´atterraggio di Ciampino, è quello che gli urbanisti chiamano un non luogo, che sarebbe credo un “dove” che sta tra l´essere e il non essere e nel quale non vorresti mai entrare e dal quale temi di non potere uscire. Sneja mi dice di non fare domande: «Vedi, quello si chiama Gringo» e scopro l´integrazione dei western all´italiana. Quell´altro col cappello con la piuma di pavone si chiama Idriz: « Riscuote gli affitti». E quanto costa una baracca con la porta di cartone rosso? «Duecento euro al mese, e ti danno pure forchette e coltelli». Quell´altro che mastica tabacco «è Stevo, ed è nobile, porta l´anello con lo stemma, nessuno si permetterebbe di farlo lavorare, il Re lo vuole sempre nelle cerimonie più solenni». E dove vive il re, in una roulotte?

Ogni tanto sbuca dal nulla un mozzicone di arredamento che sembra abbandonato, un divano, una lavatrice, un carrello di supermercato. A quest´ora ci sono soprattutto uomini, quasi tutti disoccupati, e pochissime donne, conto in totale sei bambini, fumano Marlboro, tre sono senza scarpe e corrono tra l´immondizia, non ci sono gabinetti. Il campo non sembra organizzato secondo un´estetica, ho visitato in passato campi mongoli, le favelas in Brasile e le baraccopoli sulla sabbia tra Catania e Siracusa. Erano meno brutti di questi. Qui c´è armonia solo nelle corde che qualche volta reggono le casupole, forse perché è una perizia da allevatori di cavalli. E ci sono tutti i rottami della modernità, asciugacapelli, telefoni cellulari, un apparecchio per l´aerosol… Capisco che mi sfugge il codice, che c´è un cifrario che forse non si vede. «Le cose belle qui sono nascoste. I vestiti con lo strascico, i gioielli… A mio zio Halija, quando è morto, da solo, accanto ad un bidone che usava come stufa, gli hanno trovato addosso un sacco di soldi cuciti dentro un nastrone di cotone che portava attorno alla vita, sotto la camicia».

Non c´è l´acqua corrente ma ci sono il caravan, le automobili, e davanti ad ogni baracca c´è un odore diverso e non mi pare che siano profumi di cucina. Con Sneja vado al campo di via del Salone e poi mi porta in una piccolissima baraccopoli sulla Pontina, una ventina di casupole, è un campo abusivo come quello dei quattro bimbi morti «eccoli, i nostri barboni» mi dice. «Ma non pensare che i più poveri siano i più buoni, la povertà rende feroci, spesso sono i genitori che cercano il giostraio, per i bimbi è il debutto in società, l´ingresso nella vita che è durissima, ma tutti hanno una chance di diventare come Dragan. Eccolo, è quello lì». Vedo un ometto solido, panzuto, baffi neri, un caffettano nero sino ai piedi… «Ma non mi avevi detto che era alto due metri? Sarà si e no un metro e sessanta». «Che c´entra. Solo noi possiamo misurarne la vera altezza» e ride. E questa volta sta ridendo di me.

(08 febbraio 2011)

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