BARNEY / IL FILM E’ PIU’ BELLO DEL LIBRO

11 gennaio 2011 – IL FILM è più bello perché il libro di Mordecai Richler è stato scritto per essere visto: era già una fantasia cinematografica. Ma il film è più bello anche perché toglie il grasso ad un romanzo troppo lungo, ad un libro-vetrina più recensito che letto. Di sicuro Barney è tale e quale. Ma solo nel film, grazie alla faccia straordinariamente qualunque di Paul Giamatti, se ne capisce il successo. E ci voleva la dolente e disincantata maschera del vecchio Dustin Hoffman, ci voleva la trasformazione del “laureato” da figlio pasticcione a papà impasticciato per mostrare che la goffaggine, il sovrappeso, il turpiloquio, l’abuso di alcol e di fumo sono il comune disagio di vivere e non la cifra dell’eversione o dell’irrisione. E alzi la mano chi non si è sentito infelice durante quella grottesca fatica che è stato il giorno del suo matrimonio. Se come Barney non si è messo a inseguire un treno sbuffando e inciampando è solo perché nelle vere stazioni non ci sono treni per il cielo. Oggi nel destino di tutti ci sono divorzi e matrimoni e c’è purtroppo il metabolismo manomesso dei Panofsky, padre e figlio, quel perdere salute, ritegno e pudore che può essere giocato con aggressività o più spesso subito come pena.

Il papà di Barney muore in un bordello e Barney si spegne nella malattia che cancella il presente, e sono i momenti più emozionanti del film perché i due grandi attori per quasi due ore si erano fatti amare per le debolezze esibite e perciò è facile identificarsi con i loro corpi sformati. Sulla panchina di fronte all’acqua e con in mano una banana, Barney è al tempo stesso un uomo e tutti gli uomini del mondo. E la bella musica romantica di Pasquale Catalano ci accompagna dentro la tentazione, da tutti più o meno coltivata, di uscire dalla vita come dal recinto di una clinica, di sparire il più discretamente possibile.

Anche la bellezza raccontata non regge il confronto con la bellezza reale dell’inglese Rosamund Pike che è bella come un assoluto poetico perché dà corpo e colori all’archetipo della moglie rara. Dunque al centro del manifesto del disincanto c’è la moglie-incanto. Con i lunghi capelli da eroina western, gli abiti raffinati, gli occhi chiari e il sorriso mediterraneo, la bravissima attrice del teatro inglese è l’amica, l’amante e la mamma che tutti gli uomini sognano di sposare, la principessa azzurra, uno sguardo aperto e dritto, una signora che sa camminare bene e mangiare bene ma con un’anima diafana come le fibre di un sensitivo o come le palpebre di un neonato. Miriam è il rigore severo nel libro spacciato come la summa della più rigorosa mancanza di rigore.

Dunque il film spazza via gli umori e i pregiudizi della simpatica campagna promozionale che in Italia fece a Barney il Foglio di Giuliano Ferrara accompagnando il successo dell’edizione Adelphi sino alle trecentomila copie. E mette fuori la leggerezza allegra accanto all’esibizione pesante delle spazzature umane perché ci sono, è vero, i colori sporchi e forti del vomito, del suicidio, del gocciolarsi sul pigiama e, ancora, del lavoro come arte di arrangiarsi, del talento buttato via nelle soap opera. Ma ci sono anche i colori chiari e candidi dell’amicizia, dell’amore, della pietà e della famiglia che nel film è un’atmosfera calda e vibrante di mormorii, musica, tintinnii di bicchieri. Anche l’ebraismo è una famiglia allargata, benché bersaglio di snervata autoironia. E sono davvero belle le scene dei pranzi sentimentali.
Sarebbe stato facile per il regista Richard Lewis indugiare su quell’erotismo animale che gli uomini brutti esercitano sulle donne belle. Invece è a tavola che i corpi si toccano e subito si allontano, come se esprimessero sentimenti e pudori, e ogni volta che i bicchieri si urtano lo spettatore ha l’impressione che tutto prenda vita, anche i cucchiai, anche le tovaglie bianche.

Non è più vero che film e libri sono cose diverse. E quelle battute a ripetizione alla Woody Allen sono letteratura-cinema. In Manzoni le battute sono solo quelle del senno di poi e la grammatica non è iconica. Oggi invece i grandi scrittori scrivono con gli occhi e per gli occhi. Ma la lettura è mentale e l’immagine è organica. E infatti alla fine quando in un ristorante francese Miriam gli nega l’amore e gli offre l’amicizia mangiando un gateau au chocolat non c’è prosa paragonabile a quello scurarsi delle pupille di Barney che vale un cielo stellato.

Anche la scorciatoia del turpiloquio non regge il confronto con il garbo di Miriam. Oggi il garbo è molto più politicamente scorretto della coprolalia perché siamo tanti banalissimi cani di Pavlov con quel “cazzo” e quel “merda” pronunziati ad ogni scossa. C’è nell’idea (sbagliata) che Barney sia il turpiloquio sventolato come una bandiera una delle ragioni del suo speciale successo in Italia, che è un paese pieno di raffinati intellettuali con le movenze e la lingua dei facchini. È il Paese di Berlusconi che si proclama timorato di Dio e bestemmia in pubblico, di D’Alema che in tv manda “a farsi fottere” un esponente del fish-wrap journalism, è il paese dove parlano sporco anche i grandi imprenditori, come risulta dalle intercettazioni. Non è il paese di Miriam, non è il paese della grammatica e della prosa di Mordecai Richler. Una volta molti giornalisti italiani pensavano di poter scrivere Per chi suona la campana bevendo e fumando. Oggi pensano di scrivere come Richler mitragliandoci di male parole.

C’è infine nel film una piccola furbizia paesana che guasta la pulizia di una trama che è persino thriller, ed è la sostituzione di Parigi con Roma per compiacere – ci pare – il coproduttore italiano e infilarci qualche pubblicità più o meno occulta (una riguarda un ristorante). Ma Parigi e Roma non sono intercambiabili neppure come stereotipi, sono quadri mentali che non si somigliano. A Roma si andava per cercare la classicità e la Lambretta, solo a Parigi pittori e scrittori allenavano il genio nella bohème. Nell’Italia di quegli anni i geni come Richler venivano invece soffocati dalla vita agra.

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